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la pizza di Milano

di Salvatore Solinas
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Pubblicato il 01/12/2008 17:12:12

Aveva gridato per tutta la giornata “Berlusconi, Gelmini, assassini della scuola”. Aveva perfino cantato con i suoi alunni “Bella ciao” e c’era stato un momento che gli era sembrato d’essere giovane, quando negli anni settanta occupava il liceo. Rientrato a casa, un appartamento di trenta metri quadri in centro di Milano, s’era sentito triste, svuotato. In fin dei conti, s’era detto, cosa gli importava che avessero ucciso la scuola? E poi era proprio vero? E anche se così fosse stato, cosa mai sarebbe cambiato nel bel paese che non era affatto in decadenza, ma che era decaduto del tutto, che aveva toccato il fondo. Questi discorsi era solito fare in corridoio ai colleghi: alla Marini, a Trancossi, a Ottaviani, il preside che stava per andare in pensione, e questi lo ascoltava serio e gli diceva “Spero che non parli così davanti ai suoi alunni”. I suoi alunni! Aveva davanti le loro facce annoiate, i loro occhi persi nel vuoto, mentre recitava la lezione del giorno. Se sgridava uno di loro perché non aveva studiato gli rinfacciavano che loro di tutta quella cultura non sapevano che farsene, che tanto non avrebbero trovato lavoro. Non avevano torto, e quando infine l’avessero trovato, non avrebbero più avuto voglia di lavorare. Cosa era cambiato dopo che lui da studente aveva bloccato per mesi interi il liceo, a cosa erano servite le manifestazioni in piazza, i sit in? A nulla. Il Sistema s’era rivelato un muro di gomma, capace di assorbire ogni insulto con fenomenale pazienza, schierando i suoi soldatini armati di sfollagente, silenziosi spettatori del delirio giovanile. Però in mezzo a quella cagnara aveva conosciuto Maria. S’erano strapazzati nell’aula vuota e fredda durante l’occupazione e credendo che fosse in cinta, l’aveva sposata in fretta e furia senza nemmeno avvertire i genitori. Era stato quello il segno dell’emancipazione, della massima libertà. Allora aveva venti anni. Adesso, a cinquantotto, si trovava in quell’appartamento piccolo ma così organizzato che non gli mancava nulla. Solo i suoi libri non c’erano. Li aveva venduti per rabbia assieme alla casa grande e comoda dove aveva vissuto con Maria.
“Se non li vogliono” aveva detto all’agente immobiliare “che li brucino pure” Quello aveva sorriso davanti a quell’autodafé immaginario con le labbra sottili d’inquisitore che già pregustavano l’atto di crudeltà.
Aveva diviso i soldi con la moglie e si erano salutati. Non c’erano alimenti da pagare, contese per il letto o il divano. Era stato un pacifico, freddo divorzio consensuale. E sarebbe stato meglio se si fossero accoltellati, come spesso accadeva in quelle occasioni.
Non aveva voglia di cenare. Aveva mangiato una pizza fredda e rancida che avevano comprato nel negozietto vicino all’istituto, quello che sfamava i ragazzi all’ora di ricreazione. Gli faceva schifo a vederla, ma avendo partecipato al rito della colletta per gli alimenti, non poteva ora esimersi dal condividere il pasto. Sentiva lo stomaco bruciare e se fossero sopraggiunti i rigurgiti avrebbe preso la solita pastiglietta.
Dalla finestra irrompevano le luci della notte: i fanali, i fari delle automobili, i riflessi multicolori delle insegne dei negozi. Accese la televisione: doveva scegliere tra le facce verdognole di Schifano e Rutelli a Ballarò, i balletti scosciati di RAI UNO tra un indovinello e l’altro, le patetiche storie di Chi l’ha visto, e i polizieschi di mediaset.
Aprì una latina di birra e si sedette sul letto togliendo il sonoro. Era triste e capiva che non era la solita tristezza passeggera. Si sentiva in pericolo, un uccello che cercava di volare nel vuoto gli sembrava d’essere. Se non fosse passata, quella malinconia l’avrebbe portato alla pazzia. Poteva chiamare Ignazio, altro sedotto e abbandonato, più sfortunato di lui. Ma non aveva voglia di sentire i suoi soliti lamenti, le sue professioni d’amore per la moglie che aveva sorpreso a scopare col portiere del palazzo. Meglio forse chiamare la ragazza moldava. Da un mese, ogni lunedì e giovedì, faceva le pulizie, ma solo due giorni fa aveva considerato che era carina. Aveva il suo numero di telefono per ogni evenienza. E quella era un’urgenza assoluta. Sentiva d’essere meschino, lui il contestatore che s’era appena seduto su un panchettino in piazza Duomo per promuovere l’emancipazione degli esseri umani, il diritto allo studio eccetera, ora ricorreva ai servizi di una giovanissima donna egoisticamente per vincere la solitudine. Quanto gli sarebbe costato, si domandò, venti euro? Tirò fuori della tasca di dietro dei pantaloni il portafoglio, aveva cinquanta euro intere. Avrebbe avuto il resto o avrebbe dovuto lasciarle tutto? Si vergognò di quei pensieri. Forse era meglio andare al cinema. Ce ne erano due a cento metri da casa. Uomo solo, seduto in fondo alla sala, magari a fare il piedino alla donna matura seduta accanto, sola lei pure, con il rischio che chiamasse la maschera. Esistevano ancora le maschere? Quegli uomini robusti armati di torcia elettrica che accompagnavano i clienti a sedersi nelle file delle poltrone. Erano più di dieci anni che non frequentava una sala cinematografica. Milano offriva di tutto: cinema a volontà, teatri grandi e piccoli, localini dove si tenevano spettacoli d’avanguardia, per non parlare di ristoranti e facsimili.
Lui non frequentava nessuno di quei luoghi di svago, che per lui erano occasione di noia. Poiché l’ansia montava, decise di uscire a fare due passi. L’aria era fredda, montagnole di ghiaccio stazionavano ai piedi dei tigli, vestigia dell’ultima nevicata. Si diresse verso pizza Duomo che non distava più di un chilometro. File d’automobili, gente davanti alle vetrine, negozi vuoti. E’ la crisi che avanza, pensò, maledetti commercianti adesso pagate i rialzi ingiustificati dei prezzi al passaggio dalla lira all’euro.
Ritornate a Canossa, liquidazioni in tempo di feste natalizie, mai visto prima d’ora.
Impressionante silenzio, la piazza era deserta. Solo carta, lattine di birra schiacciate, qualche bastone di legno. Deserto in Galleria. Prima almeno i disoccupati, quelli che perdevano il lavoro avevano la voglia di protestare, ora rassegnazione e il viso sorridente di Berlusconi dai manifesti. Non ne poteva più, si sarebbe messo a piangere se non fosse apparso ridicolo un uomo che piange da solo! Entrò nel bar più lussuoso che c’era, almeno all’apparenza. Il cameriere scopava il pavimento. Domandò un’acqua tonica. L’uomo
alto e sottile come un manichino di legno lo guardò con curiosità e gli allungò il bicchiere senza commentare.
Dopo che ebbe bevuto un sorso prese il telefonino e fece il numero di Maria. Gli rispose la voce di un uomo e gli parve di cadere in un pozzo. Sarebbe caduto per terra se non si fosse aggrappato al margine del bancone. Maria aveva un altro uomo. S’era rifatta in fretta! Le donne, accidenti, come sono determinate! Ora l’angoscia lo attanagliava alla gola. Avrebbe voluto restare dentro al bar, ma capiva che stava per chiudere, il cameriere aveva messo da parte la scopa e stava abbassando le tende delle vetrine. Pagò ed uscì. Stanotte sarebbe andato a dormire in stazione con i barboni. Che differenza c’era? Anche lui aveva perso tutto, s’era spogliato di tutto. Cinquantotto anni e la vita gli era sfuggita di mano. Camminò nell’aria fredda dove baluginavano i primi fiocchi di neve. Naturalmente si diresse verso casa, non in stazione. Maria era con un uomo. Mangiavano in cucina, lui lo sapeva, spaghetti ai carciofi, non sapeva fare altro, e vino bianco. Non l’aveva amata. L’aveva sposata per sbaglio e quando le furono tornate le mestruazioni aveva pensato di lasciarla. Poi, un po’ per pigrizia, un po’ perché la vita passava in fretta e tanto forti erano le aspettative, tanto era proteso verso il futuro, che il presente quasi non esisteva, e non aveva avuto il tempo di lasciarla. Infine s’era affezionato a lei come ad una sorella. Le voleva bene, aveva qualcuno con cui scambiare due parole quando tornava a casa. Ora non tollerava quell’orribile silenzio che spegneva i canti, gli entusiasmi, gli slogan urlati a squarciagola per tutta la giornata.
Gli venne irresistibile la voglia di sentire la sua voce. Rifece il numero. “Pronto” “Maria!” “Alfredo, sei tu?” “Ti disturbo? Sei con un uomo” “Sono a casa sola” “Ho chiamato poco fa e mi ha risposto una voce di uomo” “Avrai sbagliato numero”
Che cretino! Gli era sembrata per un momento la voce di Maurizio. Aveva chiamato per sbaglio il nome successivo a quello di Maria in rubrica. Gli venne da ridere “Senti, non avresti voglia di mangiare una pizza?”
“Dove ti trovi?” “in piazza Duomo” “Bene! Vieni a casa. Io intanto mi preparo” La neve s’era fatta più fitta. Cadeva silenziosa imbiancando Milano e la notte s’era fatta chiara.
Il paese forse era un vecchio relitto posato sul fondo dell’oceano economico, ma le pizze come le fanno a Milano non esistevano da nessuna parte.


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