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Come sabbia tra le dita

di Cristina Pongiluppi
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Pubblicato il 16/03/2016 22:53:18

I

  Apro gli occhi, mi guardo intorno. Nella penombra riconosco il copriletto di lana verde a righe rosse, blu e bianche. Mi trovo nella casa di campagna, sono cominciate le vacanze estive.

  Mi volto verso il muro, le mie scritte macchiano la parete qua e là. Date e nomi sono segnati in modo approssimativo, affinché nessuno riesca a decifrare i miei segreti, all’infuori della sottoscritta. Provo una piacevole sensazione di serenità, sono al caldo, al sicuro.

  La rete sopra alla mia testa sembra arrivarmi quasi al volto, riesco a toccarla. Mio fratello sta dormendo nel suo letto, al piano superiore, questo mi fa sentire tranquilla. Come faccia quella vecchia rete deformata a sopportare il suo peso è un mistero.

  In lontananza una fessura sotto la porta lascia filtrare la luce del giorno. Sento delle voci ovattate arrivare dalla cucina, unica stanza della casa ad essere animata a quest’ora. I miei nonni sussurrano, ma nel silenzio ogni parola giunge in maniera chiara, nitida, invadente.

-Fanni cianìn, che ti i adesci.

-Belin, ma son e nêuve.

  Mi alzo, attirata dai suoni e da quella sottile lama di luce. Appoggio i piedi a terra, le piastrelle sono gelate. Mi faccio coraggio e avanzo brancolando nella penombra, con le braccia tese in avanti, per non andare a sbattere. Metto una mano sulla maniglia, appena apro la porta della cucina, un bagliore caldo mi investe, obbligandomi a chiudere gli occhi. Solo il profumo del caffe, forte, intenso, che satura l’aria, riesce a raggiungermi, accompagnato dalla voce affettuosa del nonno: - Cirilini ti sei svegliata?- Non riesco a dire nulla, mi stropiccio gli occhi e mi siedo a tavola.

  Il mio posto è sempre lo stesso, credo. Mi guardo intorno. Il divano, in finta pelle marrone, è alla mia destra, posizionato nel punto più freddo della casa. Lì accovacciata, faccio i sogni più belli. La sera su quei cuscini il sonno mi avvolge, braccia sicure mi traghettano poi in un altro luogo, rendendo possibile un comodo risveglio nel mio letto.

  Di fronte al divano, un frigo non troppo grande. Sopra l’anta marrone, un enorme televisore dallo schermo convesso, alla base del quale due bottoni quadrati servono uno per l’accensione e uno per la selezione dei due canali disponibili. E’ quasi sempre spento, mia nonna lo usa come mensola.  Solo io, tutti i pomeriggi, prima di fare i compiti, concedo una mezz’ora di considerazione a questo scatolotto scuro, guardo “Saranno Famosi”. Occorrono almeno cinque minuti prima che l’immagine compaia, ma, quando lo schermo prende vita, la mia immaginazione si accende con lui. Ballando davanti al frigo, immagino di diventare un personaggio di successo, proprio come gli attori della televisione.

  Tra il divano ed il televisore, il mio posto: la finestra. Passo ore seduta su quel davanzale a studiare il nulla che mi circonda. In inverno guardo la neve scendere, immaginando l’aria frizzante ed il profumo di asfalto bagnato oltre la barriera che mi separa dall’esterno. In estate il caldo estivo, l’odore della strada rovente, il cinguettio degli uccelli, l’aria immobile, scossa solo da qualche battito d’ali, mi ipnotizza. Quella finestra su quel piccolo, piccolissimo mondo è un varco verso la vita che verrà. Da giugno a settembre, mi siedo su quel davanzale, con le gambe a penzoloni.  Al primo piano di un brutto edificio arancione, in tipico stile anni 70, un gigante stonato in un panorama campestre, inizia e finisce il mio mondo. O almeno così pare a me. Mi piace la sensazione del vuoto, quel senso di pericolo controllato. Mia mamma non vuole che io mi sieda sulla finestra, ma in campagna resto sola con la nonna e con la nonna vinco sempre io, o quasi. Quando il sabato sera la mamma arriva, da lassù posso vedere l’Alfa Sud dei miei entrare in paese, allora corro giù per le scale ad abbracciarla. Lei ha un profumo unico, sa di buono, sa di mamma, e poi mi porta sempre un regalino. Non riesco a spiegare quanto mi faccia sentire bene il suo abbraccio.

  Sono seduta a tavola in attesa della colazione e, per quanto mi sforzi, non riesco a vedere la tazza. Mi sembra gialla, con un grosso fiore dagli spessi contorni neri, ma non ne sono certa. Eppure ho fatto colazione migliaia di volte con la stessa tazza, un po’ sbeccata. Non riesco a fissare neppure i colori della tovaglia.

  Davanti a me la credenza. Il piano bianco contrasta con le ante. Non sono certa della disposizione dei piatti e dei bicchieri all’interno, eppure da lì prelevo tutti i giorni le stoviglie per apparecchiare la tavola, un gesto meccanico, privo di consapevolezza, evidentemente. Le posate sono nel cassetto sotto il tavolo, è rotto e si fa fatica ad aprirlo. La nonna mi porge un cucchiaino spingendo con un'anca il cassetto che si oppone alla chiusura.

  Mentre do un morso alla focaccina che trovo accanto alla tazza, sento il nonno brontolare. Mi giro, sul naso i soliti occhiali dalla montatura nera, spessa, squadrata. Una delle asticelle è fissata con il nastro isolante. Si lecca l’indice e cerca di prendere l’angolo della prima pagina del quotidiano che ha sulle gambe. Sento l’odore della carta stampata e osservo le dita del nonno che, nello sfogliare pagina dopo pagina, diventano nere. Ha le mani del mio papà, grandi, affusolate, curate, con grosse unghie allungate. Sono mani create per fare carezze, non  per costruire, le mani di un uomo buono, dolce, intelligente. Le muove lentamente, mentre continua a lamentarsi. Le notizie sul giornale non devono piacergli molto. 

  La nonna mi versa il latte bollente nella tazza, l’orzo rimane impigliato nella panna prima di andare a fondo e sciogliersi. I miei cugini sono fortunati, bevono latte e cacao, ma la mia mamma non vuole, dice che sono più larga che lunga e ha ragione; purtroppo a me l’orzo proprio non piace, mi impasta la bocca con quel gusto amaro. Meno male che la nonna mi compra di nascosto le focaccine. Lei ha le mani nodose,  piene di rughe, le dita sono leggermente deformate, storte, però le unghie sono bellissime, lunghe rosse, lucide. Non le ho mai viste di un altro colore. La osservo dirigersi verso il lavandino, con il solito grembiule, che ora non riesco a vedere bene. Anche il lavandino, vicino alla cucina a gas, dove la nonna in estate prepara la marmellata di prugne, sfuma. Non riesco a distinguere cosa ci sia sotto il lavabo, eppure tutti i giorni sciacquo i piatti con la nonna. Non riesco a mettere a fuoco neppure i fondi e i piani nel lavello, sono sempre gli stessi, da tanti anni, eppure non li riconosco.

  Improvvisamente mi rendo conto di essere ancora sdraiata nel mio letto a castello, sotto il tempore del copriletto verde. In lontananza, tra il calorifero e la porta della cucina, due bastoni per andare a funghi. Mentre li osservo la mia vista si annebbia e ripiombo in un sonno profondo.

 

II

Mi sveglio nella camera della nonna, sono sempre nella casa di campagna. Sono disorientata, perché dormo in questa stanza? La faccia brucia, tengo gli occhi aperti a fatica, sento le ciglia incollate da un'eccessiva lacrimazione. Mi giro, sul comodino l’ultimo libro di Liala. Ieri sera mi sono addormentata alla luce soffusa dell’abatjour, mentre la nonna leggeva. Mi sono stretta a lei, appoggiata alla sua schiena, dopodiché ogni ricordo scompare.

  La nonna sta aprendo la porta, cavoli, cosa le è successo? La sua pelle è tirata, i suoi tratti deformati, gli occhi sono due fessure.

-Tesoro come stai?- E scoppia a ridere- Anche tu sei tutta gonfia. Ieri abbiamo preso troppo sole sulla neve.

  Mi siedo sul letto. Lo specchio sull’anta dell’armadio mi restituisce un‘immagine sconosciuta. Il mio volto è tumefatto, rosso. Gli occhi sembrano quelli di un’orientale. Non ho paura, la nonna ride, vuol dire che non c’è nulla di cui preoccuparsi. Tornerò come prima in pochi giorni. Ho la febbre, credo. Le palpebre sono pesanti, devo dormire. Perdo coscienza.

 

III

  Vengo svegliata da una porta che si spalanca con forza e un lampo di luce ruba prepotentemente la scena all’oscurità. Sono sempre nella stessa casa ma, questa volta, mi trovo nel letto dei miei genitori. Il copriletto marrone, ha grandi fiori ricamati, è ruvido, fastidioso al contatto. Lo riconosco al tatto, gli occhi non mi aiutano, sono ancora socchiusi, il bagno di luce li ha infastiditi e non riescono a mettere a fuoco i dettagli della stanza.

  Mio nonno è infuriato, urla, non è da lui.  Il mio fidanzato dorme nella brandina accanto al letto matrimoniale in cui sto riposando. Il rumore della porta che sbatte contro il muro lo fa sobbalzare sul letto.

A giugno sarò maggiorenne ma mio nonno non lo ricorda.

-Ragazzina, alla tua età non ti vergogni a dormire nella stessa stanza con un uomo?- Urla in tono stizzito, poi mi guarda e non mi riconosce.

  Nella sua mente sono ancora una tredicenne in vacanza con i nonni, in realtà sono trascorse stagioni, anni che lui ha semplicemente rimosso. La malattia è passata come una gomma sui suoi ricordi e li ha crudelmente cancellati, come se non fossero mai esistiti, come se non fossero mai stati vissuti, come se appartenessero a qualcun altro. Visi, voci, sensazioni, emozioni, spazzate via dal soffio del tempo, invisibile e potentissimo. Divorati da un oblio irreversibile.

  Non faccio in tempo a rispondere, interviene mia nonna:

-Athos, no ti véddi ch’a nu dorme c’ o figeu. Stanni tranquillo.

- dôve  sémmu?

- In campàgna.

-A l’è a Cirilini

- Sci

- A l’è vegnûa grande. E quéllo chi o l’è?

- O se galànte

- Ma so poæ o sa?

- Sci.

- A va bén.

Escono dalla stanza, chiudono la luce e la porta. Li sento continuare:

-Elide, dôve  sémmu, a Zena?

- No.

- Ma di là ghe a Cirillini?

-Sci.

-Ma a l’è sôla?

  La conversazione prosegue mentre si allontanano, ma io non li sento più. Mi sono addormentata tenendo la mano al mio fidanzato, lui ha allungato il braccio e, senza dire una parola, mi ha afferrato le dita delicatamente, ma in maniera decisa. Ha capito, non c’è stato bisogno di dire nulla, lui ha capito. Inizio a pensare che sia quello giusto.

 

IV

 Apro gli occhi, questa volta mi sveglio in un altro luogo. Il paese è lo stesso, ma la casa è cambiata: intorno a me le pareti sono arancioni, la stanza è piccola, ma accogliente.

   Osservo la mia mano, è invecchiata, le prime rughe, la pelle secca, le unghie rotte. La mano di mia madre è simile ma, curata, smaltata d’un avorio impeccabile. Ho una mano vecchia per la mia età. In altre culture racconterebbe una storia, la mia storia. Qualcuno la sta stringendo delicatamente, mio marito. Sono avvolta nel suo abbraccio.

  Sento le voci delle bimbe che sussurrano nella stanza accanto. Sono sveglie, tra poco arriveranno a reclamare parte della quotidiana tenerezza di cui si nutrono.  Magari insieme, o forse una alla volta, si infileranno sotto le coperte con i loro piedini gelati, gli occhi cisposi, i capelli arruffati e le braccia protese, assetate di un contatto fisico, caldo, materiale, infinito, immortale.

   Mentre mio marito spalanca le persiane, arrivano e si infilano sotto il piumone, una alla mia destra e una alla mia sinistra. Madonna imperfetta tra cherubini terrestri. Abbraccio entrambe, vorrei baciarle senza tregua, in una noiosa morsa di perenne dolcezza e protezione. Vorrei mangiarle da quanto le amo, farle tornare parte di me per trattenerle, proteggerle dalla vita. Vorrei registrare quelle risate acute, viscerali, spensierate, sincere, gratuite, prive di aspettative eppure fiduciose. Vorrei nascondere questa gioia in qualche tasca, renderla immune al logorio dello spazio e del tempo, per poi restituire ai miei due angeli questo entusiasmo infantile, più in là negli anni, in età adulta, nei momenti di difficoltà.

   Sono felice. E loro? Anche loro percepiranno il mio odore come il profumo della felicità: unico, buono, speciale, come il profumo che aveva mia madre, quando mi addormentavo tra le sue braccia?

   Facciamo una passeggiata per il paese. Qui quasi nulla è cambiato eppure tutto è diverso. Manca qualche sorriso amico, qualche sguardo che strizza l’occhio da dietro un bancone, come succedeva da bambina. Il tempo ha riscosso dei tributi.

   Arriviamo davanti al vecchio gigante arancione, un tempo era la mia dimora estiva. Osservo dall’esterno la “mia” finestra, il davanzale su cui tante volte sono stata seduta a studiare un piccolo mondo, immaginando il futuro. La casa è abitata. Il lampadario della cucina, accesso al centro della stanza, è sempre lo stesso, o almeno voglio credere sia così.

   Vorrei passare alle mie figlie le note intese delle esperienze vissute, il ricordo dei pomeriggi sui gradini del portone, quando ascoltando “La vita è adesso” facevo i compiti delle vacanze, con il libro appoggiato sulle gambe incrociate.  Vorrei raccontare loro il profumo dei falò nel bosco la sera. Il silenzio dei pomeriggi in cui le ore trascorrevano pigre. La serenità di sentirsi amata, perfetta. La fiducia in un futuro da costruire e scoprire, la sete di libertà, la gioia, l’entusiasmo di quegli anni.  Vorrei raccontare loro degli amici che abitavano quel palazzo, dei giochi a palla contro il muro, delle volte che mi sono arrampicata dal balcone per fare uno scherzo alla nonna, del mio primo bacio, della prima volta che ho pianto per un ragazzo, tra quelle pareti. Vorrei riuscire a trasmettere a queste due creature, che mi guardano con occhi grandi come il mare, la felicità delle ore passate con il loro papà, quando ancora ci stavamo conoscendo, la complicità di una vita lontana in cui una cugina era una sorella e gli amici una grande famiglia.

   Vorrei riuscire a descrivere molte sensazioni, ma un’incomprensibile timidezza  emerge a dominare la mia capacità espressiva. Un nodo mi serra la gola, le riflessioni sono tali e tante da privarmi della parola, rendendomi muta. Dopo un profondo respiro, a fatica, come un bimbo che articola i primi suoni, l’emozione mi consente di dire unicamente:

- Vedete, lì, al primo piano, quella finestra? Quella una volta era casa mia.

- Lo sappiamo mamma, ce lo dici ogni volta che passiamo di qua. – Risponde la grande.

   Allora mi spunta un sorriso e penso: “ No tesoro, non lo sapete, non lo sapete, ed io non riuscirò a spiegarvelo. È’ un segreto tra me e la vita che nessuno potrà conoscere. Domani tu avrai il tuo e, per quanto tu possa desiderarlo, non riuscirai a condividere con nessuno la dolce malinconia del tuo tempo che scorre tra intrecci di esistenze, l’amara dolcezza di una storia che si scrive alle tue spalle, ad ogni tuo passo, senza che tu te ne renda conto, la nitida tenerezza di ricordi che scivolano come sabbia tra le dita.” Le do un bacio sulla fronte e continuo a camminare, lasciandomi la finestra alle spalle.


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