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Il comandante di Auschwitz

Saggio

Thomas Harding
Newton Compton

Recensione di Antonio Piscitelli
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Pubblicato il 15/08/2014 12:00:00

 

 

LA PROCEDURA!

 

Il buon giorno si vede dal mattino. Evidentemente anche il cattivo. Così queste due vite che corrono parallele nel libro di Thomas Harding si spiegano col loro mattino, con l'alba delle rispettive esistenze.
I personaggi dei quali il libro ricostruisce le vicende sono di quelli che, provenienti da ambienti assai distanti, in termini sociali e culturali ad un tempo, non si sarebbero mai incontrati se il veleno dell'antisemitismo non avesse attossicato i tedeschi assai prima che l'aggressività del loro capo scatenasse il più cruento e feroce dei conflitti di cui serbiamo memoria.
Tedeschi entrambi, Rudolf Höss e Hanns Alexander sono educati ad amare il loro paese. Entrambi lo ameranno negli anni delle rispettive adolescenze, il primo arruolandosi (prematuramente e in barba alla Costituzione del 1871) nell'esercito, il secondo assorbendo dal padre il culto della fedeltà a una nazione e a una cultura delle quali l'uomo si sente parte integrante e necessaria. Si leggano le pagine dedicate agli anni di formazione dei protagonisti dell'inchiesta condotta da Harding con dovizia di documentazione e si capirà il perché dell'incipit di questa nota: l'imprinting giustifica i comportamenti futuri o li rende quanto meno possibili prima che essi si manifestino.
Rudolf Höss, nato a Baden-Baden nel 1901, come dimostra l'autore a fronte di biografie poco documentate che anticipano di un anno la sua data di nascita, riceve una rigida educazione cattolica, di stampo tradizionalista a quanto sembra, certamente estranea alla prima timida apertura alla modernità della Chiesa (La Rerum Novarum risale al 1891). Severe punizioni e forte induzione al senso di colpa ne sono caratteristiche dominanti. Destinato alla vita ecclesiastica, in parte per volontà paterna, in parte per la fascinazione del credo religioso, il futuro comandante di Auschwitz rinnegherà la primitiva fede quando si sentirà ingannato dal suo confessore («... sono convinto - scriverà nella futura autobiografia - che il mio confessore abbia tradito il segreto della confessione. Dopo quell'episodio persi la fede...»). Per abbracciarne un'altra, di fede, ben più perniciosa del fondamentalismo cattolico. Questo però riguarderà il suo futuro. Per ora, a sedici anni, la scelta è la guerra e la prematura militanza nell'esercito, una deliberazione che lo porterà a combattere in Mesopotamia. Lo spettacolo cruento della battaglia e la violenza guerrigliera rafforzeranno in lui una sorta di malsano attaccamento alla vita militare, al sentimento dell'obbedienza, al bisogno di disciplina, al culto irrazionale del leader carismatico del momento, nella fattispecie del comandante che ne esalta e loda le qualità segnatamente militari.
Più volte ferito, al termine del conflitto organizza, con altri commilitoni, una rocambolesca fuga attraverso i Balcani. Dalla Siria raggiunge la Germania con mezzi di fortuna, affrontando i pericoli e le avversità di una lunga marcia da lui stesso guidata.
Dopo due anni di lontananza, ogni cosa è cambiata a Mannheim, sua città di residenza: sua madre è morta, le sue sorelle sono finite in convento, il suo tutore ha venduto la casa di famiglia. Solitario e un po' misantropo com'è sempre stato, si arruola nei Freikorps, un'organizzazione paramilitare nota per le violenze compiute, forse anche subite, nella lotta al bolscevismo e nella rivendicazione dei territori a minoranza tedesca sottratti alla Germania dal conflitto appena concluso. Combatte, con metodi da guerriglia, prima in Lettonia, poi in Polonia e nella stessa Germania, contro qualsiasi gruppo sia in odore di socialismo. Inizialmente tollerati dal governo, in relazione agli umori politici del momento, i Freikorps sono dichiarati fuorilegge nel 1921. I militanti, Höss compreso, finiranno nell'orbita delle milizie hitleriane, le SA prima, le SS poi. Intanto si rende complice di un efferato delitto. Ne è vittima Walter Kadow, un ex militante dei Freikorps sospettato di tradimento. È condannato a dieci anni di carcere, ma la buona condotta e una fortunata amnistia gli ridaranno la libertà dopo soli quattro anni. Dal 14 luglio del 1928 Rudolf sarà libero di coltivare i suoi miti: Blut und Bloden (il fondamento ideologico della lega Artamanen alla quale aderisce e tra i cui adepti incontrerà la futura moglie, Hedwig Hensel), nazionalismo guerrafondaio, militarismo, slavofobia, antisemitismo.
Fu ispettore agricolo in una fattoria prima di arruolarsi nelle Schutzstaffel, le famigerate SS. A sostenerne la carriera fu un antico commilitone dei Freikorps, il tristemente noto Heinrich Himmler, nientemeno che il Reichsführer. L'apprendistato ha come scenario il primo campo di concentramento, quello fondato da Himmler in persona nei pressi di Monaco: Dachau. Vi impara l'«Attitudine all'odio» cara al Kommandant Theodor Eicke, il cinismo, la cieca lealtà al regime, il rispetto delle procedure e delle gerarchie. È presto pronto per una nuova promozione e al trasferimento al nuovo campo di Sachsenhausen, più prossimo a Berlino e ai palazzi del potere. Allo scoppio della guerra è Himmler stesso a volerlo a Oświęcim, la cittadina della Slesia superiore più nota come Auschwitz. In parole povere, il futuro campo di sterminio fu organizzato e gestito da lui. È qui che la "soluzione finale" avrà il suo centro operativo più efficiente e la produzione industriale di sofferenza, agonia e morte la dimora privilegiata.
Nel libro di Harding Rudolf Höss è dipinto come una personalità sfuggente, duplice se si mette a confronto il premuroso padre di famiglia col kommandant del campo di sterminio. Al processo di Norimberga dichiarerà di aver eseguito semplicemente gli ordini, di aver attuato una regolare procedura. Procedura! Qualcosa di analogo affermerà Eickmann molti anni dopo. Procedura!
Mi sembra mirabile il capitolo 5 del saggio, quello nel quale è dato conto delle fulminea carriera del gerarca. Vi trovi tutte le sfaccettature della poliedrica anima di Höss. L'episodio che chiude il capitolo è illuminante. Non ha nulla da invidiare alla versione letteraria che di fatti analoghi dà David Grossman («Vedi alla voce: amore», Mondadori 2008), anzi aggiunge all'immaginazione la forza delle nuda cronaca. Nulla vieta che il personaggio di Niegel del bel libro dello scrittore israeliano sia ispirato proprio al comandante di Auschwitz.
La formazione di Hanns Hermann Alexander (1917-2006) ha, invece, la connotazione della liberalità. È, col gemello Paul, un "figlio della guerra", concepito da Henny Picard e Alfred nel momento in cui quest'ultimo gode di un congedo dall'ospedale militare che dirige in Alsazia, a pochi chilometri dal fronte franco-tedesco. Il dottor Alexander guadagnerà non pochi meriti per il servizio prestato, mettendo precipitosamente in salvo i feriti e il personale sanitario quando gli Alleati avranno la meglio. La "croce di ferro prima classe" farà di lui una specie di eroe. L'onorificenza, gelosamente custodita, sarà uno dei vanti di questa famiglia ebrea completamente assimilata. L'altro prezioso cimelio è un'antica Torah ricevuta in eredità, ancor oggi usata dalla comunità giudaica di Londra.
I Picard e gli Alexander sono tedeschi di diritto e di fatto; vantano meriti e prestigio nella buona società. Superando le angustie del dopoguerra, Alfred diventa un personaggio ben noto nella Berlino degli anni Venti. Fonda e gestisce una clinica, ricopre la carica di presidente dell'Ordine dei Medici, vive in una casa lussuosa frequentata dal fior fiore dell'intellettualità tedesca. Frequentano il suo salotto e/o siedono alla sua tavola personaggi del calibro di James Franck, Albert Einstein, Max Reinhardt, Richard Strauss, Max Pallenberg, Marlene Dietrich.
Capite in che ambiente e in quale clima culturale vivono la loro infanzia i gemelli Paul e Hanns Alexander? Berlino, in quegli anni, è il cuore pulsante della cultura europea, se non mondiale. Hanno genitori nient'affatto autoritari e una tata, l'amata Anna, che "credeva che i bambini dovessero poter sviluppare una propria personalità" senza costrizioni di sorta.
I due gemelli fruiscono, talvolta abusano, della libertà loro concessa dagli adulti. Discoli, com'è nella natura dei bimbi, ne combinano di cotte e di crude, maturando un carattere gioviale e propenso alla celia, la più scontata delle quali è lo scambio di persona: persino a scuola l'uno è interrogato al posto dell'altro. Sono per temperamento, ancor prima che per identità etnica (un'identità che, peraltro, sentono e vivono assai poco, se non per il minimo di consuetudini familiari), la negazione vivente del Nazismo.
Vittima, come centinaia di migliaia di altri tedeschi, delle leggi razziali, la famiglia Alexander, alla spicciolata, è costretta a lasciare Berlino tra il 1934 e il 1936, quando ancora il giovane regime concede agli Ebrei di migrare, sia pure dietro pagamento di una tassa da capogiro. La loro patria li scaccia come cani: non è solo un crimine, è la stupidità eretta a metodo. Nessun governo lungimirante si priverebbe dei suoi cervelli migliori per le fisime del folle che lo presiede. I tedeschi, narcotizzati dalla frustrazione della crisi economica susseguente al crollo di Wall Street, dalla propaganda di Goebbels e dalla retorica urlante di Hitler, non sanno quanto gli costerà il conformismo da pecoroni e la guerra imminente da esso scatenata. Pagheranno anche loro, a caro prezzo, l'insipienza di una scelta sconsiderata.
Da rifugiati, gli Alexander maturano sempre più un sentimento di affezione verso il paese che li ha accolti e protetti, l'Inghilterra. Si ricostruiscono a fatica una vita, ripartendo da zero, adulti o giovani che siano. Allo scoppio della guerra, Hanns e Paul si offrono volontari nel "corpo dei pionieri militari ausiliari" dell'esercito britannico. Sia pure separatamente, daranno il loro contributo alla vittoria alleata. Poi la svolta che porterà Hanns sulle tracce dei criminali nazisti in fuga. Inizialmente ingaggiato come interprete, gli sarà affidato il delicato compito di rintracciare e affidare alla giustizia inglese Rudolf Höss, il ben noto comandante di Auschwitz. Fattosi esperto segugio, riuscirà a trovare e ad arrestare il gerarca. I processi ai quali costui sarà sottoposto sono oggi storia.
Ecco, in sintesi, i momenti salienti di questa bell'opera di Thomas Harding che la Newton Compton offre ai lettori italiani nella traduzione di Lucio Carbonelli. Il titolo originale (Hanns and Rudolf) mi pare più neutro di quello italiano che, invece, quasi riproduce l'einaudiano "Comandante ad Auschwitz", l'autobiografia che lo stesso Höss compose in un carcere polacco in attesa che la sentenza di morte fosse eseguita proprio nel campo da lui diretto.
Difatti la scelta di porre a confronto, a capitoli alterni, le due biografie mi pare giustifichi la mia ipotesi interpretativa: dare ragione del comportamento dell'adulto attraverso il processo che lo ha condotto alla maturità e alla consapevolezza delle scelte. Di qui anche un necessario corollario: sia Höss che Alexander sono restituiti alla loro nuda umanità. Né superuomini né demoni, i due hanno pregi e difetti, dignità e grettezza, arguzia e stupidità. Questo vuol dire una sola cosa: del bene come del male sono responsabili gli uomini e solo essi. È pretestuoso invocare ingiustificabili forze sovrumane quali determinanti delle nostre scelte e delle nostre azioni. Vittime e carnefici, allora come ora, muovono parallele nell'impervio cammino della vita. La parte dalla quale schierarsi è una libera opzione.
Vi siete mai imbattuti in qualche complessa pratica burocratica della quale ignorate la ratio? Vi sentite stupidi e frustrati, quasi vittime del meccanismo perverso che vi fa girare come trottole da un ufficio all'altro, magari per un timbro o una firma. Se provate a chiedere il perché di tanta farraginosità, vi sentirete rispondere dal burocrate di turno che quella è la procedura. La Procedura!
Bene, ogni volta che mi trovo in una situazione del genere (e vi assicuro che mi ci sono spesso trovato), m'insorge il medesimo pensiero: costui è un mio nemico, un potenziale nazista. Se il caso mi volesse sua vittima (e in parte già lo sono), affermerebbe di tormentarmi (e in parte già mi tormenta) perché segue una procedura della quale non è responsabile. Tutti così i burocrati. Eppure sono uomini come me. Come me? Non del tutto, direi non del tutto. Loro si guadagnano la pagnotta applicando procedure; io me la guadagno sforzandomi di pensare.

 

Antonio Piscitelli 


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