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Ogni lettore, quando legge, legge se stesso. L'opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in se stesso. (da "Il tempo ritrovato" - Marcel Proust)

Giornate di lettura

di Marcel Proust (Biografia)

Proposta di Redazione LaRecherche.it

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Pubblicato il 16/07/2010 02:50:47

Avete senz’altro letto le Memorie della contessa di Boigne. Ci sono «così tanti malati» in questo momento, che i libri trovano dei lettori, anche delle lettrici. Quando non si può uscire e far visite, si preferirebbe senz’altro ricevere piuttosto che leggere. Ma «in questi tempi d’epidemia», anche le visite che si ricevono non sono senza pericolo. C’è la signora che dalla porta dove si ferma un attimo - solo un attimo -, e dove inquadra la sua minaccia, vi grida: «Non avete paura degli orecchioni e della scarlattina? Vi avviso che mia figlia e i miei nipoti li hanno. Posso entrare?»; ed entra senza aspettare la risposta.
Ce n’è un’altra, meno franca, che guarda l’orologio: «Bisogna che rientri presto: le mie tre figlie hanno la rosolia; vado dall’una all’altra; la mia governante inglese è a letto da ieri con la febbre alta, e ho paura che sia il mio turno, perché non mi sono sentita bene alzandomi. Ma ci ho tenuto a fare un grande sforzo per venirvi a trovare ... ». Allora si preferisce non ricevere troppo e, dato che non si può sempre telefonare, si legge. Non si legge che nei casi più estremi. Si telefona innanzi tutto molto. E, dato che siamo dei bambini che giocano con le forze sacre senza rabbrividire davanti al lro mistero, del telefono ci limitiamo a pensare che «è comodo», o piuttosto, dato che siamo dei bambini viziati, pensiamo che «non è comodo», riempiamo "Le Figaro" delle nostre rimostranze, non trovando ancora abbastanza veloce nei suoi mutamenti l’ammirevole magia per cui alcuni minuti talvolta passano prima che ci appaia, invisibile ma presente l’amica a cui abbiamo voglia di parlare, e che, restando alla sua tavola, nella città lontana dove abita, sotto un cielo diverso dal nostro, dove il tempo che fa non è quello di qui, tra circostanze e preoccupazioni che ignoriamo e che ci dirà, si trova di colpo trasportata a cento leghe (lei, e tutto l’ambiente in cui è immersa), contro il nostro orecchio, nel momento in cui il nostro capriccio l’ha ordinato. E siamo come il personaggio della fiaba a cui un mago, per il desiderio che gli ha espresso, fa apparire in una magica chiarità la sua fidanzata che sta sfogliando un libro, versando lacrime o raccogliendo fiori, vicinissima a lui, e tuttavia nel luogo dove si trova in quel momento, molto lontano.
Non dobbiamo far altro, perché questo miracolo si rinnovi per noi, che accostare le nostre labbra all’assicella magica e chiamare - talvolta un poco a lungo, lo concedo - le Vergini vigilanti di cui udiamo ogni giorno la voce senza mai vederne i volti e che sono i nostri Angeli custodi in quelle tenebre vertiginose di cui sorvegliano gelosamente le porte, le onnipotenti Grazie alle quali i volti degli assenti sorgono presso di noi, senza che ci sia permesso di vederli; non abbiamo che da chiamare queste Danaidi dell’Invisibile che senza sosta vuotano, riempiono e si trasmettono le urne oscure dei suoni, le Furie gelose che, mentre mormoriamo una confidenza a un’amica, ci gridano ironicamente «vi ascolto!» nel momento in cui speravamo che nessuno ci sentisse; le serve irritate del Mistero, le Divinità implacabili, le Signorine del telefono! E non appena il loro richiamo ha risuonato nella notte piena di apparizioni, sulla quale le nostre orecchie sole si aprono, un rumore leggero - un rumore astratto quello della distanza soppressa, e la voce della nostra amica si rivolge a noi.
Se, in quel momento, entra dalla sua finestra e viene a importunarci mentre lei ci parla, la canzone di un passante, la trombetta di un ciclista o la fanfara lontana di un reggimento in marcia, tutto ciò risuona altrettanto distintamente per noi (come per mostrarci che è proprio lei a essere vicina a noi, lei, con tutto ciò che la circonda in quel momento, ciò che colpisce il suo orecchio e distrae la sua attenzione): tratti sobri e incantevoli di color locale, descrittivi della via e della strada provinciale sulla quale dà la sua casa, e tali quali li sceglie un poeta quando vuole, facendo vivere un personaggio, evocare il suo ambiente attorno a lui.

È lei, è la sua voce che ci parla, che è là. Ma come è lontana! Quante volte non ho potuto ascoltarla senza angoscia, come se davanti a questa impossibilità di vedere, prima di lunghe ore di viaggio, colei la cui voce era così vicina al mio orecchio, sentissi meglio cosa c’è di ingannevole nell’apparenza dell’accostamento più dolce, e a quale distanza possiamo essere dalle cose amate nel momento in cui ci sembra che ci basterebbe stendere la mano per trattenerle. Presenza reale - questa voce così vicina - nella separazione effettiva. Ma anticipazione anche di una separazione eterna. Molto spesso, ascoltandola così, senza vedere colei che mi parlava da così lontano, mi è sembrato che questa voce mi parlasse dalle profondità da cui non si ritorna, e ho conosciuto l’ansia che mi stringerà un giorno, quando una voce ritornerà così, sola e non più legata a un corpo che non potrò più rivedere, mormorare al mio orecchio delle parole che avrei voluto poter baciare passando su delle labbra fatte per sempre polvere ...
Dicevo, che prima di deciderci a leggere, cerchiamo di chiacchierare ancora, di telefonare, chiediamo numero su numero. Ma talvolta le Figlie della Notte, le Messaggere della Parola, le Dee senza volto, le capricciose Guardiane non vogliono o non possono aprirci le porte dell’Invisibile, il Mistero sollecitato resta sordo, il venerabile inventore della stampa e il giovane principe amatore di pittura impressionista e autista - Gutenberg e Wagram! - che invocano instancabilmente, lasciano le loro suppliche senza risposta; allora, dato che non si possono fare visite, dato che non si può ricevere, e dato che le signorine del telefono non ci danno la comunicazione, ci si rassegna a tacere, si legge.
Tra solo poche settimane potremo leggere il nuovo libro di versi della signora de Noailles Les Éblouissements (non so se questo titolo sarà mantenuto), ancora superiore a quei libri di genio, Le Cœur innombrable e L’Ombre des jours; veramente alla pari, mi sembra, con le Feuilles d’automne o i Fiori del male. In attesa, potremo leggere quella squisita e pura Margaret Ogilvy de Barrie, tradotta a meraviglia da R. D’Humières e che non è che la vita di una contadina raccontata da un poeta, suo figlio. Ma no; dal momento che ci si è rassegnati a leggere, sceglieremo di preferenza dei libri come le Memorie della signora de Boigne, dei libri che ci diano l’illusione di continuare a far visita a persone a cui non si era potuto farne perché non si era ancora nati sotto Luigi XVI e che, del resto, non cambierebbero molto rispetto a quelli che già conoscete, perché portano quasi tutti gli stessi cognomi, i loro discendenti e i vostri amici, i quali, per toccante cortesia verso la vostra inferma memoria, hanno conservato anche gli stessi nomi e continuano a chiamarsi: Odon, Ghislain, Nivelon, Victurnien, Josselin, Léonor, Artus, Tucdual, Adhéaume o Raynulphe. Bei nomi di battesimo di una volta, e di cui si avrebbe torto a sorridere; essi vengono da un passato così remoto, che nel loro splendore insolito sembrano scintillare misteriosamente, come quei nomi di profeti e di santi che vengono iscritti abbreviati nelle vetrate delle nostre cattedrali. Jehan, a sua volta, anche se più simile a un nome di oggi, non suona forse inevitabilmente tracciato in caratteri gotici su un libro d’ore con un pennello intinto nella porpora, nell’oltremare o nell’azzurro? Davanti a questi nomi, l’uomo della strada ripeterebbe forse la canzone di Montmartre:

Braganza, ma è un bel tipo quello lì;
Mi sa che se la tira e anche un bel po’
Ché si è fregato un nome, lui, così:
Ma un nome come tutti gli altri, no?


Ma il poeta, se è sincero, non condivide questa allegria e, gli occhi fissi sul passato che questi nomi gli rivelano, risponderà con Verlaine:

Vedo, sento molte cose
Nel suo nome Carolingio


Un passato molto vasto vasto, forse. Mi piacerebbe pensare che in questi nomi, che non sono arrivati sino a noi se non in esemplari così rari, grazie all’attaccamento alla tradizione di alcune famiglie, furono un tempo nomi molto diffusi - nomi di contadini oltre che di nobili, e che così, attraverso i quadri ingenuamente colorati da lanterna magica che questi nomi presentano, non è solo il potente signore dalla barba blu o suor Anna nella sua torre che riusciamo a scorgere, ma anche il contadino chino sull’erba verdeggiante e gli uomini d’arme che cavalcano sulle strade impolverate del Duecento.
Senz’altro spesso questa impressione medievalosa suscitata dai loro nomi non resiste alla frequentazione di coloro che li portano e che non ne hanno né conservato, né compreso la poesia; ma si può ragionevolmente chiedere agli uomini di mostrarsi degni del loro nome, quando le cose più belle fanno tanta fatica a non essere ineguali al loro, quando non c’è un paese, una città, un fiume la cui vista possa appagare il desiderio di sogno che il loro nome aveva fatto nascere in noi? La saggezza sarebbe il sostituire tutte le relazioni mondane e molti viaggi con la lettura dell’ almanacco del Gotha e dell’orario ferroviario ...
Le memorie della fine del Settecento e dell’inizio dell’Ottocento, come quelle della contessa di Boigne, hanno questo di commovente, che danno all’ epoca contemporanea, ai nostri giorni vissuti senza bellezza, una prospettiva abbastanza nobile e melanconica, facendo di essi come una sorta di "primo piano" della Storia. Ci permettono di passare agevolmente dalle persone che abbiamo incontrato nella vita o che i nostri genitori hanno conosciuto - ai genitori di quelle persone, che in prima persona, autori o personaggi di quelle memorie, hanno potuto assistere alla Rivoluzione e veder morire Maria Antonietta. In modo tale che le persone che abbiamo potuto vedere o conoscere - le persone che abbiamo visto con gli occhi del corpo - sono come quei personaggi di cera a grandezza naturale che, in primo piano davanti allo schermo dei panorama, sfiorando con i piedi della vera erba e alzando in aria un bastone da passeggio acquistato dal mercante, sembrano ancora appartenere alla folla che li guarda, e ci conducono poco a poco alla tela dipinta del fondale al quale conferiscono, grazie a transizioni abilmente gestite l’apparenza del rilievo, della realtà e della vita. È così che di questa signora de Boigne, nata d’Osmond, cresciuta, come ci racconta, sulle ginocchia di Luigi XVI e di Maria Antonietta, ho visto spesso ai balli, quando ero adolescente, sua nipote, la vecchia duchessa di Maillé nata d’Osmond, più che ottuagenaria ma ancora superba sotto i suoi capelli grigi che, rialzati sulla fronte, facevano pensare alla parrucca a tre corni di un presidente di provincia. E mi ricordo che i miei genitori hanno cenato spesso con il nipote della signora de Boigne, il signor d’Osmond, per il quale ella scrisse le memorie e di cui ho trovato la fotografia nelle loro carte, con molte lettere che lui aveva indirizzato loro. Così i miei ricordi di ballo essendo legati per un filo ai racconti un poco più vaghi per me, ma ancora molto reali, dei miei genitori, ricollegano con un nesso già quasi immateriale i ricordi che la signora de Boigne aveva conservato, e ci racconta, delle prime feste alle quali assistette: tutto ciò tesse una trama di frivolezze, però poetica, perché finisce in stoffa di sogno, ponte leggero gettato dal presente fino a un passato già lontano e che unisce, per rendere più viva la storia, e quasi storica la vita, la vita alla storia.
Ahimè! eccomi arrivato alla terza colonna di questo giornale e non ho neanche iniziato il mio articolo. Doveva intitolarsi Lo snobismo e la posterità, ma non potrò lasciargli questo titolo, perché ho riempito tutto lo spazio che mi sarebbe stato riservato senza dirvi ancora una sola parola né dello snobismo né della posterità, due persone che voi pensate, probabilmente, non debbano mai essere chiamate a incontrarsi, per la massima gioia della seconda, e sulle quali contavo di sottoporvi qualche riflessione ispirata dalla lettura delle Memorie della signora de Boigne. Sarà per la prossima volta. E se allora qualcuno dei fantasmi che s’interpongono incessantemente tra il mio pensiero e il suo oggetto, come succede nei sogni, verrà ancora a sollecitare la mia attenzione e a distrarla da quello che vi devo dire, la allontanerò come Ulisse allontanava con la spada le ombre affollate attorno a lui, per implorare una forma o una tomba.
Oggi non ho saputo resistere all’appello di queste visioni che vedevo fluttuare, a mezz’acqua, nella trasparenza del mio pensiero. E ho tentato senza successo ciò che riusciva tanto spesso al maestro vetraio quando trasportava e fissava i suoi sogni, alla distanza stessa in cui gli erano apparsi, tra due acque mosse da riflessi scuri e rosa, in una materia traslucida dove talvolta un raggio cangiante, venuto dal cuore, poteva far credere a quei sogni che continuavano a inscenarsi in seno a un pensiero vivo. Come le Nereidi che lo scultore antico aveva rapite al mare ma che vi si potevano credere ancora immerse, quando nuotavano tra le onde di marmo del bassorilievo che le raffigurava. Ho avuto torto. Non ricomincerò. Vi parlerò la prossima volta dello snobismo e della posterità, senza giri di parole. E se qualche idea di traverso, qualche indiscreta fantasia, volendo immischiarsi in ciò che non la riguarda, minaccerà ancora di interromperci, la supplicherò subito di lasciarci tranquilli: «Stiamo parlando, non ci tolga la linea, Signorina!».



Tratto da “Il fantasma del bello”, Edizioni Medusa.
Traduzione di Luana Salvarani.

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