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Fatoş

di Franca Colozzo
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Pubblicato il 20/06/2016 20:22:41



Fatoş


Nel buio androne dello stabile, ai piedi della piazzetta prospiciente la moschea di Cihangir, Fatoş arrancava sotto il peso delle borse della spesa. Cinque figli l’attendevano nelle due umili stanzette del piano sopraelevato. Il marito, tassista, sarebbe rientrato verso mezzanotte dopo aver guidato per tutto il giorno nel traffico convulso di Istanbul.
La donna si arrabattava come meglio poteva, andando a servizio presso le famiglie straniere, numerose nel noto quartiere di Istanbul per la presenza di scuole e ambasciate. Slanciata e dai fini lineamenti incorniciati da un foulard, indossava una gonna di cotone dai minuti motivi floreali, secondo l’usanza delle donne anatoliche.
Le venne incontro il figlio di undici anni, mentre la figlia di sei l’accolse con urla festose. Fatoş si tolse il foulard e le scarpe e si affrettò verso la cucina per preparare la cena. Mise sul fuoco le pentole per riscaldare la çorba (minestra) e apparecchiò la tavola, posando il pane, ancora fragrante, nel cestino vicino alla zuppiera fumante.
«Presto, cocuklar (ragazzi), venite a mangiare! », così dicendo, prese tra le braccia la più piccola facendola sedere su un alto scanno. Quando tutti si furono accomodati, cominciò a versare la çorba nei loro piatti servendosi di un mestolo.
« Baba, nerede (dov’è papà)?» chiese la figlia più grande.
«Stasera lavora fino a notte fonda e torna tardi…»
«Sempre çorba, anne (mamma)! C’è dell’altro?» brontolò Can, il ragazzo più grande.
Fatoş racimolò una manciata di farina e iniziò a impastarla con un po’ d’acqua e un pizzico di sale. Stese la morbida pasta, così ottenuta, sul tavolo per farne dei gözleme, ripieni di formaggio e spinaci, che i famelici ragazzi si precipitarono a gustare.
«Lasciatene due a papà!» intimò loro.
«Mamma, dove hai lavorato oggi?» le chiese la figlia più grande.
«A casa di quell’insegnante del Liceo Italiano. Te la ricordi? Ti ho portato con me la prima volta che mi sono recata a casa sua…»
Fatoş, dall’aspetto curato e dignitoso, era ben voluta dalle signore residenti a Cihangir, in genere a seguito dei mariti che lavoravano presso le ditte straniere o i consolati di Istanbul.
Il suo operare, corretto e infaticabile, era molto apprezzato dalle signore del quartiere. Il giorno successivo si sarebbe dovuta recare a casa di una di loro. Mandati a letto i figli, finalmente si sedette sulla sedia accanto alla finestra aspettando l’arrivo di Mehmet.
L’ultima voce, che si stava già dissolvendo dietro l’angolo della strada, fu quella del venditore di Boza, una popolare bevanda di frumento fermentato con scarso tasso alcolico e di consistenza pastosa e dolciastra, che veniva venduta nottetempo. All’improvviso udì sulle scale i passi stanchi di Mehmet e gli andò incontro con aria assonnata.
«Cosa hai fatto oggi, tembel (pigra)?» l’apostrofò l’uomo con la sua consueta aria arrogante. Mehmet era sempre sgarbato e violento verso la povera moglie e spesso la malmenava.
«Sono stata a servizio da una signora italiana, che abita a Cihangir…» rispose Fatoş con un filo di voce.
«Non ti azzardare a farti vedere dai miei colleghi vicino alla stazione dei taxi di Cihangir! E’ disdicevole girare da sola per una donna musulmana, per di più sposata e con figli! Passerei per un poco di buono, un cornuto… Hai capito? »
«Sì, sì, farò come tu dici!» esclamò Fatoş, preoccupata, offrendogli il residuo pasto serale.
«Solo un’insipida çorba?» reclamò Mehmet con una zaffata pregna di alcol, reduce com’era da qualche osteria.
«No, no… c’è dell’altro.» ansimò Fatoş. Così dicendo, scoperchiò una padella e mostrò dei gözleme. L’uomo, rabbonitosi, le ordinò di riscaldarli subito sull’apposita piastra. Mentre i gözleme si rigonfiavano indorandosi, si domandò in quale locanda l’uomo avesse speso tutto il guadagno della giornata, bevendo rakı (liquore turco) e giocando a carte.
Gli avrebbe chiesto dei soldi per metterlo alla prova… La spesa del giorno seguente non poteva attendere! Dopo avergli somministrato il cibo, si accasciò come uno straccio sullo scranno vicino al tavolo osservandolo mentre ingurgitava grossi bocconi di cibo.
«Ho aspettato per chiederti un po’ di soldi…»
«Quali soldi? Ho guadagnato poco oggi e quel po’ me lo sono tenuto per me… Non mi irritare, sono stanco e vado subito a dormire!»
Fatoş, tremante di rabbia, si contenne per evitare le percosse. All’indomani avrebbe chiesto alla signora italiana un anticipo sul proprio lavoro. Si alzò faticosamente dalla sedia e iniziò a lavare le stoviglie sporche.
Dall’attigua camera da letto, già giungeva la monotona sinfonia dell’acuto russare del marito. Un giaciglio, poggiante su un piano di legno, occupava quasi l’intera stanza.
Con le lacrime agli occhi, si spogliò, facendo scivolare lungo le gambe, magre e slanciate, la gonna sdrucita di colore blu a piccoli fiori bianchi che le arrivava alle caviglie. L’adagiò distrattamente su una sedia della cucina, insieme al foulard e alla camicia, prima di andarsi a coricare.
Si rannicchiò in un angusto angolo del giaciglio per non svegliare il marito. Un altro giorno volgeva alla fine…
All’alba il canto del muezzin si levò alto nel cielo terso, srotolando la sua nenia sulle barche assopite lungo le rive del Bosforo. Fatoş s’incamminò verso la casa della signora italiana, ubicata nei pressi della stazione dei taxi di Cihangir. Distrattamente suonò il campanello del portone, irritata dal riso e dallo scherno di alcuni uomini.
Si volse per un attimo infinito… Mehmet, impassibile, era lì presso con una pistola in pugno.
Il rumore dello sparo coprì i commenti volgari dei tassisti. La donna si accasciò riversa sul marciapiede, grondante sangue dalla gamba destra. L’arrivo dell’ambulanza fu preannunciato dal suono sinistro delle sirene spiegate.
Fatoş rivolse un pensiero accorato ai figli prima di perdere conoscenza…






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