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La solitudine della neve (nostalgia, frammento)

di Veronica Mogildea
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Pubblicato il 22/12/2015 16:40:01

Per l’ennesima volta, prima di spegnere la luce rilego la letterina di Victor. Anche se la conosco a memoria, trovo un certa vicinanza scivolare lentamente sulle lettere tracciate con diligenza dalla manina di mio figlio. Più tardi, di notte, accovacciata sotto le lenzuola, con le ginocchia strette al petto, stento a mettere insieme frammenti di vita legata ai miei bambini. Una cupidigia insaziabile mi impone a razzolare in ogni angolo della mia memoria in cerca di un particolare, di una briciola di ricordo che messa insieme alle altre potrebbe ricostruire la sfuggente immagine dei miei figli.

I miei figli! Il pensiero, come liquefatto, si insinua rapido nella breccia della mia resistenza ed invade il mio cervello, riempiendo l’intera scatola cranica, che comincia a pulsare ritmica, simile ad una bomba ad orologio. Sullo sfondo buio dell’infelicità che mi assale, guardo impotente gli scopi di dolore che irradiano in mille direzioni e si espandono nel corpo. Sussulto. Rabbrividisco, incapace di controllare i battiti accelerati del cuore. Due lacrime, linfa della mia anima tormentata, scivolano tremolanti sul viso, per poggiarsi poi, una dietro all’altra, sulla pagina che ho davanti, mescolandosi fra le parole. 

Non devo pensare! Non devo pensare, urlo dentro di me. Non devo pensare! Il dolore continua a palpitare come una ferita. Una ferita contaminata dai sensi di colpa che non guarirà mai. Mi schiaccio la testa fra le mani. Mi fa in effetto strano sentire la presa sulle tempie, come se avessi il teschio incastrato fra due blocchi di marmo freddo. Contrago i muscoli delle braccia ed aumento la pressione. Inconsapevole cerco il dolore fisico in speranza di lenire un altro molto, ma molto più struggente. Il pensiero dei miei figli mi strugge. Pensare a loro è come strappare un po’ alla volta il mio cuore. Più forte della tortura della goccia. Ma anche non pensare è una tortura. Ad ogni modo fa male.

“Hai pianto?” mi chiedono gli occhi perspicaci della signora Filomena.

“Sì. Ho sognato i miei figli … mi mancano … tanto …” rispondono esitante le mie palpebre.

“Non devi. Sei …”

Non voglio sapere come sono. Mi ritiro spaventata dietro la tenda salata delle mie lacrime. La mano della mia amica mi cerca nella nebbia del dolore e si offre come appoggio. Riemergo, ma non ho nessuna voglia di parlare. Non posso parlare dei miei figli. Non senza sentirmi strappare il cuore …

La signora Filomena intuisce il mio stato d’animo, mi avvolge nel suo sguardo buono, come per proteggermi.

“Il mondo è ingiusto …” sospira.

“È ingiusto …” rispondo come l’eco, imponendomi di controllarmi. 

Non reggo il dolore, cedo; appena l’argomento cade sui miei figli, appena un piccolo ricordo mi torna in mente, appena vedo dei bimbi della stessa età, mi sento soffocare, come se un grosso nodo mi bloccasse la gola. Fatico a respirare e il nodo si ingrossa, si gonfia fino a scoppiare come un pallone in un mare di lacrime. Per questo tengo nascoste le loro foto, non posso guardarle senza sentirmi lacerare.

Cosa ci può essere di più grande e di più struggente della nostalgia per i propri figli, soprattutto quando sono tanto piccoli e tanto lontani e tu sai che non potrai vederli per un tempo che neanche riesci a stabilire?

“Cari, dolci figli miei, quanto vi amo, quanto mi mancate!” grida il mio cuore. “Non giudicatemi … Se avessi saputo …”

Non finisco il pensiero. Non voglio dare spazio ai rimorsi. Non ha senso.

Dalla finestra della cucina vedo le mamme portare per mano i propri bimbi; ogni tanto rallentano il passo e la mamma abbassa l’orecchio per raccogliere meglio il cinguettio di suo figlio, annuisce seria e gli sussurra qualcosa, provocando la gioia del bimbo che comincia a trottare contento, allineando il suo passo a quello materno. Li seguo ancora un po’ con gli occhi finché, felici ed ignari della loro fortuna, scompaiono dietro l’angolo. All’inizio mi capitava di scendere davanti al cancelletto e mi azzardavo a fare complimenti a quella normale felicità. Lo smisi presto; troppo spesso le mamme non  gradivano la mia gentilezza.

È già autunno. Ogni tanto una foglia gialla passa lenta davanti al vetro. Qualcuna si aggrappa malinconica al davanzale esterno e aspetta che un soffio la mandi giù, l’ultimo moto del suo ciclo. Il sole è scomparso, inghiottito dalle nebbie. È scomparso anche il merlo dai rami della magnolia. Per me è tutto uguale, continuo a combattere con la lentezza del tempo, appesa alla banalità del giorno e nella scura eternità della notte combatto con la nostalgia rovente per i miei figli, struggendomi per i momenti non vissuti, per le occasioni perse, per le carezze non condivise, per le parole non dette. Cosa me ne faccio dei tutti i baci incrostati sulle mie labbra, delle carezze dimenticate nel incavo delle mie mani? Orfana di amore. I ricordi mi assalgono, ma io li schiaccio via, come se fossero mosche moleste. Via, andate via, lasciatemi! Non vi voglio ora, mi fatte troppo male. Troppo male!

  L’isolamento mio sta diventando normalità. Il dolore è sempre uguale: irrompe dentro con la stessa intensità e prepotenza. È come se una mano invisibile mi passasse senza pietà alcuna la carta vetrata direttamente sul cuore: avanti ed indietro, avanti ed indietro. Il vuoto che mi circonda è insopportabile. Con tutte le forze mi oppongo al desiderio di farmi del male, una piccola incisione per liberarmi dal veleno derivato dai sensi di colpa. Con uno sforzo quasi muscolare spingo i pensieri fuori dai spazi pericolosi e mi impongo di pensare in positivo. Devo pensare in positivo. Devo. Trovo un aggancio: la ricongiunzione; io mi aggrappo a quell’idea come ad una corda che dovrebbe tirarmi fuori dal burrone. Sarà un momento felice, sicuramente felice, ripeto. Le mie labbra si muovono artificiale, come in un esercizio di dizione. Controllo la respirazione. Schiaccio diligente su ogni suono in speranza di riempirlo di contenuto. Sarà un momento felice. 

 


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