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Ogni lettore, quando legge, legge se stesso. L'opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in se stesso. (da "Il tempo ritrovato" - Marcel Proust)

L’albero della vita.

di Daniela Ronchetti
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Pubblicato il 08/01/2011 14:18:18

"Attorcigliato su me stesso, senza foglie. Rinsecchito,specchio dolente di un mondo alla deriva, vivacchio in attesa della fine.Mi guardo scorrere in questo misero e puzzolente specchio d'acqua, e se non fosse per l'umore acquoso che mi bagna le radici, sarei gia' morto da tempo."
" Il tempo scorre ai miei piedi con il torrente d'acqua che continuamente va per non tornare mai piu'. Ma non e' sempre stato cosi'"
E nel frusciare queste parole, il vecchio albero somigliante ad una mangrovia disseccata, si stiro', in tutta la sua maestosa e, ormai trascorsa grandezza.Cerco' quasi di ghermire il cielo, e con braccia secche e nodose, sembrava voler agguantarne l'azzurro e lo scintillio dorato del sole.
"Io, l'albero della vita, condannato a finire in questo mondo mediocre.Io che ho visto e vissuto l'alba della vita e cio' che e' nato da essa.
Ero li', nel cosiddetto paradiso terrestre. Non capisco queste due parole. So soltanto che allora ero pieno di vita. Il mio fusto protendeva rami giganteschi verso un cielo perennemente violaceo, dove fascinosi soli di luce danzavano infinite danze , unendosi e lasciandosi, per correre impazziti ad illuminare angoli nascosti di quello strano mondo. Non cadevano, restavano li', in eterno movimento, quasi volessero, danzando, celebrare la Gloria di un qualcuno che ne dirigeva la corsa. E gli animali. Strani, diversi da quelli poi visti. Enormi o microscopici, intenti a correre, scontrarsi , incontrarsi lottandoin un puro gioco di forza. Strani animali ho detto. Formiche gigantesche,costruivano abitacoli grandi come montagne, alla cui ombra pascolavano placidi leoni e aggraziati bipedi dalla lunga proboscite e dalle corte zanne dorate. E poi le tenere tigri dai lunghi denti d'avorio. Agili cerbiatti pronti a percorrere al galoppo centinaia di chilometri se spaventati.E ancora lucenti farfalle argentate, e robuste api che solo a sfiorare i miei rami poderosi, perdevano il miele dai grandi favi poggiati sui dorsi alati. E aggraziati pesciolini blu, che saltando fuori dall'acqua, spiegavano grandi ali multicolori che li libravano in alto, verso i raggi accaldati delle stelle piu' remote.Ma quello che mi incuriosiva maggiormente erano due bipedi, che spesso si addormentavano ai miei piedi. Erano strani.Sembravano studiarsi per capire chi dei due avrebbe avuto la meglio sull'altro. A volte sembravano quasi lottare tra di loro, ma non nella maniera giocosa delle altre specie. Piuttosto sembravano rabbiosamente intenti alla vittoria.Fu durante una di queste loro lotte o giochi,che si ferirono. Il sangue spillo' dal loro corpo, e quasi in un momento tutto il creato sembro' fermarsi per ascoltare i gemiti di dolore di uno dei due. Fu la fine.
Una tempesta di pioggia, freddo, grandine, neve ghiacciata, si riverso' su di noi. E poi il fuoco, violento, dirrompente, inaspettato . Scendeva dal cielo, come se i mille soli danzanti, si fossero improvvisamente sciolti in nuvole di fuoco. Gli animali cominciarono a correre, a scappare terrorizzati. Affamati per la mancanza di frutta e foglie e fiori, cominciarono a divorarsi tra di loro, in un crescendo di sangue e grida spasmodiche. Il buio era quasi totale, a tratti rischiarato dalla debole luce di una strana forma bianca che dondolava in cielo.E I due bipedi causa di tutto questo, forse, ma dico forse, coscienti di cio' che avevano fatto, fuggirono anche loro, per andarsi a rifugiare non so dove,per poi abbruttirsi in strane forme scimmiesche, da cui solo dopo molto tempo, riuscirono a riemergere. Ed io…Rimasi li'. Dapprima maestosa barriera di protezione contro la furia che si scatenava intorno a me. E poi, sempre piu' spoglio delle grandi foglie dalle dita aperte, pronte a raccogliere cio' che la natura intorno a me, stillava. I rami si rattrappirono e attorcigliarono sempre di piu', ed io persi il mio bellisimo colore bronzato, per divenire un sudicio scheletro, macchiato di marrone e sterco di poveri uccellini freddolosi.Una volta col passare dei secoli, qualcuno venne a studiarmi. Lo chiamavano Da.. Dar..Darwin, o qualcosa del genere. Ma anche lui non riusci' a capire la mia natura quasi immortale. Mormoro' qualcosa sull'evoluzione e mi misuro'.
Ora mi specchio nell'acqua malsana di questa piccolo palude salmastra. Sono circondato da volgari insetti e da cio' che resta degli splendidi animali che riposavano all'ombra dei miei grandi fiori fosforescenti. Poco tempo fa, uno di quei bipedi maldestri, mi e' venuto vicino per guardarmi e studiarmi, poiche', dice lui, sono vittima di uno strano parassita che mi divora la linfa vitale. Sara', ma io di parassita ne conosco solo uno, e non e' certamente dentro di me."
Cosi' fini' di strormire tra le foglie quello strano albero, mentre il rumore dell'imbarcazione che trasportava due uomini armati di ascia si avvicinava sempre piu'.

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