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La scatola di cartone

di Lorenzo Palombo
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Pubblicato il 06/07/2020 23:02:06

È passata un’intera estate da quando non ho più frequentato mio padre.

Più passa il tempo, più elimino la sua immagine con la forza della mente: il suo corpo, il suo volto, i suoi atteggiamenti e i suoi difetti; anche la sua voce non me la ricordo più.

In tutto questo tempo non gli ho mai lasciato un messaggio; non l’ho neanche invitato a prendere un caffè, o a fare una passeggiata. Niente, zero assoluto.

Tutti, sicuramente, hanno i loro buoni motivi per chiudere i rapporti con delle persone che entrano nella loro vita, a prescindere dal legame di sangue.

Mi sono sempre chiesto: che ragione ho di evitare mio padre?

Rabbia? Rancore? Pigrizia? Orgoglio? Vigliaccheria?

 

Vivere tutte le emozioni con il proprio compagno, leggere libri, guardare la televisione, andare al cinema o al teatro, non può essere una scusa valida per sparire dalla circolazione: questo lo so!

 

Spesso mi è capitato di pensare a mio padre, soprattutto di notte; più che altro, cerco di non pensare alle cause del nostro allontanamento; impiego uno sforzo tale, che alla fine sento una forte pulsazione alla testa fino a star male, e la conseguenza è l’insonnia. Dopo un paio d’ore, stremato dalla lotta, mi lascio accogliere nelle braccia di Morfeo e riesco finalmente ad addormentarmi.

 

Una sera di queste mi è capitato di sognarlo.

Non so dire se era un sogno bello o brutto, ma di sicuro mi ha trasmesso un messaggio che non voglio sottovalutare.

 

 

***

 

 

1

 

 

All’inizio di quel sogno, ho avuto modo di confessargli tutte le mie angosce e tutte le motivazioni per cui non mi sono fatto più sentire.

 

Nel sogno non c’erano molti dettagli, però mi è sembrato che mio padre abbia accettato le mie scuse, e che io abbia fatto altrettanto, anche se ero ancora stravolto dall’emozione che mi suscitava quell’incontro.

 

Io e mio padre eravamo seduti ad un tavolino in un bar, probabilmente in centro.

A bruciapelo mi ha rivelato di aver sposato la sua compagna, e che, solo dopo due mesi di vita coniugale, avevano adottato una bambina di due anni e tre mesi.

Per tale notizia sono rimasto di stucco; e avendo temuto che mio padre potesse accorgersi del mio stato d’animo, ho cercato di farfugliare qualcosa, sforzandomi di mascherare la mia delusione e la mia rabbia.

“Come si chiama questa … bambina?”

“Si chiama Chiku”

“Chiku? Ma … da dove viene?” ho chiesto io, ancora più sorpreso;

“Dal Congo”.

In quel momento non riuscivo più a fargli altre domande.

Un attimo dopo, mio padre mi ha guardato dritto in faccia, chiedendomi se fossi diventato razzista.

Ero sconcertato e offeso per quella affermazione, come se mi avesse detto una parolaccia, e gli dico: “Come faccio ad essere razzista, se sono frocio?!”.

In quell’istante ho realizzato che c’era gente intorno a noi, che ci fissava. Mio padre ha cercato di tranquillizzarmi, scusandosi anche per non aver detto nulla del suo matrimonio e dell’adozione di Chiku.

“… è che non ti sei più fatto sentire … credevo che non te ne importasse” diceva lui. Avrei voluto dirgli che non erano passati anni, ma solo una fottutissima estate; e invece ho deciso di non dire nulla.

 

Dopo la patetica discussione tra padre e figlio, mi ha proposto di fare una gita al parco insieme a sua moglie, invitando anche mio fratello, in modo che potessimo conoscere finalmente Chiku, che in fondo era la nostra sorellina adottiva.

Ho esitato molto prima di accettare il suo invito.

 

 

 

2

 

 

Nella seconda parte del mio sogno, ero sicuro di aver telefonato al mio ragazzo, dicendogli che stavo salendo in macchina per fare quella “insulsa gitarella”, come l’avevo chiamata io, aggiungendo di non sapere a che ora sarei tornato a casa.

Alla fine, ho concluso la telefonata dicendogli che ci saremmo rivisti l’indomani.

 

Guidava mio padre, e al suo fianco c’era sua moglie, ma aveva un aspetto diverso rispetto a com’era l’ultima volta che c’eravamo visti; in quel sogno aveva i capelli lunghi di un castano purpureo, e un ombretto scuro che le copriva le palpebre, esattamente come quella sera in cui mio padre me l’aveva presentata.

Io e mio fratello eravamo seduti dietro, e in mezzo a noi c’era proprio Chiku, seduta sul suo seggiolino, e aveva una carnagione più scura di quanto pensassi. Durante il tragitto, quella bambina non faceva altro che lallare, emettendo dei suoni infantili fastidiosissimi senza concedersi un momento di sonno. “E tuo figlio?” chiedevo alla mia matrigna, sforzandomi di sorridere. “Oggi c’ha una partita a Frosinone. Vi saluta”, ha risposto lei in maniera cordiale.

 

Nel sogno sentivo anche della musica provenire dalla radio della macchina. Era la voce di Lady Gaga che cantava: “It wasn’t love, it wasn’t love / It was a Perfect Illusion!1.

Nell’ascoltare quel ritornello mi veniva da ridere pensando al mio ragazzo, che per l’appunto odia Lady Gaga perché, secondo lui, scimmiotta Madonna. Di sicuro avrei preferito stare con lui, piuttosto che con quella famiglia che mi metteva a disagio.

 

Per un attimo ho distolto lo sguardo dal finestrino, e avrei giurato di aver visto mio padre e sua moglie nascondere una scatolina di carta marrone con su scritto il nome della bambina.

 

 

 

3

 

 

Appena arrivati al parco, la moglie di mio padre mi ha chiesto di badare per qualche secondo a Chiku, dicendomi di fare attenzione. Ho letto la preoccupazione nel suo volto, ma non capivo il perché; l’ho presa in braccio e lei non faceva altro che piangere.

Era un pianto davvero lancinante.

Mi era capitato, altre volte, di badare a qualche bambino, ma mai ad uno che avesse l’età di Chiku; e soprattutto che piangesse in una maniera così sofferente. La stavo solo tenendo in braccio con molta cautela, visto che avevo il terrore di farla cadere. Continuavo a domandarmi che cosa avesse quella bambina di così grave da far preoccupare sua madre.

 

Mentre Chiku continuava a piangere, ho provato a cantarle una canzoncina nel tentativo di calmarla. Non mi veniva in mente nient’altro che “Let it go2, pensando che di sicuro le canzoni del film Frozen piacciono a tutte le bambine. Le stavo intonando a bassa voce il ritornello in una sorta d’inglese inventato perché, a essere sinceri, non conoscevo le parole, ma in quel momento ero disperato.

Mentre continuavo a ripetere “Let it go … Let it go …” mi sono accorto che l’occhio destro di Chiku aveva qualcosa di strano.

Un punto della sclera era enormemente rigonfio e mi pareva che uscisse qualcosa di mostruoso dal bulbo oculare; sembrava un uovo che stesse cercando di schiudersi.

Mi sono messo a gridare disperato per chiedere aiuto.

Mio padre e sua moglie hanno preso la bambina, quasi strappandola dalle mie braccia e hanno iniziato a cercare concitatamente la scatola di cartone che avevo intravisto in macchina.

Con terrore ho visto aprire la scatola che conteneva gli occhi di “ricambio” per Chiku.

Io e mio fratello abbiamo assistito immobili a quella sorta di operazione chirurgica senza bisturi.

C’era silenzio, interrotto dalla voce della mia matrigna che diceva: “Lo sapevo che su tuo figlio non ci si può contare … è stata tutta colpa sua!”.

Ho avuto la sensazione che mio padre non mi stesse affatto difendendo.

 

 

 

4

 

 

Una volta calmatasi la bambina, tutti noi ci siamo rimessi in macchina per tornare a casa. La mia matrigna era seduta sul sedile posteriore accanto a Chiku, e la guardava continuamente. Mio fratello invece si trovava nello stesso posto dove era seduto prima, mentre io ero seduto davanti, accanto a mio padre.

 

Ero convinto che tutti mi odiassero in quella macchina. Mi sentivo come un condannato a morte che sta andando al patibolo; ero certo che mi considerassero un torturatore di bambini.

Chiku avrà quasi perso il suo occhio, mi dicevo, ma il mio cuore si era spezzato, e nessuno ne aveva voluto sapere.

 

 

 

5

 

 

Nell’attimo che precede l’ultima parte del sogno, c’era solamente mio padre che ha riaccompagnato me e mio fratello a casa di mia madre; quest’ultima era allarmata nel vedermi stravolto. In effetti lo shock per quello che era accaduto era così forte da impedirmi di parlare con lei. Ero ancora ossessionato da quell’occhio difettoso che cercava di uscire dalla testolina di Chiku.

 

 

 

 

6

 

 

La mia casa, in quel sogno, era identica all’appartamento dove la mia famiglia, cioè quella composta da mia madre e dal suo compagno, si sarebbe trasferita solo dopo qualche tempo, e sembrava che si trovasse ancora nella fase iniziale del trasloco.

Non c’era quasi niente all’interno di quelle stanze, tranne una sedia, una mensola vuota e quattro scatoloni aperti, dove si trovavano alcuni libri e soprammobili incartati.

 

Proprio su quella mensola avevo notato una pila di posta indirizzata a mia madre.

In mezzo a bollette e offerte telefoniche, c’era una lettera proveniente da una società di adozioni. Sembrava che il nome di quella società fosse Save the Children, ma non ne ero sicuro. Nel mio sogno il logo della ditta era di un colore rosso, ma i caratteri non erano affatto nitidi.

Un attimo dopo mia madre mi ha colto di sorpresa mentre avevo ancora in mano quella busta, e guardandomi, ha ammesso di aver adottato anche lei una bambina, proprio come aveva fatto mio padre. “La vuoi vedere? Vieni!”, mi ha detto.

Mia madre, in un’altra stanza vuota, mi ha mostrato una culla bianca con del pizzo rosa, alquanto stucchevole per i miei gusti.

In quel momento mi è sembrato di trovarmi in mezzo ad un vero e proprio momento di suspence, come se stessi vivendo in prima persona il finale del film Rosemary’s Baby.

Appena mi sono avvicinato a quella culla, ho trovato al suo interno un’altra bambina. Sembrava che avesse meno di due anni, esattamente come Chiku. La differenza consisteva nel fatto che aveva la pelle bianca come la neve, e un paio d’occhi che sembravano dei piccoli zaffiri.

“Non è bellissima?”, ha domandato mia madre, e che sembrava raggiante mentre la teneva in braccio. Avevo anche notato che quella bambina non piangeva affatto, anzi mi rivolgeva sempre un sorriso, però mi mancava la forza di ricambiare quel sorriso. Nonostante fosse bella come il sole, sentivo in me una sorta di ripugnanza nei suoi confronti, come se stessi cercando di evitare un insetto pericoloso.

“Dai, prendila in braccio …” diceva ancora mia madre, ma non ci riuscivo. Mi sentivo male dappertutto. Ancora mi ritenevo responsabile per quello che avevo fatto a Chiku; avevo paura, anzi terrore, che se avessi preso in braccio quell’altra bambina, sarebbe potuta accadere la stessa cosa. Mi sono allontanato rapidamente da mia madre e da sua figlia. Solo allora mia madre ha capito che quello era stato un momento inopportuno per farmela conoscere, considerato quello che era successo al parco.

 

Subito dopo mi sono visto all’interno della doccia, dove ho avuto modo di sfogare tutta la mia frustrazione, piangendo a dirotto.

 

Improvvisamente mi sono svegliato, e dopo aver guardato sul display del mio cellulare, ho scoperto di aver dormito fino alle 11:53.

 

 

***

 

 

Quella mattina ero alquanto sollevato dal fatto che tutto ciò che avevo vissuto in quel sogno non era mai avvenuto. Ma questo non mi ha comunque spinto a chiamare mio padre né quella mattina né quella successiva. Tutti ormai, anche il mio ragazzo, non facevano altro che dirmi: “Prima o poi ci dovrai parlare con tuo padre”. Quella frase mi ha ronzato intorno per tutta l’estate peggio di una zanzara. Ero convinto che avrei rivisto mio padre solo al funerale dei miei nonni, o di qualche altro parente.

 

Una mattina poi, ho ricevuto un sms proprio da mio padre, che mi diceva: “Dobbiamo vederci … che dici se andiamo a pranzo insieme alle 13:30? Ti va?”. Ho cominciato a sentirmi male, proprio come nel sogno, perché una parte di me avrebbe proprio voluto che fosse lui a cercarmi e che non dovessi sempre essere io a fare la prima mossa.

 

Avrò impiegato all’incirca due minuti per trovare una risposta a quel messaggio. Sentivo di volergli dire di sì, ma solo per mettermi l’anima in pace. Solo che non sapevo come formulare quella risposta.

Alla fine ho deciso di rispondere scrivendogli semplicemente: “Dove?”; e immediatamente mio padre ha risposto: “Fra 5 minuti sono da te”.

 

 

 

1 Perfect illusion (L.Gaga, M. Ronson, K. Parker, B.Pop), cantata da Lady Gaga.

2 Let it go (K. Anderson-Lopez, R. Lopez), cantata da Idina Menzel.

 

 

 

 

 

 


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