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I missionari

di Arcangelo Galante
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Pubblicato il 06/06/2023 11:27:40

Giunsero in un piccolo paesino dell’Italia settentrionale, quattro missionari di etnie differenti. 

Da tempo, la chiesa aveva divulgato ai fedeli l’idea di dover accogliere gli stranieri, essendo tutti figli di Dio. 

In realtà, l’incisiva mancanza di sacerdoti e la carestia di vocazioni, costringeva i vescovi a sottintesi compromessi, seppur mai rivelati pubblicamente. 

La storia lo insegna che il potere esercitato dal danaro e dal desiderio di controllo sulle masse popolari, sfruttando la fede e il buon cuore dei credenti, era una situazione affatto infrequente, in ogni angolo del mondo. 

Lupi travestiti da agnelli, a seconda dell’occasione, i nostri protagonisti concepivano la spiritualità in maniera assai moderna, al fine di mostrarsi aperti ai radicali cambiamenti della società. 

Ma per chi non rientrava nelle loro grazie, la mentalità medioevale nel rifiutarli, prendeva il sopravvento in ogni discussione. 

Accadde così che Vittorio frequentasse la parrocchia, ove ebbe modo di conoscerli in seguito al lutto di un parente. 

Vi si recò con l’intenzione di stabilire il momento opportuno per far celebrare una messa, a suffragio del defunto. 

Il giovane uomo, all'alba dei suoi 35 anni, si imbatté subito in uno dei consacrati, di nome padre Alfonso, da poco cinquantenne, e all’istante, in funzione di una grande esperienza di vita, egli capì di trovarsi dinanzi a un personaggio che si professava santo, nelle azioni, nient'affatto sincero e caritatevole. 

Si confidò, spiegando il motivo dell’ingresso in parrocchia e, possedendo una natura buona, però non stupida, non nascose la propria sensibilità particolare al prete che, essendo un autentico marpione, finse di accoglierlo con benevolenza e compassione.

 

Don Alfonso: Dove abiti?

 

Vittorio: Proprio dietro alla chiesetta, nella via che conduce qui.

 

Don Alfonso: Farò un salto a trovarti, perché ho preso a cuore la tua situazione. 

Conta su di me, vedrai, non sarai mai più solo.

 

Vittorio: Non dica così, la prego, ho già avuto abbastanza dispiaceri, fregature e ingiustizie, pure dai parenti. Non merito di essere preso ancora in giro.

 

Don Alfonso: Ma cosa dici, caro…?!

Dammi tranquillamente del tu, perché sono semplicemente un povero prete.

 

Invero, don Alfonso, che aveva parecchi fratelli perché sua madre era italiana, ma trasferitasi in Messico, godeva di uno stato economico vantaggioso, per nulla povero, come lui aveva fatto sempre intendere a tutte le anziane donne in preda all’efferato bisogno di considerazione e compagnia.

Per lunghi anni, prima che il destino lo rispedisse fuori dalla penisola italiana, aveva ingannato le persone, i frequentatori della chiesa e i saltuari visitatori, piangendo su di un’inesistente povertà familiare.

E i creduloni, lo avevano costantemente aiutato con regali, donazioni e riverenze, mossi dalla pietosa cattolica voglia di aiutare il prossimo.

Don Alfonso giunse alla casa di Vittorio che affettuosamente lo fece entrare, narrandogli la propria solitudine provata in conseguenza di una efferata discriminazione subita, a causa della sua innata omosessualità.

Il missionario non perse tempo, lo abbracciò sino a fargli sentire la calda intimità che stava affiorando tra i due. Vittorio, indebolito da attenzioni epidermiche che non lo facevano stare bene, non accettato e amato quale essere umano, piuttosto che preferito nei gusti sessuali, cedette alle avances.

Gli incontri si ripetettero, con regali, soldi e altre esternazioni affettive da parte di Vittorio, giacché il sacerdote era solamente un mercenario, finché un giorno accadde un episodio che fece letteralmente sbarrare gli occhi del cuore a Vittorio.

Venne la festa del paese e confabulando assieme per far cassa con le offerte per i poveri e la vendita di oggetti religiosi, i confratelli del pio uomo, don Alfonso, organizzarono una cena, ignorando speditamente Vittorio, grazie alla contagiosa superbia che li accompagnava nei loro pellegrinaggi e ritiri spirituali.

Ovviamente, il giovane, dotato di sincero altruismo e amore per i bisognosi, essendo perfino bello nell’anima, ma pure esteriormente, ci rimase malissimo.

Decise quindi di affrontare il sacerdote a viso aperto, ma dovette attendere il trascorrere di un intero anno, prima di far valere le proprie ragioni, perché il parroco, affermando di essere terribilmente impegnato con i suoi molteplici impegni di evangelizzazione, non poteva riceverlo.

Il fatto è che Vittorio, aveva intuito e realizzato con l’avanzare dei strani comportamenti del suo pseudo-amico e confessore, di essere stato usato, giammai compreso e amato, sebbene figlio di un unico Padre del cielo.

Stanco d’essere preso in giro, continuando a partecipare alle messe, nutrendo quel lato della preghiera autentica proferita con trasporto e sentimentalismo umano, incontrò don Alfonso in sagrestia.

 

Vittorio: Ti ho scritto dei messaggi, ma non mi hai risposto. C’è qualcosa che non va o che vorresti dirmi? Non ti piaccio più?

 

Don Alfonso: Guarda che ho da fare un sacco di cose e non posso stare dietro ai tuoi sbalzi d’umore. Buona vita!

 

Vittorio: Allora mi stai liquidando? Già… ho fatto bene a stare zitto, non credendo alle tue promesse da marinaio. Incredibile, non riesco a crederci!

 

Don Alfonso: Ma cosa vuoi da me? Chi ti ha chiesto niente? Scusa, devo celebrare un funerale. Ti saluto.

 

Vittorio: D’accordo Alfonso, perdonami se ti ho amato troppo e questo è stato il mio errore. Ci vediamo a messa, quando l’occasione lo consentirà. Buona giornata, don Alfonso.

 

Don Alfonso: Anche a lei !!!

 

I due si separarono, ma si incrociavano spesso in chiesa, durante le funzioni liturgiche e Vittorio proseguiva a testimoniare con costanza invidiabile il proprio credo, senza inviare alcun tipo di messaggio a colui che lo aveva incantato con ipocriti sorrisi e plagiato con squallide bugie.

Giunse un’improvvisa comunicazione ufficiale dal coadiutore del parroco, in merito alla scadenza dell’incarico in quella chiesa, annunciando la partenza di don Alfonso dal paese per ritornare nella sua Nazione, avendo ricevuto un ruolo più alto di quello che svolgeva lì.

Vittorio si sentiva poco bene, perché anche in assenza di rapporti epidermici con lui, non riusciva a odiarlo. 

Si doveva preparare una bella ricorrenza, per salutare don Alfonso con preziosi regali, una cena in suo onore e una meravigliosa torta.

Talmente abile, lui era riuscito a plagiare la folla di persone che riempivano la chiesa tutte le volte che saliva sull’altare per un motivo serio o uno più frivolo.

Vittorio sapeva che non ci sarebbe stato quel giorno, ma il dolore che lo ferì maggiormente, oltre la consapevolezza che la verità fosse emersa dopo tre anni circa, è il ritrovare don Alfonso all’ingresso della chiesa, mentre, con fare da attore di Hollywood, congedava coloro che gli si erano affezionati.

Gli sguardi dei due fecero scintille e dagli occhi di don Alfonso uscì una rabbia inveterata e compressa, similmente a quella di un diavolo colto in flagrante sul fatto.

Vittorio lo ignorò sino a quando, entrando in casa sua, poteva sentirsi al sicuro da una malignità inconcepibile. 

Si sedette subito, perché le gambe non lo reggevano in piedi e iniziò a sudar freddo, avendo compreso a fondo il gioco infido del prete che temeva una reazione inaspettata di rivalsa per ciò che aveva subito, sopportato e costretto a tenere celato agli altri missionari, non troppo differenti da chi sarebbe entrato nella storia come un ex parroco, parecchio in gamba e tenuto in alta considerazione dalla gente del paesello.

Fu esattamente la paura di don Alfonso a influenzare gli altri, studiando un pretesto credibile per far uscire definitivamente fuori dalla loro vita quel parrocchiano, divenuto un intralcio ai loro egoistici e ambiziosi piani.

Sapevano che qualora lo avessero fatto sentire una persona fastidiosa e inutile nel preparare l’altare che ogni mattina diligentemente Vittorio sistemava per i quattro missionari, egli, offeso per una osservazione spuria, avrebbe abbandonato l’impegno.

Lo caricavano ogni giorno di uno sbaglio ben congegnato, facendogli notare che il calice non era quello giusto, il libro sul pulpito era aperto su una pagina errata, le ostie mancavano dal tabernacolo e altro ancora.

Vittorio capii limpidamente che doveva lasciare la chiesa, in modo taciturno, senza reclamare nessun diritto. 

E così fece. Non lo si vide più seduto al primo banco situato a destra, accanto all’altare e quanti affermavano sulla Madonna e Gesù di volergli bene, non gli scrissero alcuna parola sul telefonino, chiedendogli dove fosse finito.

L’amarezza la serbò dentro di sé, recandosi ad ascoltare la messa in un’altra casa di Dio.

Stavolta, come uno spettatore, non prendendo confidenza con alcun sacerdote, perché il suo discernimento nel valutare persone e circostanze, era divenuto enorme.

Don Alfonso fu spedito in Messico, non volle mai più sapere di Vittorio, da lui reputato un giovane uomo dall’anima nera, a differenza della sua, che considerava linda e pura come quella di un bimbo!

 

(Nomi e fatti sono frutto di pura fantasia, ogni riferimento, è puramente casuale).


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