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Lasciatemi divertire!

Argomento: Letteratura

di Timothy Megaride
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Pubblicato il 08/02/2021 10:34:40

 

 

Non ho voglia
di tuffarmi
in un gomitolo
di strade

Ho tanta
stanchezza
sulle spalle

Lasciatemi così
come una
cosa
posata
in un
angolo
e dimenticata

Qui
non si sente
altro
che il caldo buono

Sto
con le quattro
capriole
di fumo
del focolare

 

[Giuseppe Ungaretti, L’Allegria, Natale]

 

 

 

 

«È del poeta il fin la meraviglia…»[1], scriveva Giovan Battista Marino quattrocento anni fa, chiosando in tal modo la poetica che fu detta barocca, alla quale l’attuale in qualche misura somiglia, se è vero che ne è emblema la tenace volontà di destar stupore e assai spesso schiamazzo, il primo teso a coprire il grigiore e il tedio della routine, il secondo a vincere il frastuono che le fa da bordone.

L’arte evolve e diventa espressione corale della quale lo stesso fruitore è artefice, con l’applauso e la mimesi, lo spitting vocale e il karaoke. Siamo tutti ideatori e beneficiari dell’arte globale che tutto fonde e confonde per approdare alla babele delle forme, al guazzabuglio degli stili, alla sinestesia bipolare dell’occhio e dell’orecchio.

In principio era il dagherrotipo. Fiat lux! Ed essa stessa, la luce, sottrasse al pittore il talento prospettico facendosi fedele riproduttrice del reale o, quanto meno, della sua illusione. Non sono, queste, conquiste del secolo in cui il verosimile e il vero furono i valori più celebrati dalla ciancia erudita? Accidenti all’ipometropia! Costoro fissavano l’attimo, tralasciando il divenire che tutto trasforma, rigenera e degenera, modifica e forgia come vuole la saggezza platonico-eraclitea che recita, a mo’ di mantra, Panta rei. Ed ecco, infine, il portento dei fratelli Lumière che ben si accompagna al dinamismo marinettiano nella commistione che, in effetti, realizzò interamente il progetto di rappresentare il tumulto. Ecco la settima arte ingurgitare le previe nell’amalgama dell’artifizio globale e globalizzabile. C’è qualcuno che oggi ignora le fantasmagorie del cinema o della televisione, ancelle incluse? Al dì presente non v’è cane che non eserciti il vizio o vezzo del guardare e dell’esser guardati, del riprendere e del farsi riprendere dall’occhio inquisitore di una telecamera o cinepresa entro le scenografie di uno sconfinato spettacolo con gustoso contorno di effetti speciali, anzi specialissimi. Tra i quali il rimbombo della grancassa che impera, impietosa, a segnare il ritmo forsennato, a dispetto della discrezione dei timpani nella musica che fu detta sinfonica e che antepose l’armonia al fracasso.

È dunque barocca e futurista la nostra età, invasiva come una metastasi, tale da produrre una celere evoluzione della specie che, relegando l’homo sapiens alla paleontologia, genera l’homo videns, come volle l’ottimo Giovanni Sartori[2]. Dubito che esista anche l’homo audiens, quale la cagnara dominante farebbe suppore. Grugniti e ululati non hanno sintassi. Nessuno produce suoni intelligibili e l’organo deputato alla decodifica si pone in quiescenza da sé. Nulla si dice e dunque nulla si ascolta.

Nelle more qualche oscuro poetucolo si guarda intorno e sorride, emulo di Palazzeschi che assai per tempo capì l’andazzo:

«Il poeta si diverte,

pazzamente,

smisuratamente!

Non lo state a insolentire,

poveretto,

queste piccole corbellerie

sono il suo diletto»[3].

Sì, c’è ancora qualcuno che coltiva l’arte minore, anzi minima, della parola e, in assoluta solitudine, estraneo alla smargiassata corrente, come il leopardiano pastore, (vecchierel stanco, infermo, / mezzo vestito e scalzo) s’aggira tra antichi ruderi e da lì trae ispirazione per qualche scherzuccio di dozzina che gli riscaldi il cuore e ne consoli altri al suo adiacenti. Col sorriso sulle labbra e l’animo in pace del saggio, scrive storie dal sapore antico, come “L’imitazione del vero” di Ezio Sinigaglia[4] che ho appena finito di leggere per gentile segnalazione di un amico che conosce le mie debolezze per la parola ben scritta.

Il romanzo breve o racconto lungo è una fiaba a tutti gli effetti, benché di magico non abbia altro che i marchingegni lignei assemblati da Mastro Landone, manufatti stupefacenti che, pur sembrando portenti, sono opera d’ingegno. Sembra questo Mastro Landone un progettista di Ikea o Foppapedretti ante litteram, non senza ammiccamenti al noto Geppetto di Collodi. E soffre, poveretto, d’indicibile ardore per il garzoncello di bottega che la Provvidenza gli ha inviato in soccorso per sbrigar minute faccende e apprender l’arte sua. Non si tratta dello struggimento ascetico di Gustav von Aschenbach, né tampoco il suo Ganimede somiglia a Tadzio e alla sua statica ideale fissità. Qui si tratta di carne e sangue, di bramosia e pirotecnica ormonale.

«Iniquo giudicava il crudele castigo di dovere ogni giorno, con quello del suo vagheggiar lussurioso, lo spettacolo dell’innocenza di Nerino paragonare, d’ogni vaga speranza nella sua vergogna orbato restando. E tuttavia ogni mattina, d’un breve ed agitato sonno destatosi, allo spettacolo di quell’innocenza com’ad una festa Mastro Landone correva».

Né l’innocente Nerino, il garzone, sfugge alle istanze della verde età.

«E poiché ha fatto ancor nel suo perfetto equilibrio la Natura ch’ad ogni morte una vita e ad ogni ombra una luce e ad ogni fuoco un’acqua corrisponda, agevolissima cosa è pei fanciulli il trovar lacqua in sé medesimi chil fuoco donde sovente avvampano ha la virtù per alcun tempo d’estinguere. Talché, pur nella sua innocenza, aveva anche Nerino facilmente la fonte di quell’acqua trovata e con piacere grandissimo ad essa sovente s’abbeverava».

In altri termini, come ogni adolescente che si rispetti, Nerino si fa le sue brave seghe, in una falegnameria, come ognun vede, luogo ideale per adoprar l’utensile idoneo a tagliar ceppi ed apprenderne il moto oscillatorio che al sussulto approda. Troppa fatica per un giovinetto smilzo al quale la duplice cura può sottrarre vigore e beltà. È per questo che il buon Landone, prodigo d’ingegno e di perizia, gli fabbrica, a sua insaputa, la macchina del sesso ad azione che ben può dirsi manuale. Non eran tempi di dispositivi tecnologici avanzati e l’industria dell’autoerotismo era di là da venire. Ne usa e abusa il piccolo Nerino del marchingegno che la mano esperta di Landone sa ben far funzionare. Fino a quando… Beh, scopra il lettore il resto della fiaba. Di trama esile ed essenziale, ma di dicitura arguta e maliziosa, d’una malizia sorniona che attinge alla prosa barocca, nell’ampio e avviluppato periodare, nella fantasiosa selezione lessicale, nella patina di arcaico che il costrutto latineggiante le conferisce, nei chiaroscuri degli interni descritti, nella poca luce di una candela o d’una feritoia che esalta il dinamismo delle figure come in un dipinto di Caravaggio.          

«Or che quella stessa visione ogni notte pel suo pensiero solamente fluiva, Mastro Landone, levatosi, entro il cerchio di luce com’entro la gabbia del suo tormento movendo, al tavolo come per l’innanzi sedeva ma, in luogo di macchine, fanciulli sulla carta versava».

L’aggraziato corpo di Nerino emerge nella penombra della bottega tal quale gli adolescenti di Caravaggio dalle sue più celebri tele. V’è carnalità nei corpi umani maschili della pittura barocca, così che l’occhio quasi ne percepisce la tensione omoerotica.

Per altro verso il profluvio di tropi e perifrasi ammantano di un velo di verecondia la materia scabrosa e le danno la levità della facezia. Si legga l’arguto sofisma col quale si dà ragione delle pratiche omofile:

«Mentre ch’il prendere piacer da sé stessi, essendosi ch’il proprio sesso non può esser chil medesimo, è lussuria e sodomia. Da ciò discende che tutti i fanciulli, finché di fanciullezza non escono, son lussuriosi e sodomiti, e che tutti i sodomiti e i lussuriosi son tali per la cagion che son rimasti fanciulli».

In altri termini, la masturbazione altro non è che pratica omosessuale, essendo il soggetto e l’oggetto del procacciato piacere la medesima persona. Come la volti o come la giri, le femmine maneggiano una vulva e i maschi un pene.

Resta da chiedersi perché Sinigaglia vesta la povera materia di sì sontuosa veste formale. Azzardo un’ipotesi che il lettore o l’autore medesimo possono più o meno condividere. Dicevo di Barocco, di Seicento, di cultura delle forme e di concettismo. Dell’arte ho già evidenziato l’esantema ornamentale, il gioco di luci e ombre, l’enfasi dello stupefacente, la prosopopea (si pensi all’Azzeccagarbugli manzoniano), l’immaginifico. Sul versante letterario operano fantasiosi narratori come Giulio Cesare Croce (1550-1609), Giulio Cesare Cortese (1575-1622), Giambattista Basile (1566-1632). Più o meno coeva, in Italia, è la nascita e l’enorme diffusione internazionale della Commedia dell’Arte, un genere di intrattenimento che sbeffeggia senza ferire e fa ridere sovrani e cortigiani. A questo vitalismo smodato fa da sfondo la cupa cultura delle Controriforma, formale, retorica, parolaia, pedante. Ogni opera prodotta, per ingegnosa che sia, subisce il vaglio di conformità alla dottrina cattolica. Lo scherzo e lo sberleffo hanno scarsa censura, perché cosa frivola e indegna di particolare attenzione da parte del censore di turno, benché capiti che la facezia sia mordace e ben poco ortodossa. Licenziosa quanto basta a sfuggir la sferza.

Non identica licenza possono consentirsi uomini di scienza quali Copernico e Galileo, individui propensi alla verità del fenomeno in sé oltre l’apparenza superstiziosa dell’osservatore. È giocoforza che la mannaia dell’Inquisizione s’abbatta su di loro.

Ora, se voi ponete come sfondo alle nostre presenti esistenze i fondamentalismi e gli integralismi, i terrapiattismi, le taumaturgie, le liturgie magico-rituali, le coreografie apotropaiche, i negazionismi, i creazionismi, i complottismi e quant’altro alimenti l’immaginario a discapito della verità, vi imbatterete nella cosiddetta cultura di massa che vuol dire anche globale, cioè potenziale mercato al quale l’industria non meno globale propone-impone prodotti di serie.

Alla produzione di serie non sfugge la cinematografia, la televisione, l’editoria, le quali assoldano il fior fiore degli esperti sia nel settore del maketing, sia in quello afferente della produzione. Realizzano articoli tecnicamente ineccepibili, ovviamente a scapito della poesia, della creazione artistica, della libera espressione dell’individuo. Limitandoci alla letteratura, si può certamente affermare che non è lo scrittore/poeta a generare lo stile, ma è lo stile a generare lo scrittore, laddove lo stile è dettato dal gradimento dell’acquirente/lettore. I suoi canoni sono insegnati in scuole e università deputate che di gusti del pubblico ne sanno una più del diavolo. L’arte cede il passo alla tecnica. Certo, sto riprendendo alcune tesi che Walter Benjamin profuse nel suo saggio più celebre, L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica, non perché disapprovi la sua argomentazione, ma perché la società di massa non è, oggi, esattamente la medesima che il filosofo tedesco si prefigurava. Che l’aura sacrale debba essere sottratta alla produzione artistica mi trova d’accordo; meno propenso sono ad accogliere la sudditanza dell’individuo al gregge. Certo non desidero neppure il contrario, cioè che il gregge si sottometta al narcisista del momento. Dunque, non ne vengo fuori. Mi aiuti chi legge queste note a sortir dalla pania. So solo che i sequel, i prequel e le serie mi molestano alquanto. Preferisco il croco, il fiore solitario dei prati deserti, il poeta che lavora di cesello e “scioglie all’urne un cantico che forse non morrà”.

Così immagino il buon Sinigaglia, chiuso nel suo studiolo, intento a sbozzar parole e fonemi, lontano dalla caciara, sornione nel tepore antico di un ciocco ardente del camino. E recita a mente:

«Infine io ò pienamente ragione,

i tempi sono molto cambiati,

gli uomini non dimandano

più nulla dai poeti,

e lasciatemi divertire»!



[1] Giovan Battista Marino, La lira, Sonetti, Res edizioni 2007.

[2] Giovanni Sartori, Homo videns, Laterza 2000.

[3] Aldo Palazzeschi, L’incendiario, Lasciatemi divertire, in Tutte le poesie, Mondadori 2002. I versi che chiudono questo brogliaccio appartengono alla medesima canzonetta.

[4] Ezio Sinigaglia, L’imitazione del vero, Terrarossa edizioni 2020.


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