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Ogni lettore, quando legge, legge se stesso. L'opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in se stesso. (da "Il tempo ritrovato" - Marcel Proust)

La leonessa

di Luigi De Rosa 

Proposta di Redazione LaRecherche.it

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Pubblicato il 24/04/2018 20:06:49

 

[ Racconto terzo classificato al Premio Letterario Nazionale Il Giardino di Babuk - Proust en Italie, IV edizione 2018 ]

 

 

- E la iena che disse? -, chiese la bambina al padre, che aveva interrotto la lettura della fiaba perché distratto dal rumore dei cingolati che attraversavano la strada, di là dal muro di cinta del loro giardino. - Sei vecchia! -, gridò la iena alla leonessa, l’uomo riprese a leggere ma di nuovo s’interruppe. Lo sferragliare dei carri armati aveva ceduto il passo alle urla isteriche dei soldati in ritirata. - E poi?, che succede papà? -, chiese ancora la bambina, che aveva occhi solo per il libro di favole aperto fra le mani del genitore. L’uomo guardò la figlia come si guardano i propri bambini solo in certi momenti della vita, quando quello che sta per accadere - si è ormai certi -, cambierà la propria e la loro esistenza per sempre, poi chiuse il libro. Conosceva a memoria la fine della favola. Accarezzò la testa della sua bambina e le sussurrò in un orecchio cosa avrebbe fatto la leonessa.

Mi sveglio in un bagno di sudore. Ho ancora davanti agli occhi mio padre con il libro di favole stretto fra le mani. Mi chiedo, senza riuscire a darmi una risposta chiara e definitiva, come mai dopo tanti anni continuo a sognare questo episodio della mia infanzia. Con un senso di amaro disagio mi avvicino alla finestra della piccola cucina del monolocale che abito da qualche tempo. Al centro della finestra ho sistemato un piccolo vaso con una pianta speciale, la osservo con attenzione come ogni mattina da più di un anno e mi accorgo che oggi ad attendermi c’è una novità, fra le foglie verdi, sulla cima, è nata una piccola drupa. È l’alba. Attraverso i palazzoni popolari dell’Eur i primi raggi del sole di agosto si fanno strada fra le pareti di cemento con la stessa prepotenza dei pendolari che osservo di sotto, in strada, allungare il passo mentre dall’angolo della strada avanza il 73B diretto alla metropolitana. Studenti e operai sono a caccia di un posto a sedere. I raggi del sole sbattono sulla tendina che ho lasciato semi-aperta e gocciolano su questa ciliegia matura dandole un aspetto ancora più magico. La mia soddisfazione aumenta quando mi accorgo che non è la sola drupa a ornare i rami della mia adorata pianta. Provo a contarle queste grosse e succose ciliegie: una, due tre: sono sette in tutto. Sospiro a questo numero, quasi un segno del destino. Mereb Street n.7, è in questa strada che sono nata e che abitavo venti anni fa, quando vivevo ad Asmara. Sette eravamo in famiglia. Due genitori, un nonno e quattro nipoti. Sette gli anni di mia sorella Mariam prima che diventasse un angelo prendendo il volo su di una mina antiuomo. Sette gli anni di guerra prima della libertà. La mia era una casa colonica tirata su da muratori del bergamasco sbattuti in culo al mondo da un Duce che amava i lavoratori a patto che non pensassero con la loro testa. E, poi, ricordo le ampie vetrate che si aprivano su di un giardino con una splendida jacaranda piantata a sud della casa, accanto al muro di cinta perimetrale. Di là dalla jacaranda c’era una grande strada in terra battuta che percorrevano da mezzo secolo dromedari, cavalli e piccoli camion della Fiat. Sono quasi tentata di sporgermi dalla finestra per godere come da bambina della vista della magnifica chioma lilla della jacaranda, che piantò il mio bisnonno Yamane Werdes, ma il gorgoglio della moka mi risveglia da questo miraggio. Spengo il fuoco sotto la caffettiera. Torno alla pianta di coffea arabica. Mi ci sono voluti quasi due anni per ottenere questo risultato. Già, in qualunque posto io sia andata nella mia vita non ho mai rinunciato alle piante, sono la mia vita. Mia madre, Ghennet Lassie, quand’ero piccola, - e vivevo ancora ad Asmara -, rideva e mi canzonava sostenendo che se mi ci fossi messa d’impegno, avrei fatto fiorire il deserto. Quanta nostalgia! A Roma le mattine sono sempre così uguali, così insipide e incolori come l’Eur; un quartiere fatto per chi la Capitale non se la può permettere. Per fortuna nel mio peregrinare di profuga disperata feci la conoscenza di Olimpia e del suo giardino incantato; lei lo chiamava incantato perché era convinta che fra le piante e gli alberi non attecchisce mai la disperazione. Mi ci sono voluti ventiquattro mesi per far fiorire la mia pianta di caffè. È stato subito dopo la Pasqua del 2002, Olimpia si era ammalata improvvisamente, il cancro non ebbe pietà né di lei né di noi. Gina la figlia di Olimpia non resse a quello stillicidio di sofferenze continue ed io fui costretta a occuparmi di tutto in casa Veltroni. Dal mandare i bambini a scuola, fino a organizzare il funerale della povera Olimpia. È stato allora, durante quel lutto, quando a tutti gli altri ero sembrata la governante migliore che potessero avere i Veltroni, che mi ero resa conto di essere io stessa tremendamente sola. Eppure, per ironia della sorte, Olimpia, vent’anni prima, mi aveva assunto come giardiniera, credendo sulla parola alla mia laurea in botanica, mettendomi subito alla prova nel suo magnifico giardino. Chi l’avrebbe mai detto che sarei stata il perfetto giardiniere anche dei loro dolori e delle loro gioie. Da piccola mi ero avvicinata al giardinaggio perché vedevo le piante come la massima espressione di libertà e resilienza. A dieci anni piantavo i semi del caffè nel giardino di mio nonno che mi aveva insegnato il rispetto per la terra che ci dava da mangiare, anni dopo fu proprio la signora Olimpia a insegnarmi che l’arte del giardiniere va oltre la mera produzione di fiori e frutta, non è a riempire la pancia, ma alla cura dell’anima che aspira il vero giardiniere. Il giorno dopo il funerale afferrai carta e penna e scrissi a mio fratello Ziggy pregandolo di trovare il sistema di inviarmi una piantina di caffè. Gli avevo scritto: - Sono vent’anni che manco dall’Eritrea, avrei voglia di tornarci ma non lo posso fare e tu lo sai bene e se c’è una cosa che mi manca è il nostro giardino. Mi manca il profumo intenso dei fiori appena sbocciati, il colore bianco dei petali che macchiano il fogliame verde e che, in certe mattine bigie, quando il vento freddo si alza dagli altipiani, fa somigliare quella fioritura bianca a una miracolosa nevicata. Mi manca la mia amata Eritrea! -. Mio fratello in una delle lettere, che continua a inviarmi nonostante non gli risponda mai, perché ho sempre il timore che qualcuno possa fargli ancora del male, nascose alcuni semi di caffè in uno scatolino di plastica di quelli per lo spazzolino da denti. Quei semi hanno risvegliato incubi che speravo di aver dimenticato per sempre. Ho rivisto i soldati del colonnello Menghistu fuggire. Il 24 maggio 1991, gli sciabbia entravano trionfanti in Asmara. Guardando quelle truppe vittoriose era attecchita in me la convinzione che l’Eritrea sarebbe potuta diventare un paese migliore per tutti. Per questo, dopo la laurea in botanica, quando raccogliendo notizie e confessioni di amici, soprattutto di Isaias e Ziggy, i miei fratelli, scoprii che il nuovo regime non aveva nulla da invidiare alla disumana dittatura di Menghistu, l’odio cominciò a montare più forte di prima. Dentro di me maturò la convinzione che i regimi vanno combattuti senza fermarsi alle chiacchiere: è con le armi che si conquista la propria libertà. Il suono dell’allarme di un’auto giù in cortile mi riporta alla realtà. Prendo la moka e verso il caffè in una tazzina. Osservo quel liquido nero con orgoglio. La mia pelle ha lo stesso colore di questa bevanda che ha segnato tutta la mia vita. Certo sarei potuta rimanere a casa come ha scelto di fare Ziggy, continuare a coltivare il caffè con nonno Abiel ma avrei dovuto rinunciare ai miei sogni. Io e Isaias però non eravamo disposti a scendere a compromessi con il nuovo regime, troppe favole ci aveva raccontato nostro padre e l’abbiamo pagata cara questa scelta. Isaias partì per il campo di addestramento di Sawa, il nuovo regime ha sempre avuto bisogno di uomini da mandare al fronte a combattere l’eterna guerra contro l’odiata Etiopia. A Sawa in una terra arida, i giovani eritrei dovevano prima imparare a sopravvivere alla malaria, poi ai loro aguzzini, infine a uccidere i vicini. L’addestramento militare era tremendo, molti ragazzi dopo il primo dei cinque anni previsti fuggivano ma ad attenderli di là dal campo c’erano il deserto e la morte. Quelli fra i fuggiaschi che riuscivano a raggiungere il Sudan ancora vivi, finivano nelle mani dei trafficanti di uomini. Se volevi lasciare Khartoum per Tripoli e poi da lì raggiungere l’Europa, c’erano altri gironi danteschi ad attenderti, e servivano i dollari non le preghiere per superarli. Così è successo al mio povero fratello Isaias, una mattina è fuggito da Sawa e non l’abbiamo più visto. Alcuni mesi dopo l’attentato alla sede del Partito del Fronte di Liberazione, quando fui costretta ad abbandonare per sempre Asmara, mi ritrovai a percorrere gli stessi gironi infernali che certamente aveva attraversato Isaias e l’ho ritrovai il mio piccolo grande fratello, sotto una croce di legno nel cimitero di Tripoli in mezzo ad altri wedel gahba, figli di buona donna, così ci chiamavano e ci chiamano i libici a noi i cacciatori di libertà. Bevo il caffè. Faccio la doccia, lascio che l’acqua calda mi calmi. Esco da casa e guadagno anch’io il mio posto sul bus 73/B. Arrivo a Termini percorrendo via Giolitti che sono le sette meno dieci. Da qui mi ci vorranno venti minuti a piedi per raggiungere casa Veltroni. Mi fermo a guardare le vetrine dei negozi. Le commesse all’interno sistemano la merce appena arrivata. Mi fermo a guardare Giuditta, la vecchia fioraia, che divide i mazzetti di fiori nei vasi all’esterno del chiosco, vorrei darle la buona notizia, quella della drupa, ma non voglio infastidirla ora, ci penserò al ritorno. A qualche metro da me un ragazzo di colore è seduto sul suo zaino. Ne studio i vestiti e i lineamenti del viso, sembra spaesato. Sarà uno di quei poveri cristi che in questa estate torrida e feroce di sbarchi e di morti infinite in mare - mentre la Libia è in guerra contro se stessa -, ha lasciato il suo paese per un posto migliore. È uno di noi mi ripeto. Nell’aria c’è un odore strano, dolciastro e pungente insieme, ma non è quello che spesso annuncia la vicinanza di un clochard, è un odore che mi è famigliare e nello stesso tempo odioso. I nostri sguardi s’incrociano e ho un tuffo al cuore. Sembra Isaias, lo stesso naso dritto, le stesse fossette sulle guance glabre e ossute. Si nasconde la testa fra le mani. Sarà sfinito. Gli dico -Ciao-. Non risponde. È timido? È stanco? È deluso dal mondo che lo circonda, non vuole la mia pietà.

Mi avvicino, gli parlo in arabo, sembra non ascoltarmi. Forse non mi capisce? Mi avrà presa per una vecchia pazza. Mi allontano. - Signora! -, sussurra mentre mi dirigo all’interno della Stazione direzione via Marsala. Torno sui miei passi. Il ragazzo è in piedi. No, non è uguale al mio Isaias. Questo ragazzo è alto e robusto, Isaias era molto gracile. Lui ha una luce strana negli occhi, quasi di sfida, Isaias aveva lo sguardo da sognatore. Il ragazzo si scusa. Mi dice che verrà volentieri a prendere un caffè con me, ma quasi mi spinge nella direzione opposta a quella che avevo scelto. Allora seguiamo la folla di pendolari che percorre via Giolitti. Lasciamo via Porta Maggiore e dopo alcuni metri ci troviamo davanti al Caffè Aulò, ed il ragazzo sembra vincere quella che credevo fosse timidezza, invece era ostinata riservatezza. Mi racconta che ha lasciato da poco Tunisi con il solito barcone di disperati, vorrebbe raggiungere un cugino a Bruxelles, ma non ha i documenti. Faccio segno ad Aziz, il padrone del Caffè Aulò, di portarci due caffè e ci accomodiamo ai tavolini esterni del bar. Continuo ad ascoltare il ragazzo. Lo osservo con attenzione. Mi rendo conto con tristezza, senza darlo a vedere, che mi ero proprio sbagliata, non ha niente del mio Isaias. Mio fratello ci raccontava la storia della Iena Hamid e del Leone Simba come fosse stato un attore a teatro. Questo ragazzo anche quando parla della sua vita sembra raccontare una storia mandata a memoria, non ci sono sentimenti né emozioni in quello che dice. Anche la postura davanti alla tazzina di caffè è diversa. Isaias lo gustava con la schiena dritta e gli occhi socchiusi per saggiarne meglio sapore e profumo. Questo ragazzo si china ogni volta in direzione della tazzina, come a nascondersi, sbocconcella i biscotti e ci beve sopra, cosicché del caffè non assapora nulla.

-Ecco quell’odore dolciastro di nuovo... -, neanche il tempo di finirlo questo pensiero che si ode in lontananza, in direzione di via Giolitti un boato tremendo.

-Un attentato- sento gridare.

-Ecco perché quell’odore dolciastro mi ha messo agitazione quando ero alla stazione... è lo stesso odore dell’esplosivo che usammo per far saltare la sede del Fronte Popolare per la Democrazia e la Giustizia dopo gli Accordi di Algeri! -. Incrocio lo sguardo con il ragazzo che stavolta ha dipinto sul volto un ghigno cattivo. Mi vergogno profondamente perché quel ghigno è stato anche il mio. Solo ora mi accorgo che il ragazzo non ha con sé lo zaino.

Mi tornano in mente le commesse dei negozi. Sento le sirene delle ambulanze.

Mi tornano in mente gli studenti e i pendolari di stamattina. Sento le sirene della polizia.

Mi tornano in mente Giuditta e i suoi fiori. Sento i clacson delle auto.

Mi torna in mente l’esplosione che io causai ad Asmara. Allora scappai come una vigliacca. Avevo anch’io abbandonato uno zaino. Ero e sono anch’io un’assassina. Sento le sirene delle ambulanze percorrere la strada in senso inverso. Mi viene in mente Olimpia, la mia indimenticabile maestra giardiniera che mi abbraccia come fossi stata sua figlia, c’era stato un incendio nella notte, eravamo riuscite a salvare la maggior parte delle piante nella serra. Sento lo stridere degli pneumatici dell’auto della polizia che corrono verso Termini. Il ragazzo di fronte a me sistema la tazzina nel piattino con estrema cura.

-Ottimo questo caffè- gli sento dire con una voce atona e sicura di sé.

Sento una ragazzina seduta alle mie spalle singhiozzare disperata, aspettava il fidanzatino che al cellulare era irraggiungibile. Il ragazzo davanti a me si alza. Sta per andare via.

Mi alzo anch’io. Un’altra sirena, l’ennesima.

- Ci ho messo tutta una vita a capirlo…-, dico guardando dritto negli occhi il ragazzo.

- Cosa? -, mi fa infastidito il mio giovane ospite.

- Che tutto questo è sbagliato! -, grido con la stessa rabbia della leonessa alla iena.

- Sei vecchia, e per i vecchi è sempre tutto sbagliato! - mi risponde. Adesso ha assunto un’aria arrogante il ragazzino. Si è liberato in un attimo del suo sguardo triste, quella che credevo timidezza era invece solo l’inquieta preoccupazione di chi non vuol essere scoperto. Gli tiro un cazzotto in pieno volto. Il ragazzo barcolla. Un fiotto di sangue, rosso come la drupa di stamattina gli esce dal naso mentre continua a chiamarmi vecchia puttana! Un’altra sirena.

La leonessa con balzo fu sulla iena, un morso alla gola e fu tutto finito.

 

 

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