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Il fiore, il fungo e la piantina

di Cinzia Perrone
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Pubblicato il 15/12/2016 17:12:02

In un tempo lontano, quando gli uomini convivevano pacificamente tra loro, con la natura e gli animali che li circondavano, i prati erano bellissimi, pieni di fiori graziosi e profumati; ce n’era uno speciale però, molto più bello degli altri, con petali tutti colorati e un odore di buono che infondeva gioia e pace. Tutti, ma proprio tutti, quelli che passavano per il prato dove era il bel fiore, non potevano fare a meno di fermarsi ad ammirarlo. Alcuni ci andavano apposta per vederlo e sembrava che il fiore si cibasse di quegli sguardi curiosi ed ammirati, così come la gente sembrava rinascesse a quella bellezza armoniosa fuori dal comune. Ora la notizia del fiore si diffondeva; di orecchio in orecchio, da bocca a bocca, tutti sapevano dell’esistenza del bel prato in cui sbocciava l’incantevole fiore. Quindi la gente che accorreva, era sempre più numerosa; ci venivano anche da molto lontano, magari anche per ammirarlo solo una volta, ma la sua immagine e il ricordo di quella straordinaria bellezza non li avrebbe mai lasciati: si sarebbero scolpiti nella memoria di ognuno, segno indelebile come una marchiatura a fuoco sul bestiame. Così quel fiore viveva ammirato da tutta la gente nel suo bel prato, inconsapevole quest’ultima che fosse proprio quella mirabile creatura floreale ad ispirare la gioia, l’amore e la pace fra tutti, fonte di un impeccabile condotta improntata all’amore. La bellezza e la purezza di quel fiore erano capaci di destare i sentimenti più autentici e benevoli nelle persone che ne contemplavano l’immagine limpida e soave, come una sinfonia di profumi e di colori che allieta il cuore e fa vibrare l’anima. Nessuno, e dico nessuno, poteva durante il suo viver quotidiano, evitare di sentire il richiamo alla bellezza che aveva tanto riempito i loro sguardi e i loro cuori, infondendo in essi tutto ciò che il bello trasmette. Non si trattava di una bellezza puramente estetica ma di qualcosa di più, più complicato da spiegare e da capire, qualcosa semplicemente da sentire...non con le orecchie, ma con l’anima.  Emozionare, questa è la parola che meglio descriveva l’effetto che produceva su tutti la visione di quell’incanto; tutti siamo fatti di emozioni e siamo portati a provare emozioni: piangiamo, ridiamo, gioiamo, esultiamo, ci commoviamo, amiamo, proviamo paura, dolore, tristezza, felicità...insomma è un continuo sentire che ci avvolge nella calda e rassicurante coperta che è la vita. Un po’ come quelle coperte in quello stile americano che uniscono diverse parti di tessuto. Ecco, quel fiore nel suo bel prato era il fulcro, il centro nevralgico, il nucleo essenziale, il punto di origine di tutto il “patchwork”, fatto di emozioni, sensazioni…fatto di vita, vita che aiuta la vita. Tutto poteva continuare per il vero giusto, ma si sa, che quando tutto fila liscio, è lo stesso genere umano a complicarsi la vita, commettendo dei terribili errori. Un giorno, così, un uomo si era stancato solo di ammirare il bel fiore; per di più gli toccava fare un bel cammino prima di arrivare a quel bel prato. In lui si stava facendo strada l’idea malsana di voler possedere il fiore, così da poterlo ammirare ogni volta che volesse; tenere il fiore tutto per sé significava privare gli altri di una tale gioia per gli occhi e tutti gli altri sensi...e cosa sarebbe stato di quei dolci e delicati sentimenti che provava la gente nel guardarlo? Queste domande l’uomo non si pose; molto spesso, la storia ce lo insegna, purtroppo si agisce senza pensare alle conseguenze. L’uomo era ormai preso da un sentimento sì forte di egoismo, che era comprensibile che mai gli avesse potuto balenare nella testa neanche la benché minima preoccupazione circa la bontà della condivisione del prodigioso fiore e il suo venir meno. Ormai la decisione definitiva era stata presa: doveva essere suo, che importava se questo suo desiderio di possesso avrebbe escluso del tutto gli altri. Non bisogna forse lottare per esaudire i propri desideri, si chiese l’uomo. Era ormai talmente concentrato solo su di sé, da non vedere più gli altri, da non interessarsi della felicità comune all’intera collettività. Lottare per i propri desideri è anche giusto, ma sicuramente questo non deve implicare che nella lotta si infrangano i desideri altrui. Poi, un altro concetto gli sfuggiva: lui stesso era parte di quella collettività, quindi l’infelicità che avrebbe procurato a tutti, primo o poi, si sarebbe riversata anche su di lui; soddisfacendo un suo egoistico desiderio si sarebbe procurato solo una felicità effimera, a discapito di quella ben più importante e duratura comune a tutti, compreso lui. Quando si dice che la stupidità umana non ha limiti! A quel punto, l’uomo si organizzò sul da farsi per poter passare all’azione una volta per tutte, che ormai era stanco di aspettare e rimandare: andò di notte nel prato, di nascosto come un ladro per non farsi vedere da nessuno, si avvicinò all’amabile fiore, e cominciò a scavare la terra intorno e fino in profondità in modo da poter estirpare il fiore integro con tutte le sue radici; più l’espianto fosse stato preciso e perfetto, più l’operazione del reimpianto sarebbe riuscita. Infilò il tutto nella sacca che si era portato dietro per l’evenienza e corse subito a casa, sempre attento nel guardarsi attorno. Arrivato a casa, tosto preparò un vaso pieno di terriccio, accuratamente prese il fiore riposto nella sacca e con delicatezza lo piantò nel vaso. Ora beato poteva ammirare il fiore a suo piacimento, inspiegabilmente felice di essere il solo a poterlo fare. Non ci volle molto prima che la gente si accorgesse che il fiore era misteriosamente scomparso. Come si poteva non notare l’assenza del fiore più bello in quel prato? I primi che scoprirono la scomparsa del fiore, cominciarono allarmati a diramare la notizia, così a poco a poco tutti quanti vennero a sapere dell’accaduto. La tristezza inondò l’intero paese, come uno tsunami che non dà scampo né preavviso. E la gente triste si sa, non combina nulla di buono; anzi, cominciarono da quel momento le inimicizie, le invidie, i litigi, le maldicenze e tutto quanto di più deplorevole esista per rendere una sana e pacifica convivenza, come era stata fino a quel momento, un vero e proprio inferno. Che fosse stata la scomparsa di quel fiore a cagionare così tanto dolore? L’uomo reo che sapeva, dopo aver visto coi propri occhi la tristezza e lo sgomento sul viso di tutte le altre persone, adesso gli interrogativi che frettolosamente e superficialmente aveva ignorato, se li stava ponendo; in cuor suo le risposte che era riuscito ora a darsi, tuonavano come una sentenza senza appello; rubando il fiore, aveva privato le persone della gioia che scuote il cuore, che permette a quei valori di riuscire a venir fuori. L’ altruismo, la bontà, la solidarietà, la condivisione, la disponibilità, la generosità, albergano nell’uomo ma fanno fatica a venir fuori; la natura previgente a quel fiore aveva assegnato questo compito…ed ora? Ora che lo sciagurato si era finalmente posto le dovute domande, oltretutto riuscendo anche a darsi le plausibili risposte, cosa mai rimaneva da fare per porre rimedio al disastro procurato dal suo comportamento scellerato? Il bisogno di cercare in tutti i modi di rimettere le cose a posto, o almeno di provarci, era fortissimo in quell’uomo colpevole, l’unica sua possibilità di potersi riscattare, di potersi sentire di nuovo bene con se stesso e nei confronti degli altri; quando ci si rende conto del proprio egoismo, come era successo a quel malcapitato, si comincia a stare veramente male. Allora una notte egli prese con sé il vaso e andò fino a quel prato dove un tempo il fiore giaceva indisturbato; scavò con cura e vi ripianto il fiore pieno di premura. La sua speranza era una sola: che con quel gesto tutto si fosse sistemato per il meglio e che la vita delle persone potesse ritornare a essere amorevole e gioiosa come prima. Ma una domanda gli ronzava nella mente: sarebbe bastato quel solo gesto così semplice, per porre rimedio a un così grande errore; come un bambino che giocando con la palla in casa, cosa tassativamente vietata, rompe il più bel vaso della mamma e per non farla arrabbiare, meticolosamente lo rincolla pezzo per pezzo. Per quanto grande possa essere il suo sforzo nel ricostruirlo, in cuor suo sa che le crepe a uno sguardo più attento saranno sempre visibili, ma comunque spera che la madre non se ne accorga. Così, l’uomo sapeva che era stato fin troppo semplice l’aver ripiantato il fiore come se nulla fosse successo, comunque sperava che potesse essere sufficiente a rimettere le cose così come erano. L’indomani, tutti si accorsero naturalmente del ritorno incomprensibile del fiore, ma si accorsero anche che accanto ad esso era spuntato un fungo che ne offuscava la bellezza. Ormai la sua visione era compromessa, non suscitava più quella gaudiosa beatitudine che al meglio li spronava tutti ad essere felici e magnanimi. La stupefacente riapparizione, aveva destato nella mente di tutta quella gente, solo una quantità indecifrabile di interrogativi, non più gioia e pace come faceva una volta: le perplessità che aveva avuto l’uomo stavano trovando la loro conferma. Come era possibile che il fiore fosse ricomparso così miracolosamente? E soprattutto, da dove spuntava ora quel fungo, qual’era la sua provenienza e la sua natura? Queste e tante altre erano le domande che si facevano tutti, ma più di ognuno se le faceva l’uomo, che tanto aveva sperato, pur essendo scettico, di aver sistemato ogni cosa. Ritrovatosi solo nel prato, pensieroso e tutto assorto, una voce misteriosa e sibilante lo richiamò all’attenzione; era il fiore che provava a spiegargli, tra la sua incredulità, cosa fosse stato a cambiare la situazione: “Vedi caro amico, io rappresento tutto quello che di bello esiste e riuscivo a infonderlo e destarlo anche in tutte le persone. Tu mi hai voluto per te sottraendomi a tutti gli altri. In questo modo hai causato la fine di un giubilo provvidenziale, e quando poi hai capito la tua leggerezza e ti sei pentito, era troppo tardi. Mi hai riportato, è vero, nel mio bel prato per poter essere di nuovo sotto gli occhi di tutti, ma il mio prato, la mia terra, quella che mi nutre e mi preserva, grazie a te ha conosciuto l’odioso fungo dell’egoismo, con il quale ora mi tocca condividere la casa.” L’uomo triste come non mai, avendo compreso l’irrimediabilità del suo gesto, si chiedeva se ormai non fosse giunta la fine di ogni cosa; il fiore accortosi di questi suoi nefasti pensieri, di nuovo replicò:” Non pensare che è finita, amico mio! Il fungo ormai è qui, è vero, ma come ti dicevo mi tocca conviverci; ma io non sono morto, vivo ancora, e se tu insieme a tutti gli altri terrete quel fungaccio sotto controllo combattendolo ogni giorno, può darsi che le cose andranno meglio, magari non come prima, non sempre, specialmente se qualche volta vi dimenticherete di contrastare il fungo, facendo sì che esso prenda il sopravvento su di me; abbi fiducia, quindi e porta il mio messaggio a tutti quanti.” L’uomo non se lo fece ripetere due volte, andò di corsa da tutta l’altra gente, confessò a malincuore il suo misfatto, spiegando il suo ravvedimento e la nascita del fungo. Poi continuò raccontando quello che gli aveva detto il fiore e quale fosse l’unica soluzione da esso stesso suggerita. L’uomo fu perdonato e tutto andò come il fiore disse, alternandosi i periodi vigili, in cui il fungo sotto controllo lasciava il fiore primeggiare, a quelli distratti, in cui il fungo incontrastato prendeva il sopravvento. Comunque quel giorno in quel bel prato, accanto al fiore di “ogni bene” infastidito dal fungo dell’”egoismo”, germogliò la piantina della “speranza”.


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