V
Sara e una ferrari
Gli avvenimenti di quei giorni mi avevano reso incredibilmente insicuro e sospettoso.
Un pomeriggio, tornando a casa, vidi la Ferrari rossa, parcheggiata a dieci metri dal mio portone. Era da tre giorni che a quell’ora, proprio quando rientravo dal lavoro, la trovavo parcheggiata nella via, a pochi metri da casa. La cosa mi allarmò non poco. Aveva tutta l’aria di appartenere a un malavitoso. La prima volta la osservai attentamente cercando di mandare a memoria la targa, rimanendo sul portone per almeno dieci minuti nella speranza di vedere il proprietario. Quando salii in casa, spiai da dietro la finestra della camera: l’automobile, nella sua immobilità assoluta, nel suo silenzio, direi quasi nella solitudine in cui era immersa, ispirava qualcosa di ostinatamente minaccioso. Sembrava essa stessa, con la forma affusata, col rosso sgargiante un avvertimento criminale.
Un pomeriggio, preso dallo scoramento, osai avvicinarmi per guardare dentro i finestrini: sul sedile posteriore una giacca verde di grande taglia e numerosi giornali sportivi giacevano spiegazzati e scomposti, come solo li può tenere un uomo dal carattere violento e irascibile. Sul sedile anteriore un pacco di patatine fritte aperto e semivuoto, di quelle patatine che i ragazzi comprano alla biglietteria del cinema, stava in compagnia di un coltello a serramanico chiuso. Quando mi sollevai, una voce mi fece rabbrividire: “Bella, vero? Ce ne sono ancora poche in circolazione di questa serie” Un signore cinquantenne sbirciava sopra le mie spalle: una faccia troppo per bene per essere il padrone della macchina.
Deciso di far luce sul mistero della Ferrari, entrai nel negozio di Sara: un negozio, io dicevo, di cazzate, ovvero di cose inutili e a volte perfino brutte, ma gestito da una ragazza deliziosa.
Sara era figlia di un alto magistrato. Da tre anni abitava in città: iscritta alla facoltà di biologia, non aveva mai seguito una lezione né dato un esame. Aveva aperto un negozietto dove vendeva fiori finti, bambole di porcellana, oggetti vari, per lo più antichi, oppure moderni, ma con un alto grado di stramberia e originalità.
Alta e sottile, di maniere eleganti e delicate, biondina di capelli che portava annodati dietro la nuca alla maniera della nonna, era dotata di una cultura notevole e soprattutto di un fiuto per gli affari, per i giochi in Borsa, le compravendite, che le permetteva di non dipendere dai genitori e di far sopravvivere quel negozio che sicuramente era in passivo, giacché raramente era visitato da un cliente.
Era amica di tutti gli abitanti di Via Ariosto, dal più vecchio al più giovane, e tutti passavano a trovarla anche soltanto per il gusto di scambiare quattro chiacchiere o godere semplicemente della sua presenza fisica. Lei parlava con semplicità e comprensione con chiunque ed era a conoscenza dei fatti di tutti, pur non essendo pettegola, perché tutti andavano da lei a raccontarli. Quando entrai, era arrampicata sulla scala a pulire il lampadario di Murano la cui luce fioca al crepuscolo conferiva un aspetto fiabesco, inquietante, ai fiori finti, ai cristalli, ai volti rosei e pallidi delle bambole, che al tocco delle sue mani lunghe e sottili, appartenenti certamente a una fata, parevano svegliarsi dal sonno degli esseri inanimati.
“Come stai? E’ un po’ che non ti si vede, sei stato via?”
Era veramente bella. Con lei mi sentivo a mio agio, potevo parlare di tutto, non avevo bisogno di scavare fossati, erigere mura, fortificazioni, come era mia abitudine, a causa di questo carattere diffidente e scontroso che da sempre mi tormenta. Dicevo ogni tanto ad Adelina che Sara era la mia madre spirituale, nella speranza di suscitare in lei, per una volta almeno, un moto di gelosia. Le raccontai le mie ultime disavventure: il furto in casa, la proposta del direttore. Chiesi con noncuranza di chi fosse la Ferrari parcheggiata di fuori, senza far vedere che era proprio quello l’interesse precipuo della mia visita.
“ E’ di un calciatore. Viene a trovare ogni sera le due ragazze che abitano nel palazzo qui a fianco. E si, una macchina così solo i calciatori se la possono permettere!” Mi diedi cento volte del cretino pensando a tutte le angosce che mi ero procurato con quella Ferrari. Si capisce: la squadra cittadina da alcuni anni giocava in serie A; i giocatori erano miliardari, degli stupidi miliardari! Accidenti a lui e alla sua Ferrari!
Dopo la Ferrari mi ero fissato su un Bedford che era parcheggiato in una laterale vicino a casa. Immaginavo che fosse attrezzato al suo interno di apparecchiature elettroniche d’ascolto: antenne, cuffie, registratori, come se ne vede nei film. A volte passandogli vicino mi aspettavo che emergesse una specie di periscopio, come da un sommergibile. In realtà era soltanto la macchina di un’impresa di pulizie che trasportava scope, secchi, aspirapolvere, lucidatrici.
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