Francesca Luzzio, Cerchi ascensionali , ed. Il Convivio
Ogni volta che ci si trova dinanzi ad un nuovo libro di poesie da leggere o commentare, viene istintivamente di domandarsi cos’è la poesia; quale ragione oggi spinge a scrivere poesie e quale può dunque essere il nostro giudizio, cioè quanto il libro in oggetto corrisponde ad una nostra idea di poesia come valore. Avvezzi ormai al sistema novecentesco del verso libero ed a quello che ne è il peculiare carattere, cioè l’esprimersi disinibito dell’individuo, dell’io inteso come ai margini del mondo, è facile poter dire che tutto quel che si scrive è poesia a prescindere dalla sua consistenza, e comunque non si viene mai ad una definizione omogenea, codificabile. Perché in realtà non è definibile un criterio unitario della poesia nel presente, perché il presente della poesia è la presenza dei vari poeti: non deve parlarsi dunque di poesia in astratto ma dei poeti, del loro proporsi, col loro stile, il loro bisogno di comunicare, la loro presenza umana, perché la poesia, si badi, nasce comunque come bisogno di singolare comunicazione.
Dunque piuttosto liberi da una convenuta pratica d’intendere la poesia, ci accostiamo a quest’opera di Francesca Luzzio cercando di coglierne le ragioni intrinseche, singolari, di stile, frutto della sua umanità. Ecco che lei intanto ci viene incontro con una nota a mo’ di chiusa, ove ci avverte come la poesia vuole essere sì, e soprattutto, esplicazione dell’io come essenza dell’anima, ma che sta nella pluralità di idee, sentimenti ed emozioni che fanno il percorso quotidiano della vita; ed ammonisce che il linguaggio del poeta deve pur mantenere una strutturazione logica, ma che ne consenta la fruibilità ad un vasto pubblico di lettori. Una lezione insomma, qui riassunta alla buona, che è già veicolo indispensabile per entrare nel criterio d’invenzione che vige in questo libro e che è sulla scia di un ormai lunga pratica di far poesia dell’autrice stessa.
Ma cosa Essa ci fa leggere qui di specifico e di nuovo? Come leggere queste sue nuove pagine?
Anzitutto ne rileviamo la struttura che mira a determinare una loro linea di sviluppo verso un’idea di fondo, che sta come a voler riassumere le tappe o zone delle proprie fasi di ispirazione: queste hanno insomma come un filo conduttore invisibile, segreto, che è nell’animo dell’autrice, e va verso la cima, che sarà l’abbandono ad un fervido sentimento religioso della vita.
Vediamole analiticamente queste tappe, i cerchi come meglio lei le chiama, mutuando una dizione colta che sa di dantesco. Io suggerisco di trarne come dei quadri compositivi che delineano i diversi momenti d’ispirazione con cui l’io reagisce alla realtà che lo circonda, o ne cerca il senso.
Nel primo cerchio, col gruppo di poesie che lo costituisce, prevale l’io esistenziale che scava in sé; si rivivono i temi tipici della lirica novecentesca: il senso di solitudine, l’incomunicabilità, la monotonia dell’accadere, la sua inesplicabilità. Non vi sono risposte, ma un frullare di sentimenti ed emozioni che razionalmente non si dominano: non può esserci, ad esempio, risposta all’asciutto del cielo, al suo grigiore; vi predomina l’attesa, nozione tipica di matrice ermetica, entro la quale l’individuo come le cose vivono una condizione estraniante, quella che la poetessa fissa come alludendo ad azioni smorzate: si legge: Il binario è rotto/ il treno oggi non parte/ forse più tardi/ancor non si sa. Oppure: amorfo il cielo/ grigio compatto/ forse più tardi/ chissà/ il sole splenderà. Notevole l’eccessiva misura della parola, l’insistenza del forse, un clima dunque d’inesprimibilità, di dubbio.
Secondo cerchio. Qui vi domina una piena connessione alla vita degli affetti: persone e luoghi riprendono vitalità con gli oggetti e con i gesti che li caratterizzano o li caratterizzavano, se non sono più, come i genitori, che tornano elegiacamente per commossa memoria; oppure si presentano al richiamo di una premura che direi domestica, sollecitante, appassionata, come quella verso il marito, la figlia, i nipoti, il cugino. Né mancano le note emozionanti con cui riaffiorano le origini, con quel caro paesello evocato; o il paziente dimorare attuale con le albe domenicali e le estati interminabili di Palermo. Viene inciso insomma tutto un vissuto che sta attorno, l’habitat fisico e morale proprio, testimonianza di una percezione della realtà concreta nella quale la poetessa vuol restare immersa, anzi è proprio nel percorrerla questa realtà che vuole esercitarsi l’acutezza del suo sguardo e la disinvoltura della sua parola.
Terzo cerchio. Siamo forse alla fase più intrigante di tutta l’operazione di cui parliamo: vige di più nei testi la questione del rapporto dell’io col mondo, inteso questo come universo in senso filosofico, quindi si tratta dell’esistenza come mistero. Siamo al canto che oscilla sulle profonde ragioni del tempo. Perciò alquanto notevole il ricorso a Luzi, il rivolgersi con dediche a questo nostro grande amico poeta: quasi che l’interloquire con lui, che a sua volta fu interlocutore dell’esistenza in movimento di cui restano oscure le ragioni, giustifichi e ravvivi le perplessità interiori dell’autrice. E’ Il Luzi della “vicissitudine sospesa” che sollecita la tematica prevalente di questo cerchio. Il tempo, l’epoca cioè, con l’incidere inopinabile del male, e la nostra inadeguatezza al divenire della storia dettano i versi. Leggo: Tu, mio Dio, vedi il mondo, la gente/e forse sai/perché tanto sangue/sparso come niente./ Io non so, non conosco/il firmamento/ i meandri / dell’umano tormento. Ed ancora: L’incontro con la storia insegna/che non entreremo mai nel mistero umano/ nelle pulsioni che lo fanno andare… Si può cogliere come originale in questa sezione del libro il concetto di mediazione. Chi pratica poesia, il poeta che la scrive, è colui che utilizza la poesia come strumento di mediazione tra il fondo del reale da interpretare, e che è appunto difficile da interpretare, e lo scorrere comune della vita, che è commedia quale tutti recitiamo tra menzogne e terrori: una mediazione che pure scoraggia –io non riesco a mediare, dice l’autrice- perché vige l’impotenza, che è l’altro concetto conseguente ad ispirare. Ed è l’impotenza che viene da dichiarare al poeta per coscienza del limite. Leggo ancora: …viviamo in un guazzabuglio/di sensazioni, pensieri, emozioni/ che passano e vanno/ nel nulla impotente/che riempie il cuore. Il che sarà anche il trovarsi disarmati a fronte della cronaca bruta della nostra epoca, con l’accavallarsi di vicende luttuose e crudeli, e dunque i drammi dei migranti, delle violenze sulle donne, dei disoccupati, che opportunamente risaltano su queste pagine. Sicché constatiamo che la nostra poetessa sta tutta nella temperie del tempo, inteso sia come filosofia del mistero e dell’insoluto, sia come realtà concreta, visibile, economica, cui lei presta una parola partecipe, commossa e recriminante.
Quarto ed ultimo cerchio. Ecco la rivelazione del disegno covato dall’autrice al fondo del suo spirito. Per la Luzzio, se oltre ogni oscillazione del pensiero ed ogni impaccio del vissuto, c’è un presupposto di tensione verso l’alto, non può che scorgersi il sacro a soluzione dei dilemmi e ad ammortizzare i drammi. Sicché è logico che la zona finale del libro poggi su un’istanza religiosa che valga a superamento di ogni fase memoriale e riflessiva, ne riassuma incertezze e dolori sino a volgerli in preghiera. Allora, senza falso pudore, con sicuro strumento di fede, ci si rivolge al Signore e si prega Maria. Nel fascino di una chiesa al suono malinconico del violino la poetessa si abbandona come ad uno sfinimento mistico ed in esso coglie il raggio vitale di una trasformazione: la pietas religiosa genera l’impulso di carità verso i corpi affamati. Sicché la scrittura risulta essersi fatta messaggio di unità tra amor di cielo e amore del prossimo. Così Francesca Luzzio concluderà questa sua lezione poetica addirittura salmodiando, perché tutto sommato “questa vita bisogna viverla accompagnandola con note che creano armonie e, talvolta, con stridori dolorosi a sentire, ricordando il passato, temendo il futuro e l’oscurità totale della morte, ma sapendo anche vedere l’aprirsi di una porta dorata con luce d’infinita eternità”. Sono parole tratte da uno dei suoi ultimi testi, per un commiato più che pacificante.
Dalla lettura di questo libro si può molto cogliere in quanto a spunti di ripensamento, difficile sarà magari trarne poi qualche sintesi unitaria, definitoria, circa i valori tematici, ma una sintesi sicuramente significativa è invece possibile se ci soffermiamo alla tipicità del linguaggio ivi in uso. Ebbene può sorprendere, forse stupire, la familiarità, a volte disarmante del dettato lirico che vi rileviamo, ma, appunto, come già ci è stato detto nella citata nota, la poesia non sta nelle sofisticazioni letterarie, anzi il suo pregio, come si nota in questo libro, può ben consistere nell’uso del linguaggio comune, quello che odora davvero delle nostre pene quotidiane e delle nostre fedi. Per questo “Cerchi ascensionali” della Luzzio è una raccolta di poesie che riesce di lettura tanto facile quanto gradevole: essa sospende qua e là, con arresti sintattici o interpunzioni, il giudizio sull’oscurità della vicenda umana, e piuttosto questa vicenda ce la restituisce in una dimensione disincantata che tutti ci coinvolge e ci convince.
Elio Giunta
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