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Romanzo

Michele Cocchi
Fandango

Recensione di Giuliano Brenna
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Pubblicato il 22/01/2021 12:00:00

 

Michele Cocchi riporta il suo sguardo sulla solitudine infantile e adolescenziale, dopo gli orfani di “Casa di bambini”, eccoci alle prese con Tommaso, sedicenne auto-segregatosi nella sua stanza, rifiutando la scuola, gli amici, lo sport e, nella misura in cui riesce, anche la famiglia. esiste un termine giapponese che lo definisce: hikikomori, che io non conoscevo. Leggendo la Treccani apprendo s. giapp., usato in it. al masch. – Persone colpite da una sindrome che induce a chiudersi nella propria stanza senza mai uscirne (letteralmente «stare in disparte»), piuttosto diffusa in Giappone. In Italia non esistono dati precisi, ma comunque sono stati rilevati alcuni casi e che rappresenta proprio […] eccetera… Ma lasciando perdere l’enciclopedia, Cocchi descrive in modo estremamente approfondito e puntuale il significato di questa espressione. Tommaso, un giorno, colpito da una sorta di angoscia profonda, decide di non avere più rapporti col mondo. O meglio, con una larghissima parte del mondo, ha per esempio un legame molto singolare con un tasso che visita il giardino di famiglia, è il classico filo di Arianna che gli impedisce di perdersi definitivamente allontanandosi dal mondo; attraverso l’animale, Tommaso si trattiene sulla soglia della sua vita impedendosi di precipitare nell’abisso. Poi, naturalmente, ci sono i rapporti a malapena sopportati coi familiari, il padre accogliente e premuroso e la madre invece aggressiva e poco tollerante con l’esistenza scelta dal figlio. Mi viene da pensare che in questa coppia genitoriale il maschile e il femminile appaiono invertiti, forse a sottolineare quanto Tommaso li veda da una dimensione esterna, speculare, da dietro lo specchio, direbbe Lewis Carrol, proiettando il protagonista in un mondo oltre quello comune.

Nella famiglia abbiamo il fratello Cosimo, la quintessenza del nerd e la sorella che ormai vive per conto suo. Completano il quadro il nonno e la psicologa che di tanto in tanto fa visita al giovane recluso. Un microcosmo che condensa l’esistenza di molti adolescenti, Tommaso è l’emblema di tanti sedicenni, pedine autonome, su di una scacchiera con regole e figure prestabilite ma che, evidentemente, non vogliono seguire. Da qui il ritirarsi in un mondo in cui sono essi stessi a dettare regole e tempi di gioco. Senonché, parlando di gioco e di regole, devo parlare del grande coprotagonista e che dà il titolo al libro: Us. Si tratta di un gioco di ruolo (io sono totalmente digiuno di giochi al computer, quindi potrei usare termini errati) in cui delle squadre, composte da tre elementi, devono compiere delle missioni ambientate in scenari di guerra reali. Le varie missioni hanno uno scopo dettato dalla mente che sta dietro il mondo virtuale, e hanno regole e tempistiche precise, ma la regola che maggiormente colpisce è che i tre membri della squadra, pur potendo discutere tra loro su come affrontare il gioco, non possono rivelarsi l’un l’altro chi sono nella realtà. Dunque, sembrerebbe l’ambiente ottimale per chi non vuole avere contatti reali con altri individui, così Tommaso sembrerebbe rifugiarsi in un mondo virtuale, che ricalca perfettamente quello vero, per sottrarsi al suo, ristretto ma reale. Purtroppo, o per fortuna, la spinta verso le altre persone non può restare sopita più di tanto e Tommaso comincia a provare curiosità verso i compagni di gioco, si sente legato a loro, il sangue sociale comincia, o ri-comincia, a circolare nelle vene e sarà la spinta iniziale verso un recupero dei legami volontariamente recisi. Mi piacerebbe raccontare di più ma non voglio rivelare troppo del romanzo. Questo ritrovarsi e ritrovare il mondo reale in un gioco completamente virtuale, ma che propone luoghi e situazioni reali, è uno dei meccanismi più affascinanti del romanzo: il mostrare, a chi non li ha mai vissuti, momenti di autentico terrore, far vivere le ingiustizie legate alla guerra, all’invasione, al razzismo; il gioco ha il potere di stimolare la volontà di sopravvivenza e la solidarietà, soprattutto quest’ultima, autentica scintilla vitale per far porre lo sguardo su chi sta intorno. Il dover combattere in scenari di guerra fa diventare la sopravvivenza fisica secondaria, a favore di una incolumità morale e di intenti che diventa, via via che scorrono le pagine, la vera sfida del gioco. Un videogame che non sembra poi del tutto estraneo alle esistenze dei giocatori ma che sembra accompagnarli in un luogo, non di guerra ma di pace, in cui far combaciare le loro solitudini e farle cessare di essere tali. Così l’autentica battaglia è quella con il sé stesso che vuole soccombere arrendendosi a un nemico apparentemente soverchiante, e poco importa che si svolga negli algoritmi di un videogioco o tra le stanze di case o le aule scolastiche, quel che conta è il ritrovarsi e trovare un senso alle giornate che si vivono: e si tratta di una battaglia solitaria. La squadra di Us è composta da tre persone ma non è un terzetto, sono tre solitudini. La vittoria starà non nel completare cento missioni, scopo dichiarato del gioco, ma trasformare le solitudini in legami.

Il romanzo è avvincente nella sua struttura, l’autore dispiega una grande sapienza nel ricostruire gli scenari di guerra e a orchestrare le varie missioni, facendole trascolorare da prettamente belliche a interiori. Tuttavia, inizialmente, non avevo inteso che si trattasse di un libro classificabile nel genere Young Adults, l’ho scoperto a metà lettura per vie traverse, e devo dire che tale collocazione è encomiabile, penso che potrebbe aiutare più di qualche adolescente a risolversi. Ma trovo che sia un testo godibilissimo anche per i più grandi, anche per me che ormai sono classificabile come Old Adult, e ha la capacità di rivelare una problematica che non conoscevo, senza mai diventare descrittivo o scientifico o altro, sempre ben saldo nella sua dimensione romanzesca.

Un aspetto che mi ha colpito, perché amo le simmetrie, è un legame fra questo romanzo e il precedente, “La casa dei bambini”, l’orfanatrofio iniziale, là descritto, sembra aleggiare nella casa di Tommaso: una famiglia vera, con legami di sangue, ma che finisce per far sentire Tommaso un orfano, una persona fondamentalmente sola al mondo. E l’elemento guerra è catartico e quasi contrapposto allo slegamento dei rapporti infantili. Naturalmente si tratta di elementi sotterranei, i due romanzi sono completamente diversi, anche il registro linguistico mi sembra cambiato, fattosi più maturo e contemporaneo in Us, completamente aderente al narrato, così come per il precedente romanzo la lingua rispecchiava la sospensione da coordinate fisiche e temporali.

Un romanzo molto bello e interessante, ben costruito, capace di intrattenere il lettore con una storia originale e una scrittura solida e personale.

 




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