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Sophìa

Poesia

Marco Gabrielli
Aletti Editore

Recensione di Gian Piero Stefanoni
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Pubblicato il 07/05/2013 12:00:00

Riannodare i legami interrotti, rivivendoli ed eternandoli nella (ri)scrittura: quale altra aspirazione, quale altra fede si nasconde dietro ogni verso d’amore, soprattutto se racchiuso nella claustrofobia delle assenze e dei sentimenti spezzati ? E’ quello che si propone Marco Gabrielli con il suo “Sophìa”, diario, o per meglio dire, Canzoniere quasi d’un amore finito durato undici anni e qui celebrato in tutte le sue più diverse fasi (come nella prefazione stessa ci ricorda) tramite gli stati d’animo relativi. Dall’entusiasmo dell’incontro, quindi, e della conoscenza a quello del desiderio, dall’intimità acquisita alla disillusione e alla malinconia degli equivoci e delle chiusure, trentasei poesie - con invocazione, esordio ed epilogo - a delineare un percorso costellato di corteggiamenti e schermaglie, di passionalità e ritrosie secondo i consueti giochi d’amore tra i sessi. Tutto ciò raccontato in una lingua che guardando al passato nell’ossequio della classicità del canone, al tempo stesso ne tenta necessariamente la conciliazione con le contemporaneità dei costumi e delle forme. Così, il nostro innamorato nella rassegna dei propositi di servitù e obbedienza cortese all’amata, nelle lodi delle virtù e delle grazie quasi divine di questa, nel crogiolo degli impulsi e degli irretimenti sopra accennati - tra bellezza assoluta e carnalità dirompenti - muove a una conoscenza di sé tramite la conoscenza dell’amore, tramite il sé dell’amore, che ha nei suoi lineamenti ora assorbenti ora estranianti la propria antica e non scalfibile modernità (in questo caso poi, il rimando al significato di conoscenza inciso nel nome di lei sembra non essere iscritto a caso , come in uno scherzo dei destini e come nell’appello iniziale ad Atena, Dea greca delle arti, della scienza e della giustizia). Stazioni di una malia, anche, scandita volta per volta dagli aggettivi stessi incisi nei titoli e sovente, naturalmente, riferiti alla donna: “Pura”, “Perfetta, “Tenera”, “L’Eletta”, “Giocosa”, “Attrice”, “Virtuosa”, “Gloriosa”, per citarne alcuni. Eppure, in tanto slancio, nell’ardore e nel dolore, qualcosa nella narrazione lirica qui non arriva, purtroppo non funziona. Probabilmente, infatti, il testo alla lunga finisce col pagare un eccesso di ripiegamento dell’autore, spesso al limite di un solipisismo raramente funzionale. Il rischio quindi a cui il lettore va incontro è quello della noia all’interno di un copione tracciato e cantato con una pomposità e una verbosità insapore, escludente, dietro al quale Gabrielli più che celebrare un amore sembra a tratti celebrare se stesso, in un fare e disfare privo di ironia, o di un’autoironia davvero coinvolgente. Piuttosto, in quelle isole di luce di abbassamento di tono in cui l’uomo si sorprende con sgomento, senza artifizi, di fronte a una grazia e a una bellezza che lo rivela pienamente nei suoi limiti, il dettato finalmente si libera in un sentimento continuamente ed umilmente riappreso e dove la stessa gioiosità del gioco ha la brillantezza di un verso forte, consapevole del sentiero cui volge, lo spettatore nel suo teatro riconoscendosi. Da questo dire autentico, di cui riportiamo alcuni passaggi, è possibile allora ripartire ci pare di poter indicare. Come nel testo XVI, “L’onda”, dove nell’amarezza per la perdita dell’amore causata da proprie colpe - in una bella sicurezza lirica - sente la propria sofferenza non esser che l’onda “del vicino mare che’l mondo circonda”. O nel XXII, in “Amata”, certamente tra le migliori, in cui il riconoscimento della crescita personale dovuto all’amore e alle virtù di lei è luminosamente riportato nel rinnovamento della promessa in un inizio ricco di tenerezza: “Come il cavalluccio marino/, Che senza la sua compagna sta,/Monogamo muore,/ Così io mi spengo/ Senza Lei”. E forse non è poco, se alla briglia della scrittura, pur nella miccia delle accensioni, viene dato maggior controllo. Perché purtroppo non siamo molto d’accordo a proposito di quanto scritto nella presentazione da Beppe Costa. Se, nella bottega della poesia “dove si cercano le rime” e le rime si incrociano, si accavallano o si baciano è facile a volte perdersi, o cadere nella banalità, Gabrielli dovrebbe maggiormente soffermarsi sulla qualità o meno degli strumenti in possesso e la conseguente, necessaria e umile aderenza.

 


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