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Memorie di una pentita

di Maria Musik
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Pubblicato il 23/09/2012 17:11:31

Sono cresciuta in una famiglia cattolica praticante che prendeva molto sul serio la fede di appartenenza. Non era il classico cattolicesimo all’italiana, quello che esce fuori il giorno del matrimonio perché “in Comune è squallido”, del battesimo dei figli dato che “è tradizione”, della Prima Comunione altrimenti “poverino, si sente diverso” e, nel migliore dei casi a Natale “dato che il giorno in cui nasce Gesù siamo tutti più buoni”.

Nella mia casa si respirava Cristianesimo: si pregava, si accoglieva l’ultimo, si perdonava, si parlava di esempio, di conversione e di peccato. I miei genitori credevano che il matrimonio fosse una vocazione di pari dignità rispetto a quella sacerdotale e che ognuno di noi fosse chiamato ad essere Re, Profeta e Sacerdote cioè “Servo” degli altri e del Signore. Ciò li conduceva a vivere la Carità come un assoluto categorico: nessuno era escluso ed in nome di questo facevano scelte, spesso, scomode ed assai sciocche rispetto al senso comune della giustizia.

Mio padre avevauna fede semplice, lineare, serena; mia madre, invece, era sempre “tentata” dal dubbio e ossessionata dai sensi di colpa che, un’educazione estremamente rigida e un po’ veterotestamentaria, le aveva radicato dentro. Questo, spesso, li portava a discutere per ore, anche in toni piuttosto accesi. Erano, però, convinti che la loro comunità era dove il Signore li aveva messi: la famiglia, il quartiere, il posto di lavoro sapendo, però, che c’era un intero universo, terreno ed ultraterreno, con il quale erano in comunione ed al quale non potevano né volevano sottrarsi.

Così, sono cresciuta cattolica e praticante.

Arrivò il “mitico ‘77” che rimetteva in gioco tutte le mozioni del ’68, attualizzate ed, in parte, ampliate. Fu così che mi ritrovai a vivere un’esperienza nuova: quella della “Comunità di Base”. La ventata di impegno politico, la novità della teologia della liberazione e un impressionante numero di giovani che premeva alle porte delle chiese, in alcuni casi, riuscirono ad aprire varchi all’interno delle parrocchie, “complici” alcuni sacerdoti che volevano riuscire a coniugare la loro appartenenza ad una Istituzione secolare, tradizionalista e lenta nei cambiamenti con l’impulso, dettato dalle loro coscienze, di ascoltare e dare risposta agli input di questo “nuovo popolo di Dio”.

Ebbi la fortuna di capitare in una di queste. Vivevo a Cinecittà e la Basilica di Don Bosco era la parrocchia di più di novantamila abitanti. I giovani erano tanti, frutto degli anni del baby boom: erano tutti figli della classe operaia o piccolo-borghese, tutti studiavano, tutti manifestavano, tutti cercavano, anzi, esigevano risposte. Fu così che il Centro Giovanile annesso, si trasformò in un maxi laboratorio attivo di ricerca sociale e religiosa ed in un importante nucleo di aggregazione. Nacque la nostra Comunità di Base. Certo, in molti storcevano il naso, ci consideravano comunisti, blasfemi, teste calde. Ma ci furono tanti che si lasciarono contagiare. Così, ottenemmo anche una grande cripta (d’altra parte le catacombe come luogo di culto non le avevamo inventate noi) dove celebravamo il nostro vissuto. Quattrocento giovani che si riunivano, si preparavano leggendo la Scrittura, scegliendo i canti e gli strumenti musicali più idonei alla liturgia, preparavano il pane azzimo per l’Eucaristia, le tovaglie ed i fiori con i quali avrebbero adornato la Mensa. Erano gli stessi giovani che affollavano le piazze con continue manifestazioni, che animavano i Comitati di Quartiere, che frequentavano i Collettivi Politici. Poi, si ritrovavano perché questa “rivoluzione” diventasse sacramento. Erano in molti ad affacciarsi e scappare scandalizzati: i preti che non indossavano paramenti medioevali e luccicanti ma una tunica ed una stola, spesso ricamata da noi ragazze con disegni di frutta, fiori o simboli, la confessione dei peccati che introduceva il peccato “sociale” come vera pietra dello scandalo andando a spostare l’attenzione delle coscienze dal sesso verso i peccati di omissione contro l’umanità e la persona, “l’omelia partecipata” che nasceva dall’esegesi e dalle risonanze di tutti nella convinzione che a tutti parlava lo Spirito e che tutti eravamo Popolo di Dio, le preghiere dei fedeli non standardizzate che portavano al cospetto di Dio i bisogni della Comunità ma anche quelli di popoli lontani ed oppressi come il Cile od il Nicaragua.

Quello che più turbava o, addirittura, indignava gli “ortodossi” erano le affermazioni che fede e politica non fossero due cose avulse, la politica non coincidesse con le attività dei partiti ma dovesse essere agita dal popolo consapevole, organizzato e partecipativo, la Democrazia Cristiana non dovesse essere considerata il partito della Chiesa anzi che la Chiesa non dovesse avere un Partito in questo o quell’altro Stato e, soprattutto, che si potesse essere di sinistra e, al tempo stesso, cristiani, anzi, cattolici, dissenzienti, ma cattolici.

Non era una posizione facile la nostra: buona parte dei parrocchiani ci consideravano, quasi, degli emissari del demonio, degli eretici e degli infiltrati; i compagni di lotta ci guardavano con sospetto perché non eravamo stati colpiti da scomunica ed eravamo troppo poco inclini all’uso della brutalità.

Ricordo ancora quando, in occasione di un’assemblea contro la violenza sulle donne, entrammo con un gruppo di amiche ed il moderatore ci accolse con uno stentoreo e microfonato: “Compagni. Accogliamo le femministe cattoliche: so’ tutte vergini!”. Ci sedemmo fra gli altri, mentre scoppiava una sonora risata collettiva, pronte a partecipare malgrado, in quel momento, ci sentissimo un po’ violentate anche noi.

Furono anni importanti per la nostra formazione: anni di studio, di lotta, di volontariato. Ma, poi, arrivò la Controriforma: il sacerdote che ci sosteneva fu costretto a lasciare l’ordine d’appartenenza perché gli era ormai impossibile convivere con le scelte dei superiori, la nostra cripta fu chiusa e noi fummo chiamati a scegliere: o dentro alle loro regole o fuori. In molti decidemmo: fuori.

Per quanto mi riguarda, cercai altre comunità ma, non trovandone alcuna nella quale riuscissi a riconoscermi senza scendere a compromessi troppo severi con la mia coscienza, piano piano, mi convinsi che il mio destino era quello di essere, come Silone, “una socialista senza partito ed una cristiana senza chiesa”.

Malgrado ciò, per tutta una serie di “casi della vita”, continuavo a ritrovarmi a stretto contatto con strutture cattoliche. Sempre di più aumentava l’insofferenza verso le palesi contraddizioni che le contraddistinguevano e la sofferenza per questo “esilio” volontario e necessario che, se da un lato rappresentava la mia affermazione di libertà di pensiero, dall’altro si traduceva in un senso di solitudine e di non appartenenza. La società stava scivolando, sempre di più, nel liberismo sfrenato che ci ha condotti all’attuale situazione, la Chiesa tornava a posizioni intransigenti ed invasive rispetto alla libertà dello Stato, l’individualismo rassegnato prendeva il posto della partecipazione democratica.

Pian piano, si è fatta strada in me la convinzione di appartenere alla “comunità degli uomini di buona volontà”, che non aveva altri templi se non quello della solidarietà, che non faceva distinzioni di genere, credo, razza o qualunque altra categoria rigidamente inclusiva ed esclusiva. Se Gesù Cristo aveva affermato che egli stesso era Amore e che solo sull’amore saremmo stati giudicati (nel senso che solo quello era "l'unità" sulla quale basare la misura della propria umanità e della propria fede), quando mi trovavo a condividere con altre persone che, per i motivi più differenti, cercavano di vivere la solidarietà e la giustizia, tentavano di comunicare onestamente o, semplicemente, vivevano la propria quotidianità nella ricerca del bene comune, in quel momento facevo esperienza di Chiesa.

So che questo può apparire assurdo o idealista ai più: come si fa a fare chiesa in modo silente, insieme ad atei, agnostici od appartenenti ad altro credo?  Non posso certo dare spiegazioni teologiche, non ci sono dogmi che sostengano la mia esperienza, né mi interessa fondarci un’Istituzione intorno. Anzi, essa vive proprio grazie all’assenza di istituzione. E, assurdo nell’assurdo, è sempre tale assenza che mi permette di confrontarmi anche con Cattolici osservanti, cercando di superare per prima i preconcetti per arrivare, se dall’altra parte incontro buona fede, ad un dialogo costruttivo pur nel mantenimento delle posizioni che sono proprie ad entrambi.

E’ un percorso difficile: ricercare i punti di incontro invece che quelli di divisione. Non sempre sono all’altezza nel mantenimento di tale proposito; devo combattere contro la mia indole passionale e polemica, contro la voglia di lasciare che “tutto vada come deve andare”,  contro lo sdegno che, a volte, mi assale e mi porterebbe ad assumere posizioni intransigenti piuttosto che necessariamente assertive.

E non pretendo neanche di essere nel giusto: il dubbio mi è compagno in ogni istante della vita.

Ma sono cristiana e, che questa sia una benedizione od una maledizione, ho smesso di cercare sia una soluzione più agevole sia di divincolarmi, come una lepre tra i lacci, nel tentativo di negare a me stessa questa realtà.

Sono quel che sono, con tutte le mie contraddizioni: una cattolica "pentita", una cristiana praticante.


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