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Qualcosa che tu non dici

di Antonio Vittorio Guarino
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Pubblicato il 01/07/2017 13:57:33

No, la scrittura impersonale non fa per me!

Preferisco i nomi propri di persone e di cose

e l’indecenza delle confessioni.

 

Io, la castità di una bomba inesplosa,

il pube canuto di una suora,

il passo sospeso di un idiota…

 

(Certo vorranno acconciarmi la barba,

rapinarmi della mia prudenza

frugando nei capelli croste di bianca

non curanza…

Assisterò impotente, con orbite

                                                    da niente

alla spogliazione-vestizione del corpo.

Sembrerà uno di quei film

che salvano le serate dalla noia e dalla gioia,

interrotti da promo rassicuranti 

per non cacciarci nella paura della fine del mondo.

Questa breve parentesi di futuro

non può chiudersi: è una porta difettosa,

c’è da rifare la serratura.

Fino ad allora i ladri potranno entrare,

il fratellino potrà sbirciare sua sorella

che si denuda, il  padre che invecchia

e disegna sulla lavagna progetti per i figli,

la madre che dondola e si spoglia

di ogni tenerezza o ricordo sulla soglia

di una luce azzurra che è verità e menzogna,

e se stesso, che ripete nell’occhio infinito

ogni gesto o paura,

ogni tortura deliziosa nella gabbia d’oro

ove l’uccellino stecchito riposa.

Fino ad allora continueranno

a chiudersi e a spalancarsi finestre,

si appanneranno i vetri,

si disegnerà col dito sulle tempeste).

 

Questa notte ho boccheggiato

in un acquario di lacrime.

Se Notte cade così presto…

Questa notte ho perso

la vista, l’udito, il gusto, l’olfatto... solo il tatto

m’è rimasto per stringermi nel disastro

della carne.

 

Sono solo, sono solo, sono solo.

È inutile cercarti nei luoghi deserti di te.

Parlo con nessuno (la logorrea del battista).

 

Ricordi il tempo delle maschere e delle

metamorfosi?

 

Ho corroso i palmi con la luce.

 

Passati i pomeriggi delle muse,

le lunghe camminate perdute,

nell’aria d’oro polverizzate.

 

Ho educato il mio orecchio alle incipienti

congiunzioni del mondo.

 

La più ottusa delle bambole

fa il verso della tua Assenza.

Cadute le note dallo spartito,

non restano che righi neri

e in mezzo stupidi cieli!

 

Ho osservato  più volte

l’occhio avverso dei gatti

ed  ho perso il senno dell’uomo.

 

Sui vetri disegno l’ovale smorfia

degli idioti e dentro, poi dentro…

 

Era inverno, e l’inverno ha leggi di Odino...

Era inverno, e d’inverno si contano i passi

dei morti sulla neve, si disegnano

angeli dalle ali aperte…

 

Ma se notte cade così presto

chi vedrà l’angelo andare,

i morti inventare sentieri

per i vivi?

 

Non ho che diari d’assenze da scrivere

e versi che nessuno vuol cantare.

La mia camera, sempre un covo

maleodorante di fogli, verrà presto smantellata

e il sole potrà entrarvi senza pagare i doganieri dell’ombra.

 

I burattini sulla mensola

mimano la guerra dei soldatini.

 

E dunque mi hai lasciato

la profezia della mancanza,

la mediocrità della separazione.

 

Ogni orma dice - della tua assenza -

qualcosa che tu non dici.


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