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Ogni lettore, quando legge, legge se stesso. L'opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in se stesso. (da "Il tempo ritrovato" - Marcel Proust)

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Lettura V/S Scrittura - l’opportunità di leggere o scrivere

Argomento: Libri

di Giorgio Mancinelli
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Pubblicato il 17/09/2025 18:20:19

LETTURA V/S SCRITTURA
Ovvero l'opportunità di restare in casa a leggere un buon libro, o magari di scriverlo?

In apertura di questa seconda parte del corrente saggio, lascio volentieri la priorità di parola al poeta-scrittore Giorgio Bonacini (1) il quale identifica un non comune ‘senso olistico’ nello scontro-incontro che verosimilmente acclude il ‘leggere’ allo ‘scrivere’ e, viceversa, la parola ‘scritta’ alla parola ‘detta’, in cui l’immaginale astratto interviene a compensare i possibili ‘vuoti interstiziali’ tra i contendenti, consentendo cosi di mitigare il dubbio pressante di una possibile rivalità e/o supremazia di una delle due parti …

“All’inizio consideriamo le parole: quando pensano (o provano a pensare) il vero, si muovono all’interno di un sistema che ha a che fare, in modo determinante, con una zona franca della materia in cui ogni trasformazione sembra, se non attuabile, possibile. Tutto può, concettualmente, definirsi materia, e ogni contrapposizione, genericamente intesa sotto dualismi del tipo palpabile/impalpabile, sensibile/insensibile, visibile/invisibile, ecc., è priva di senso in termini concreti. […] Credo che ciò possa rientrare (in pieno o anche solo lateralmente) in una di quelle idee, così apparentemente folli, che sono alla base di ogni patafisica: una sorta di felicità mentale in cui, alla scienza delle soluzioni immaginarie, bisogna aggiungere però una metodologia dell’indecisione. […] Così il procedimento slitta su zone deformate, in modo tale che l’unica contrapposizione valida è forse soltanto quella fra realtà e reale o ancora fra verità e vero, dove la poesia non si occupa, né potrebbe in alcun modo farlo, della realtà e della verità. Bisogna allora organizzare un nucleo di tensioni che siano, nello stesso tempo, impermeabili e traspiranti; per far sì che la scrittura fuoriesca e divenga un’indicazione esatta di ciò che chiamiamo vero e reale”.

La prima domanda che viene spontanea è: va dunque ricercato un ‘senso’ e una ‘forma’ nello scrivere?
La seconda è contenuta in: va quindi trovato un ‘modo’ e un ‘andamento ritmico’ da seguire nel leggere?
In entrambi i casi la risposta è ‘sì’, per non eccedere e/o sminuire la portata dei rispettivi campi d’azione in cui si sta operando la possibile effrazione che, viceversa, porterebbe alla disattivazione dell’equilibrio intrinseco alla ‘parola che dice’ e/o alla ‘scrittura che narra’: “E ciò può essere l’incarnato di una parola – scrive ancora Bonacini op.cit. – la sudorazione fonica, l’esilio indefinito dell’esperienza individuale, inconciliabili con il carattere volontaristico di una dichiarazione di poetica: alla fine, ciò che resta e che veramente conta è: “..la non parola / tesa / tra / parola e parola”. (2)
La ‘non parola’ quindi, tutto ciò che indiscutibilmente nega, esclude, o capovolge il significato di quanto andiamo dicendo, ma che pure assume predicato di ‘modo e ritmo’; e/o che dà ‘senso e forma’ a quello che andiamo scrivendo. Di fatto, quello che può sembrare un modo di dire quando diciamo: “in ciò che non dice”, talvolta usato nella forma di ‘sospensione’ di una frase detta e/o in una sequenza di puntini inseriti in uno scritto, che pure, va interpretato come “ciò che è detto” che si avvale dell’intuizione interpretativa e soggettiva di chi scrive così come di chi legge. Pertanto, nel contesto della ‘sospensione’ va considerato avente il medesimo valore di “detto tra le righe” e/o di “scritto negli spazi in bianco”.
“Il senso – rileva Alfredo Riponi (3) citando Deleuze – deve diventare ‘forma’ (una sorta di accordo tra sintassi e fonetica e la lingua deve risuonare dall’interno – anche se in un vuoto semantico, nel «rien à exprimer». E che, Cristian Prigent incalza: “La regione del suono (che parla) è al di là dell’iimagine (che narra). Il bianco, il non detto, il silenzio (al di là) dell’immagine è ciò che il linguaggio (la parola) tiene in riserva. Omofonie, allitterazioni e ripetizioni, marcano la ‘poetica’ divenendo intenzionalmente (di per sé) già ‘stile’. […] Mentre le associazioni fonetiche conducono alla meta-forizzazione continua del ‘corpo’ (forma) postulato.”
Che al dunque abbia ragione “Pablo Neruda nell’affermarne che dinanzi alle tante domande assillanti che si poneva la soluzione trovata era quella di andare a vivere sulla riva del mare per gettare in acqua le risposte, al fine di non litigare con nessuno, neppure con se stesso? O constatare, come fa Herman Melville, che il mare è l’immagine dell’inafferrabile fantasma della vita, per cui anche la poesia potrebbe essere un fantasma che tormenta la nostra vita, per non farci assopire e, sognando, entrare nell’incubo della realtà contemporanea?” (4)
Ciò nonostante quale essa sia, la ‘contemporaneità’ fa parte del nostro vivere il presente e non ci si può esimere dal farsi venire qualche dubbio sul ‘senso’ dello scrivere e/o sul senso di dedicare il nostro tempo alla lettura di un libro, o magari, e perché no, di scriverlo? Ben sappiamo che ogni storia al fine è significante per chi ‘in un modo o in un altro’, la scrive; eppure non è così per chi la legge, perché c’è modo e modo di farlo, e ognuno che legge diventa ‘più o meno’ complice di chi l’ha scritta. Più verosimilmente chi legge è connivente con l’autore della sua e/o della propria enfasi, come anche della propria irrequietezza, del proprio volontario-involontario turbamento.
Dacché Marcel Proust “..ci ha insegnato, che non esistono questioni insignificanti, che ogni domanda formulata è importante, anche se ne ignoriamo la ragione, e c'impegnamo al nostro meglio per informarlo – senza sapere bene a che scopo, […] che ogni lettore, quando legge, legge se stesso. L'opera dello scrittore è soltanto
una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli
di discernere quello che, senza (un) libro, non avrebbe forse visto in se stesso.”
(5).
Ci siamo introdotti di peso nella hegeliana “Fenomenologia dello spirito”, oppure stiamo andando fuori della misura del nostro discorso iniziale? Siamo ancora ben saldi dentro la pensosa problematicità del nostro vivere nel presente, oppure stiamo semplicemente tergiversando per non affrontare i molti dubbi sorti dallo scontro calunnioso del titolo prescelto: “Lettura VS Scrittura”? In realtà non c’è nulla di anteposto né di posticipato ma, senza voler entrare nell’esposizione filosofica di Hegel, è opportuno premettere talune osservazioni necessarie. Ci da l’avvio Eugenio Lio nel suo illuminato saggio “Ontologia del perdono – Note sulla Fenomenologia dello Spirito”:
“Il movimento dialettico è movimento dell’essere, perché l’essere è coscienza: l’essere è il suo apparire. […] L’essenza dell’esistenza dell’uomo sta nella sua apertura all’essere. Questa apertura è il senso originario della verità, da cui deriva ogni costruzione (narrativa) possibile dei significati (fenomenologici) del mondo. La filosofia, in quanto domanda sul senso dell’essere, significa anzitutto portarsi in questa apertura e, dunque, nel luogo (e nello spazio) ontologicamente autentico dell’esistenza.[…] Nello ‘spazio’ della filosofia, l’uomo si rivolge, all’ente biologico (del suo esistere), cioè al senso ultimo di ogni determinazione e sfumatura dell’essere. Pertanto, la locuzione heideggeriana «Esserci» indica proprio questo ‘luogo’ originario in cui da sempre (e per sempre) l’uomo abita e che, viene alla luce nella ‘pienezza del suo spirito’ (6).
Tuttavia, scrive ancora Lio: “Non siamo così lontani dalla prima parola della filosofia: […] principio delle cose che sono è l’infinito […] donde le cose che sono hanno anche il dissolvimento secondo la necessità. Infatti esse pagano l’una all’altra la pena e l’espiazione dell’ingiustizia secondo l’ordine del tempo.» A cui mi viene da aggiungere: “e delle cose che sono sempre” e/o “delle cose che sono infinite”, per cui è solo possibile conoscere l’inizio e non la fine.
Anche se ciò fin qui detto rientra nella dialettica filosofica hegeliana, non sempre ci è richiesto di porre concettualmente in contrasto le due allocuzioni iniziali, ci basti condurre il ragionamento nella differenza emozionale che le contraddistingue tra il finito ‘scritto’ e il volatile ‘parlato’, l’oltrepassamento del ‘finito’ nel leopardiano ‘infinito’. Acciò riconoscere un’unica linea di fuga su cui due equivalenze corrono verso una medesima ‘estremità’, quella stessa individuata in ‘senso olistico’ nell’immaginale astratto della ‘poetica bonaciniana’ (7).
L’idea d’infinito nell’astrazione leopardiana riporta alle antiche note di cui sono fatti i ricordi e in qualche modo i sogni, in cui il ‘senso estetico’ tende a riempire i ‘vuoti interstiziali’, non necessariamente filosofici, che la velocità del passare del tempo non ha concesso di memorizzare nelle loro peculiari finitezze, lasciando filtrare suggestioni ed emozioni di diversa natura: luci ed ombre che si rincorrono, gradazioni diverse e sfumature di colori, tendenze divergenti al vero e/o al falso che abbiamo avallato, volubilità del giusto verso l’ingiusto, che pure sappiamo essere parte di quel ‘Se’ che abbiamo costruito intorno al nostro essere originario, a quel corpo nudo entrato nella creazione del tutto.
Quel ‘tutto’ esteticamente modellato che abbiamo imparato a conoscere (e in parte a distruggere) quale chiaro “esempio razionale” (8) artisticamente concepito, che Paolo Tosco ha definito: “espressione di un modo di conoscere il reale”, seppure non sempre determinato dall’inafferabile ‘finito-infinito’ dell’intelletto umano inverificabile e inesprimibile dell’esercizio filosofico, in cui le istanze della ragione altresì conducono alla contemporaneità dell’arte nelle sue molteplici sfaccettature e accezioni estetiche. Ma anche no, tutto dipende dal punto di vista da cui prende avvio il nostro ‘personale senso gustativo’, che abbraccia l’‘estetico’ e ciò che per comodità definiamo ‘anti-estetico’; ciò che vale per il ‘bello’ e/o ‘brutto’, nonché, ciò che ci sembra ordinario e/o straordinario, elaborato durante il ‘tempo’ (periodo) di accrescimento dell’esistenza individuale.
Scrive in proposito Gabriele Scaramuzza: “Ho sempre pensato che le arti fossero una modalità del conoscere, non in senso intellettivo, bensì in una delle modalità in cui pur sempre si esplica la ragione: modalità del rendersi conto , di cogliere le cose , e di esprimerle. In un senso in cui diviene determinante. […] Il ‘luogo’ in cui l’esercizio filosofico della ragione, il suo momento peculiarmente «razionale», si dà palpabile sensibile esistenza, è nel mondo che chiamiamo estetico (che per certi tratti include l’artistico); giacché è comunque il ‘luogo’ […] ove è racchiuso un determinato segmento del tempo” (9).
Dacché l’autore si/ci pone spontanea la domanda: “La conoscenza qui in gioco, ma del resto forse ogni conoscenza, è racchiusa entro un determinato segmento del tempo?”

“Non direi – aggiunge Scaramuzza. Coglierla nelle sue origini storiche è indispensabile; ma non è tutto. D’altro lato, noi non siamo esclusivamente la nostra contemporaneità; abbiamo radici che affondano in un passato molteplice, dentro e fuori di noi; il nostro oggi trattiene mondi lontani, è risaputo. Per questo possiamo sentir vivi i Presocratici non meno di Kant, Basho non meno di Trakl; e continuare ad amare Mozart accanto a Kurtag, ascoltare con partecipazione Verdi non meno di Bach e Mahler. […] Quanta più ragione aveva Vico con la sua teoria dei ‘corsi e ricorsi storici!’ Ora lo sappiamo bene: c’è un continuo mutamente, è vero, tumultuoso per lo più; ma dove conduca è incerto” (10).

Il tempo, gia! Sembra non essere mai abbastanza. Allora non ci rimane che andare ‘oltre’, verso quell’infinito che non è ancora storia, verso quel ‘mondo estremo’ posto tra il ‘sogno’ e la ‘follia’ del pensiero umano, ove la mente estatica trascolora la colorazione del tempo dei ricordi, così come il tempo dei sogni, diradandone le nebbie. Come scrive Flavio Ermini …

“È un procedere febbrile e ostinato (il nostro), di parola in parola, con quasi impercettibili aggiustamenti verso la verità dell’essere, sempre lontana, ma pur sempre in vista. È un continuo inoltrarsi nella conoscenza, ma senza febbre di possesso – (ché sappiamo irraggiungibile). […] Ci troviamo al cospetto di un’esperienza radicale ineludibile; di fronte a un cantiere che sembra definibile unicamente quale ‘soglia’. Proprio come accade con l’infanzia, (dei ricordi come dei sogni), che si rivela come forza attiva soltanto nell’insidioso passaggio verso la vita psichica della maturità. […] Diciamo subito che il principio è, sì velato, ma non è concluso, né è caduto nell’oblio (di noi contemporanei). Sosteniamo che sia ancora possibile restituire alla parola la facoltà di pensare in modo più originario (o forse originale?), così come accadeva nell’indefinito albale della prima nominazione. È un pensare che si va formulando come un ‘chiamare’, il cui moto impone un principale protendersi-verso, un ex-porsi”. […] “Ecco il futuro che viene tanto faticosamente dissotterrato. Ecco il principio: un grandioso, terribile e inevitabile gesto che custodisce da sempre e per sempre tutto ciò che preme all’essere umano (e che da sempre desideriamo). Ed ecco il secondo principio (in risposta al nostro ostentato inquisire): un’ulteriore comprensione di ciò che ha luogo senza-limiti.” (11)

Onde per cui non sussiste inimicizia alcuna tra ciò che è passibile di fraterna amicizia, di quanto la ‘lettura’ dona alla ‘scrittura’ e viceversa, in cui ognuno, per dire chiunque ne abbia maturato la facoltà, può, nel tempo dell’ozio che si richiede, leggere un libro che aspetta di essere letto e/o re-inventarsi dietro una storia, una narrazione, una poesia, e/o fra le pagine di un diario, e raccontare scrivendo il proprio vissuto, i propri ricordi, i propri sogni … insomma la sua ‘gioia di vivere’. Così come suggerisce ‘il medico dei pazzi’ e pur grande Vittorino Andreoli nel suo “La gioia di vivere” (12):

“La gioia la si fa. La si costruisce su misura di ciascun uomo e di ciascuna esistenza.”

Nota poetica (GioMa)

'in tempo piano'

..è del tempo piano
l'incedere dei ricordi
quando tutt'attorno
la mente
ricrea ciò che credevamo
dimenticato
..è allora che
recuperiamo
il tempo in cui
si era interrotta
la linearità
della vita
dove ogni cosa
trasfigura nella luce del creato

Bibliografia essenziale:
1) Giorgio Bonacini, “Note di poetica astratta. La dimora del tempo sospeso” - Francesco Marotta Editore, 2019.
2) Hilde Domin, “Poesie, in forma di parole”, a cura di Gio Batta Bucciol, 1990.
3) Alfredo Riponi, “Senso e forma”, in ANTEREM n.99 – Rivista di Ricerca Letteraria, 2019.
4) Loredano Matteo Lorenzetti, “L’evanescente consistenza della poesia” , in ANTEREM n.99 op.cit.
5) Marcel Proust, “Il tempo ritrovato" – in “Alla ricerca del tempo perduto”, I Meridiani Mondadori, 1983.
6) Eugenio Lio, “Ontologia del perdono – Note sulla Fenomenologia dello Spirito”, in ANTEREM n.99 op.cit.
7) Giorgio Bonacini, “Note di poetica astratta”, op.cit.
8) Alasdair Macintyre, “Animali razionali dipendenti”, Vita e Pensiero Edit. 2001
9) Gabriele Scaramuzza, “Una ragione estetica?”, in ANTEREM n.99 op.cit.
10) Ibidem
11) Flavio Ermini, fondatore della alla Rivista di Ricerca Letteraria “ANTEREM”, n.99 in ‘Editoriale: All’insorgere di un’altra lingua”, ANTEREM Edizioni 2019.
12) Vittorino Andreoli, “La gioia di vivere”, Rizzoli 2016.




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