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Frammenti dell’abisso

Argomento: Poesia

Testo proposto da LaRecherche.it

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Pubblicato il 08/10/2025 22:00:00

 

Frammenti dell’abisso – Etica e testimonianza negli haiku per Gaza di Francesco De Girolamo

Riflessioni di Lidia Popa

 

Nel panorama della poesia civile contemporanea, i sette haiku per Gaza di Francesco De Girolamo, pubblicati nella raccolta Fruscio d’assenza (2009), si configurano come un esempio emblematico di scrittura etica che assume la forma breve non come semplice scelta stilistica, ma come postura morale. In un contesto segnato dalla violenza bellica e dalla disumanizzazione, l’autore adotta il linguaggio dell’haiku non per evocare la natura o la contemplazione, come nella tradizione giapponese, bensì per incidere con precisione chirurgica nel tessuto della tragedia.

 

Sette haiku per Gaza

di Francesco De Girolamo

 

I corpi esposti,

Esanime vergogna

Di un acre abisso.

 

++

 

Voci confuse

Balbettano la lingua

Della vendetta.

 

++

 

Sangue su sangue,

Occhi che hanno perduto

Ombre d’attesa.

 

++

 

Osceni suoni

Tagliano l’aria inerme

Tra oscuri tuoni.

 

++

 

Bambini scalzi

Inseguiti dal fuoco

Cieco dei razzi.

 

++

 

Morti nascoste

Nella fossa comune

Della memoria.

 

++

 

Sirene e pianti

Nelle tregue tradite.

La Belva è sveglia.

 

– 9 gennaio 2009 –

da Fruscio d’assenza di Francesco De Girolamo (Gazebo verde, 2009)

 

La struttura dell’haiku — tre versi, diciassette sillabe — impone una disciplina formale che amplifica la densità semantica e simbolica di ogni parola. Ogni componimento si presenta come un frammento di visione, un’istantanea che non descrive ma denuncia, non consola ma espone. Il primo haiku (“I corpi esposti, / Esanime vergogna / Di un acre abisso”) apre la sequenza con un’immagine di nudità e vulnerabilità che si fa emblema della vergogna collettiva. L’abisso evocato non è solo geografico o politico, ma etico: è lo spazio in cui la responsabilità umana si dissolve, lasciando emergere il volto nudo della violenza.

 

La lingua della vendetta, il sangue che si sovrappone, gli occhi che perdono l’attesa: sono tutti segni di una disumanizzazione progressiva, dove il linguaggio stesso si frantuma (“Voci confuse / Balbettano la lingua / Della vendetta”). Il balbettio diventa figura del fallimento della parola, del ritorno all’istinto, alla ferocia. Il ritmo degli haiku è scandito da immagini acustiche e visive che si alternano con precisione: “Osceni suoni”, “oscuri tuoni”, “sirene e pianti”. Il paesaggio sonoro è quello di una guerra che non tace mai, che lacera l’aria e la memoria.

 

Particolarmente significativo è l’ossimoro “fossa comune / della memoria”, che rovescia la funzione etica del ricordo: la memoria, da luogo di custodia e giustizia, si trasforma in tomba, oblio, complicità. L’ultimo haiku (“Sirene e pianti / Nelle tregue tradite. / La Belva è sveglia.”) chiude la sequenza con una nota apocalittica. La Belva non è solo la guerra, ma la parte oscura dell’umano che si risveglia quando la tregua viene tradita, quando la pace si rivela una pausa tra due massacri. È un’immagine archetipica, mitologica, che trasforma il dato storico in simbolo universale.

 

Questi haiku non aspirano alla bellezza, ma alla verità. E la verità, in questo caso, è dolorosa, frammentata, urgente. La poesia si fa testimonianza, e il lettore è chiamato non a contemplare, ma a ricordare, a rispondere, a vegliare. In tal senso, l’haiku si configura come luogo di esposizione: non narra la guerra, ma ne custodisce le tracce, le incrinature, le voci balbettanti. La forma breve diventa gesto di rispetto verso il dolore, rifiuto della retorica, apertura al silenzio che segue la catastrofe.

 

In questa prospettiva, l’opera di De Girolamo si avvicina alla filosofia di Emmanuel Lévinas, per cui l’etica nasce dal volto dell’altro, dalla sua esposizione, dalla sua vulnerabilità. Qui, il volto è spesso assente, ma la sua assenza è già una chiamata. Ogni haiku è un frammento dell’abisso, ma anche un frammento di veglia. E la veglia, nella sua nudità, è forse il primo gesto di giustizia. Così, il lettore non è chiamato a comprendere, ma a rispondere. Non a chiudere il libro, ma a portarlo con sé — come una ferita, come una domanda, come un atto di memoria che non si lascia seppellire.

 

Lidia Popa

Roma

8 ottobre 2025

 


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