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L’incidente

di Veronica Mogildea
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Pubblicato il 15/07/2016 16:58:28

Quel giorno l’aria sembrava imbevuta di euforia. Una trasparenza cristallizzata in granelli di luce attraversava il mondo. L’orizzonte era vicino, raggiungibile anche con la lunghezza del braccio. I sogni si erano liberati dalla catena dell’impossibile. Una magnetica sensazione di grandezza stuzzicava il palato. Rocco guidava la sua moto Guzzi in mezzo alle vampate di gioia. Alle spalle, come uno zaino, sentiva appiccicato il corpo caldo di Margit.

“È strana questa ragazza,” pensieri insoliti popolavano la testa di Rocco, che si trastullava dentro i salti scattanti delle marce, “strana nel suo essere donna e bambina nello stesso tempo, come se fosse abitata in concomitanza da due persone diverse in competizione fra di loro.”

Preso dai pensieri Rocco correva, anche se non aveva altra urgenza se non la nuda, primaria voglia di vivere. Il desiderio bruciante di essere con tutto se stesso dentro il suo tempo. Si sentiva felice. Un giubilo totale riempiva il vano del casco integrale; Rocco cedeva ai fumi formicolanti di ridondanza che battevano contro le vene e faceva progetti. La motocicletta ronzava domata e le vibrazioni passavano in onde dal metallo alla carne, scuotevano i muscoli tesi, solleticavano i sensi. Con la testa spinta in avanti e il corpo che oscillava in un equilibrio fatto di vento, Rocco contava i sorpassi, giocava in onde sulla linea della strada, un po’ a destra, poi a sinistra. Schivando l’invadenza del traffico, i freni fischiavano, firmavano il loro passaggio sul asfalto. La tensione induriva le braccia. Con il rombo del motore che invadeva la testa, diventava difficile evitare l’orgoglio.

“Senti, amore? Senti?” urlava Rocco dentro il casco.

“Sento!” la voce di Margit si confondeva con la velocità.

“Sento!” allungava i suoni il vento.

“Che dici?” voleva sapere Rocco, questa conversazione a tre lo divertiva molto.

“Sento!” ripete la ragazza. La sua testa appoggiava pigra sulla spalla tesa dell’uomo.

“Che cosa?”

“La campana del tuo cuore matto!”

Margit si strinse più vicino a lui, vincendo l’ultimo centimetro di lontananza che ancora resisteva. Un unico corpo ora, uniti dallo stesso brivido. Rocco sussultò, la testa girava in cerchi larghi; il fruscio della contentezza tappava le orecchie; il palpito dell’adrenalina nelle vene; il cuore gonfio, straripante spingeva la voglia di stupire. Vedrai, vedrai tu, ragazza mia! Un altro colpo al acceleratore incitava i cavalli dentro la corsa; la moto rombava, strappava l’aria come la carta; la sfida al vento stuzzicava il desiderio; il cielo dentro il pugno, tutto ormai era possibile. La velocità ingoiava la strada, mangiava i chilometri a grossi bocconi; ignorava con la noncuranza dell’incoscienza la beffa bastarda dei rettilinei che nascondono le curve. E Rocco dimenticò che ad ogni incrocio stava l’agguatto di una distrazione pronta a saltare addosso con la sua maleducazione.

“Ti sposo!” urlava Rocco per farsi sentire dal mondo.

“No, non ci credo. Sei troppo vecchio!” la felicità di Margit si nascondeva birichina dietro la gaiezza delle sue risate.

“Ti sposo. Lo giuro.” Non era uno scherzo, stavolta il velo solenne di un impegno si posò sulle parole e Margit non rise.

Ma l’incrocio si mise di traverso, decise di spezzare la promessa, l’affidò al vento che la portò via. Il camion spuntò come dal nulla, si materializzò di colpo con la sua minaccia ingombrante. Rocco strizzò gli occhi, si attaccò al ferro bollente della sua moto con tutte le speranze. Stridettero le gomme dentro il sogno, invasero la pace del sorriso. Nessuna tregua. La strada improvvisamente si accartocciò su se stessa, si annodò in un cammino finito. Spinse verso l’alto i centauri, li sputò con l’ostilità di uno scoppio, scaraventandoli lontano. Pupazzi abbandonati dal loro destino, dimenticati dentro la tragedia. E poi la strada, forse pentita, inciampata in un ripensamento, inutile ormai quanto tardivo, li risucchiò indietro, ma molto lontano da dove li aveva sobbalzati. Senza preoccuparsi del comodo dei loro corpi, espose i fianchi duri del asfalto. La corsa si spezzò in mille schegge; bloccato rimase il tempo in bilico fra un attimo e l’altro; senza alcuna pietà il caso decise di rubare le fatiche e le aspettative di una vita. Per colpa di un istante che non doveva venire.

“Oh, Dio, un incidente!”

E piombò la notte dentro il giorno. Anche se gli occhi rimasero aperti, si coprirono con il rifiuto di vedere. La gente si bloccò lungo i marciapiedi, il brivido incollato alla pelle dei testimoni. Polvere nera macchiò l’aria. Ali spezzati di un uccello a terra; una piuma fatta di plastica volteggiò ancora, quasi incredula, poi si lasciò cadere dal alto, animale fedele, accanto al corpo immobile dell’uomo. Tutto finito. Soltanto il motore che ancora ronzava insisteva sulla continuità dell’attimo di prima.

“Avete visto? Pare siano in due, un uomo e una donna. Una ragazza, forse la figlia.”

La curiosità fece passare la voglia di guidare. Le macchine rallentavano, si fermavano in mezzo la strada. Non c’era più udito dentro le orecchie e le sirene delle ambulanze si smarrivano non sapendo dove posare le loro urgenze.

“Fatte passare, fatte passare le ambulanze!”

È bastato un’istante per svuotare il tempo di ogni fiducia. La vita ingannata da una traiettoria senza senso. Sul asfalto il sangue rappreso, dimenticato dai corpi portati via dalla fretta efficiente di una barella.


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