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Addio a Berlino

Romanzo

Christopher Isherwood
Adelphi Edizioni

Recensione di Giuliano Brenna
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Pubblicato il 09/08/2013 12:00:00

 

Molti, immagino, conosceranno il bellissimo film di Bob Fosse, Cabaret, tratto a sua volta da un musical, che a sua volta è stato ispirato da questo libro di Isherwood del 1939, dove troviamo la famosa Sally Bowles, che per il grande schermo fu interpretata da una strepitosa Liza Minnelli.

Nel romanzo vediamo un timido ed un po’ impacciato giovane inglese, che porta lo stesso nome dell’autore, giungere nella Berlino prenazista della repubblica di Weimar. Il giovane si prefigge, con le parole dell’autore, di essere una macchina fotografica con l’obiettivo aperto, descrizione efficace ma forse un po’ riduttiva. Perché il giovane Christopher ha anche il cuore ben aperto, e vi accoglie gli strani personaggi che incontra durante il suo soggiorno berlinese. Tra essi spicca appunto Sally Bowles, che nel libro è più una strampalata diciottenne, che cerca di vivacchiare intrecciando rapporti con uomini facoltosi, che una cantante del Kit-Kat cabaret. Se una buona parte del romanzo ruota intorno alle avventure di Sally e i suoi altalenanti rapporti col protagonista, non mancano altri personaggi rappresentativi dei tempi e della situazione. In primis campeggia, immancabile – per i romanzi dell’“epoca” –, la pensione con la sua brava padrona che coccola e rimbrotta i suoi pensionanti, e rende un eterogeneo gruppo raccattato un po’ per caso, una quasi famiglia con le sue relazioni, visibili e sotterranee, le gelosie, i favoritismi, un microcosmo reso ben rappresentativo del mondo che pulsa al di fuori delle quattro rassicuranti pareti. Un altro personaggio di spicco è Otto, giovane tedesco di belle speranze ma assai svogliato, raccattato da un amico inglese di Christopher sull’isola di Rügen nel corso di una vacanza in cui si sviluppa una ambigua relazione fra il tedesco e l’amico di Isherwood, che forse è tratteggiato sulla figura di Spender, il quale, nella realtà, passò un periodo in Germania (come testimoniato ne Il Tempio, versione Spenderiana di Addio a Berlino). La galleria non si esaurisce qua e comprende anche la famiglia di Otto, con la quale Christopher dividerà la fumosa soffitta, e i facoltosi amici ebrei ai quali l’autore impartisce lezioni di inglese e nelle cui case viene accolto come un amico più che come un insegnante. Al di là dei tratteggi psicologici di un microcosmo, qual è l’entourage del protagonista, a colpire il lettore è l’atmosfera generale della città, che si fa via via più cupa, i cieli sembrano farsi grigi, le risate più sommesse, le voci abbassarsi come di fronte ad una grande paura. Ciò che infatti avviene, sullo sfondo del romanzo, è l’avvento del nazismo, con il suo bagaglio di orrore e morte che all’epoca non era palese ma non era difficile presentire. Sottilmente, ma inesorabilmente, nelle persone si insinua una sorta di disagio, qualcuno comincia a vedere gruppi di camicie brune fare atti di prepotenza, vessare inutilmente cittadini, e qualcuno comincia prima sommessamente, poi con voce sempre più forte ad inneggiare al nazismo. Situazione efficacemente descritta nel film citato all’inizio, quando in una taverna un giovane comincia a cantare una canzone nazi-patriottica e piano piano tutti si uniscono al coro che si fa sempre più forte e minaccioso, i protagonisti, Christopher, Sally e l’amico di turno se ne vanno. L’addio a Berlino del titolo non è il saluto che il protagonista rivolge alla città nel momento di andarsene, è l’addio a quel che Berlino rappresentava in termini di libertà di costumi, di apertura mentale, di visioni avanzate e concilianti verso chiunque, Berlino rappresentava la libertà e tale libertà fu spazzata via brutalmente dal nazismo. Addio, quindi, a un simbolo, ad una luce moderna nel cuore di una Europa ancora ottocentesca, addio ad un fiore spezzato e calpestato con cattiveria da un paio di scarponi da soldato. Christopher lascia Berlino al termine del romanzo, mentre Berlino sta sprofondando in un lungo e doloroso inverno; andandosene, il protagonista, cerca di rintracciare i vecchi amici per salutarli, molti non ci sono più, partiti o fatti sparire. Il romanzo resta oltre che una bella e piacevole lettura un valido documento su un periodo storico carico di mutamenti, la prova generale di una catastrofe.

 

Il romanzo ha ispirato un lavoro teatrale, I Am a Camera scritto da John Van Druten. Dal libro e dalla pièce sono state tratte alcune versioni cinematografiche: La donna è un male necessario (I Am a Camera), regia di Henry Cornelius (1955), Cabaret, regia di Bob Fosse (1972), To cabare film tv, regia di Takis Vougiouklakis (1979), Cabaret film tv, regia di Sam Mendes (1993).

 

 


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