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Racconto d’estate

Romanzo

Leonardo Bonetti
Casa Editrice Marietti

Recensione di Giuliano Brenna
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Pubblicato il 01/02/2013 12:00:00

Terzo appuntamento della quadrilogia delle stagioni, di Leonardo Bonetti; dopo le stagioni più fresche ecco, in questo Racconto d’estate, una bella stagione interminabile, una estate, appunto, che tutto ha sommerso, non ci si ricorda quando ha avuto inizio, e non si sa dove avrà un termine. Un manipolo di ragazzi, novelli argonauti di borgata, capitanati da Zampa di cane, che è anche “colui che dice io all’interno del romanzo”, decide di partire per raggiungere quella striscia luminescente che appare all’orizzonte, e che segna la fine dell’estate. Stagione metaforica, dunque, questa estate perenne, con la quale si vuole delineare la nostra stessa società, che pare cullata dagli agi, ma senza rendersi conto che ne è prigioniera. Una società dalla facciata bella ed invitante, come può essere l’estate, ma, laddove non ha fine, diventa carcere, trappola, e per carcerieri vi sono i cosiddetti signorini, i chi di dovere, come li ha battezzati l’io narrante, designando così tutti quelli che credono di saperla più lunga, o di avere gli agganci più utili, quelli che amano ricordare al prossimo, lei non sa chi sono io. Oltre che una metafora, questo romanzo, è anche un viaggio di ricerca. Ricerca di qualcosa che ci è stato tolto, qualcosa che non sappiamo se riusciremo a trovare ma che vale comunque la pena di cercare; e metafora in quanto nel corso del viaggio i nostri eroi si imbatteranno in tutta una serie di figure archetipali e della letteratura e della nostra società, pasciuta ed addormentata nella sua estiva sazietà.

Nel corso della narrazione, si fondono e si assommano vari tratti e aspetti della narrativa moderna, frammenti di Novecento italiano, incastonati in filoni di Ottocento francese. Ad esempio, il rifuggire del nostro piccolo gruppo i signorini, non ricorda forse l’odio dei Verdurin verso i noiosi, rifuggiti come la peste. E non è forse vero che quando una misteriosa figura fa invaghire, ricambiata, la Giusy del gruppo, il piccolo clan si richiude su di essa per salvaguardare l’unità del gruppo, così come si teme che Swann possa distogliere Odette dagli appuntamenti nel salotto di quai Conti. E proprio nel finale del romanzo si cela il doppio proustiano coi Verdurin, che nel Tempo ritrovato finiscono coll’innalzarsi simbolicamente verso l’aristocrazia, lasciando svaporare tutta la loro alterigia ed alterità, per fondersi con l’ambiente che sembra accoglierli dopo averli dilaniati. Così il nostro gruppetto, dopo essere stato crivellato di colpi, si fonde con l’elemento che li ha accolti dopo mille peripezie. Ed è il finale, aperto, volutamente ambiguo ed incompiuto, a sottolineare il tono picaresco del romanzo, che nell’incompiutezza quevediana, promessa di nuovi viaggi ed avventure, ha la sua cifra e caratteristica. Ma i nostri novelli bricconi, questi Verdurin dei sette mari, cosa vedono nel loro viaggio? Vedono uno spaccato della nostra società, specchiantesi nella storia sociale e della letteratura, con tutto il suo crogiuolo di stilemi e vezzi, dal Rosenkreutz delle Nozze alchemiche sino al Rugarli della Troga, col suo sabba dei potenti della terra. E, soprattutto, tra le righe del romanzo ciò che scorre e vibra, incessante, è un desiderio di ricerca, una domanda inespressa che nella anelata risposta trova la sua completa formulazione.

Se questo fosse un romanzo a sé stante, ci si potrebbe fermare ad ammirare la perfezione della costruzione e l’eleganza del linguaggio, qua reinventato da Bonetti, modellandolo su quello di certi telefilm degli anni Sessanta, mescolato allo slang delle periferie. L’abilità dell’autore sta nel non scivolare mai nella volgarità, o nel facile calembour da cabaret, invece riesce a dare vita ad un linguaggio colorito e singolare, apparentemente da strapaese in certe affermazioni del parlato, ma leggero ed aulico nella sua costruzione, preciso ed incalzante in ogni suo punto, lasciando al lettore la sensazione di una grande naturalezza, pur nel suo essere sempre perfettamente misurato, costruito con eleganza ed erudizione, e senza cader mai nel banale o nel già visto. E direi che non è poco, soprattutto perché Bonetti, sceglie una sua via, crea un suo linguaggio, senza copiare mai, forse con una strizzatina d’occhio al Gadda e a Moravia, qua e là.

Tuttavia, come dicevo, nel considerare questo romanzo, non si può non andare col pensiero al primo dei romanzi della quadrilogia (ad oggi ferma a questo Racconto d’estate, ma l’attesa è ormai tanta per la quarta parte), Racconto d’inverno, perché Racconto d’estate ne è l’immagine speculare e negativa. Laddove il primo racconto era rinchiuso nel gelo, dentro una guerra, e tra quattro – claustrofobiche – mura, il racconto d’estate è al caldo, in uno spazio sconfinato – il mare, l’Africa, i deserti – e sempre all’aperto. Ma pur sempre di una ricerca si tratta, ricerca finalizzata ad una evasione dal reale circostante, prima una guerra – misteriosa, interminabile – ora una calda stagione che tutto permea, simboli, entrambi, di una società che non è fatta per l’uomo, ma che è invece oppressione e malessere, e dalla quale l’autore cerca una via di fuga, un nuovo sé, in un nuovo dove, al riparo dai mali della società, una nuova circostanza. I paralleli fra i racconti d’inverno e d’estate sono molteplici, quasi una fitta trama, celati assai bene, sono frammenti quasi invisibili, ma ben presenti, ed una volta avvistati riescono a gettare una nuova prospettiva sulla lettura, raddoppiandone il significato e la portata. La creatura alchemica fa un po’ da specchio magico fra i due mondi: attraverso il piccolo ed ignudo Mercurio, rivediamo i sotterranei della villa immersa nella faggeta e il suo ribollire che, finalmente, ha dato alla luce una creatura. Anche il bosco, creatura amata da Bonetti, in Racconto d’estate si estende ancor più sino a diventare foresta animata da mille sguardi e mille creature, la faggeta di montagna, misterioso riparo, diventata amabile bosco, capace di proteggere in Racconto di primavera, diventa qua vasta foresta, protezione, ma anche rito di passaggio verso una nuova dimensione.

Dunque, romanzo di passaggio e di scoperta, tassello fondamentale nella ricerca incessante di Leonardo Bonetti, che dimostra in questo romanzo le sue grandi capacità inventive e di narratore, costruendo un mondo capace di agire animato da personaggi, umani e concreti, che finiranno col volatilizzarsi nel cielo, ma non chiamiamolo Palazzeschi!


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