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C’era una volta un bambino

di Cristina Pongiluppi
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Pubblicato il 21/02/2016 21:43:28

  C’era una volta un bambino, paffuto e un po’ goffo. Gli ingombranti riccioli neri, disordinati, cercavano di offuscare, senza successo, gli enormi occhi scuri. Le sue mani cicciotte erano impacciate, la sua camminata scoordinata, forse perché aveva sempre lo sguardo rivolto al cielo. Gli piaceva il cielo, gli piaceva l’idea che fosse senza fine, poteva essere riempito con qualsiasi cosa l’ immaginazione fosse in grado di inventare: alieni, astronavi, pianeti sconosciuti, angeli. Quel blu intenso poteva contenere tutto l’immaginabile e l’inimmaginabile, un foglio bianco su cui dipingere in libertà.

  Nelle notti estive, quando il papà lo portava a pescare, era bellissimo osservare, dalla spiaggia, quell’azzurro diventare oscurità. Una mano invisibile, con l’ausilio di un pastello multicolore,  trasformava abilmente il ceruleo in porpora, violetto, ed infine in profondo blu. Una coperta segnata da migliaia di spilli luminosi lentamente copriva ogni cosa.  La via lattea, gliel’aveva mostrata papà, era fantastica, una specie di autostrada cosmica, percorsa dagli abitanti spaziali per muoversi tra la luna ed il sole. Insomma il cielo era proprio bello.

  In inverno, quando la pioggia rigava i vetri e la visuale era ridotta, passava ore ad osservare tutto quel grigio. Uno spesso strato di fumo scendeva a coprire l’azzurro estivo, per consentire la manutenzione delle stelle e dei pianeti. Per essere così splendenti i corpi celesti avevano periodicamente bisogno di una doccia, ma per celare le operazioni di pulizia ad occhi indiscreti, gli astri coprivano la visuale con una fitta coltre di nubi. Le acque di scarico di quella doccia celeste cadevano poi sulla terra, per dar vita a nuove piante, a nuovi alberi.

  Gli altri bambini non erano interessati all’argomento: a Mattia piacevano le macchine; a Giovanni le pistole; a Edo le costruzioni. Il cielo era solo suo. Il piccolo Tommy era timido, non riusciva a fare amicizia con facilità. In mezzo agli altri bimbi si sentiva a disagio, iniziava a sudare, le guance prendevano fuoco, cominciava a balbettare. Tutti allora lo prendevano in giro, aumentando la sua agitazione, la sua insicurezza, la sua goffaggine. Quando era da solo in spiaggia con il suo papà, invece, si sentiva felice.

  Una sera estiva, una di quelle sere in cui il tramonto porta sollievo dopo una giornata soffocante e umida, il bambino ed il padre arrivarono sulla spiaggia, al crepuscolo, affaticati dall’afa. In riva al mare, furono accolti da una piacevole brezza salmastra. Il papà sistemò due seggioline sul bagnasciuga, appoggiò il secchio con le canne sulla sabbia, dopodiché si tolse la maglietta, infilò i braccioli al figlio ed inizio a correre verso l’acqua.

- Vediamo chi arriva primo!

- Aspettami papà, aspettami, arrivo.

  I due si gettarono in acqua insieme. Tommy sbatteva forte i piedi per riuscire a rendere orgoglioso il suo papà, ma continuava a nuotare in circolo, mentre l’uomo lo incitava:

- Bravo ragazzo, continua così! Diventerai un pesce.

Era bello fare il bagno con quel gigante che lo prendeva sulle spalle e lo faceva volare in alto, fin quasi a toccare il cielo.

  Dopo la nuotata, l’uomo avvolse il ragazzino in un telo da mare di dimensioni spropositate per quel corpicino, con un abbraccio energico lo asciugò e fregò per bene i capelli. Si assicurò che il bimbo si cambiasse il costume e si accoccolarono entrambi sulle sedute, con i piedi a sfiorare il pelo dell’acqua. Mentre il piccolo Tommaso gustava il suo tramezzino, tonno e maionese, il padre preparò le canne da pesca.

  Aprì lo straccio in cui la moglie aveva avvolto il pastone, fece delle piccole palline e le incastrò negli ami una alla volta. Liberò il mulinello della prima canna e fece un lungo lancio, dopodiché la passò al figlio, che aveva terminato il panino. Il piccolo la appoggiò a terra e, tenendola tra le gambe, la bloccò con le ginocchia. Dopo aver effettuato un secondo lancio, l’uomo si mise a sedere accanto al ragazzino.

- Grazie papà.

Disse Tommy fissando l’orizzonte.

- Di che cosa, campione?

- Di avermi messo al mondo.

Fu una di quelle risposte che non ci si aspetta, una di quelle affermazioni sincere, ingenue, che solo un bambino di cinque anni può fare. Il padre si voltò verso il piccolo e per un attimo non riuscì a dire nulla. Quando fu nuovamente in grado di parlare, disse:

- Grazie a te, tesoro mio.

- Papà tu sei felice?

- Perché me lo chiedi?

- I tuoi occhi…- Il bambino si fece coraggio e continuò -  sembrano tristi, sembri sempre serio, arrabbiato.

L’uomo guardò il mare davanti a sé, il rumore delle onde non era invadente come nelle ore calde, sembrava attutito dall’oscurità. La spiaggia deserta creava l’illusione di essere lì solo per loro due. L’aria profumava di mirto, di sale, di serenità. Si voltò verso il figlio:

- Sai, a volte, da adulti, le cose sono difficili.

  Il piccolo respirò profondamente:

- Ma papà, ma guarda che bel cielo! Guarda che bei colori, com’è rosso. Non puoi non essere felice.

- Vediamo se riesco a spiegarmi. Tu mi dici che il cielo è rosso intenso, bellissimo. Io so che il cielo è rosso e che tutti lo vedono rosso. Ma io, il cielo lo vedo grigio.

- Ma com’è possibile?

  Prima di rispondere pesò bene le parole. Stava entrando in un campo delicato e complesso da spiegare ad un ragazzino di quell’età.

- So che per te è difficile da capire, ma a volte, da grandi, i problemi che si affrontano, ci rendono un po’ ciechi. Allora, può capitare, che i colori perdano consistenza ed i profumi non siano più così intensi, come li senti tu ora, alla tua età.

  Il bimbo aggrottò la fronte, inarcò le sopracciglia, si morse il labbro e poi concluse:

- Allora non voglio crescere!

- Ah ah ah! Sarebbe bello poter scegliere. Un mondo di bambini… sicuramente sarebbe migliore.

- Papà, papà, c’è un pesce, c’è un pesce!

  Il papà afferrò la canna, effettivamente qualcosa picchiettava la lenza. Iniziò a riavvolgere il mulinello e, mentre raccoglieva, dava dei piccoli strattoni per assicurare l’ipotetico pesce all’amo. Tirarono fuori dall’acqua un’occhiata, non troppo grande. Il piccolo continuava ad urlare:

- Papà l’abbiamo preso, lo abbiamo preso. Un pesce!

  Il papà rideva. L’entusiasmo del figlio era contagioso. Afferrò il pesce con la mano sinistra, fissò la canna sotto l’ascella e mentre lo slamava disse al figlio:

- Vai a riempire il secchio.

Il bimbo, emozionato, prese il contenitore, inciampò e cadde sulla sabbia. Si alzò subito ed entrò in acqua per riempirlo. Il padre lo osservava intenerito da tanto entusiasmo. Tornò tutto sudato, visibilmente accaldato.

- Ecco papà, dove lo metto?

L’uomo gli fece segno e lui posò quel pesante tesoro sulla sabbia, dove aveva indicato il padre. L’adulto affondò nell’acqua la mano robusta che stringeva il pesce. Aprì la morsa e l’occhiata riprese a nuotare, nel secchio.

  Il piccolo fissò a lungo i movimenti dell’animale. Sentiva una strana sensazione, una felicità amara. Era contento di aver catturato quel pesce, ma, allo stesso tempo, si sentiva in colpa.  Quell’occhiata, che girava in tondo, con movimenti rapidi, sembrava alla ricerca di una via d’uscita. Doveva essere terribilmente spaventata. Trovarsi lì dentro e girare a vuoto, sentirsi in trappola.  Rimase a lungo seduto con le braccia intorno alle ginocchia ed il mento appoggiato sugli avanbracci. Lo sguardo perso in quel secchio.

  La voce del papà lo riportò alla realtà.

- Vieni Tommy, aiutami. Devi riprendere la tua canna.

Il bambino si andò a sedere al suo posto e chiese a bruciapelo:

- Ma papà io non ti rendo felice?

- Certo campione. Tu sei il motivo per cui mi alzo tutte le mattine.

- A me vivere piace proprio. Giocare con i miei amici, correre. Correre mi piace un sacco. Mi piace quando giochiamo a “ce l’hai”. A te piace correre?

Avrebbe voluto rispondere: “Faccio fatica, faccio fatica a fare tutto. Mi sento cementato a terra da un peso che alla tua età  non avevo coscienza di possedere. Immagino si sentano così gli obesi. Dal di fuori si percepisce la mole, mentre la persona, all’interno, scompare alla vista; sebbene esista, con tutta la sua fragilità. Per quanto la personalità si sforzi di emergere non riesce, l’esteriorità prevale sull’interiorità, prende il sopravvento e non lascia spazio ad altro. Io sento quel peso paralizzante, insormontabile, come parte di me, mi separa dal resto del mondo, non mi rende accessibile, se non in rari, rarissimi casi. Le ore passate con te rappresentano parte di quegli sporadici e preziosi momenti. Per quanto io provi a scrollarmi la pesantezza di dosso, quel fardello non mi abbandona, mi distingue da tutti gli altri. Non ne conosco l’origine, ma con gli anni diventa sempre più ingombrante, rendendomi insopportabilmente diverso. A me pare tutto terribilmente complicato. È difficile stare in mezzo alla gente, svegliarsi la mattina e dormire la notte. L’amicizia è la cosa più faticosa che io conosca, esistono convenzioni, codici che non conosco, per cui vengo quasi sempre mal interpretato, sistematicamente commetto errori macroscopici agli occhi degli altri, che neppure mi rendo conto di compiere. In gruppo vengo generalmente percepito come elitario, anticonformista o snob, in pochi si accorgono del mio terrore. Vorrei essere più semplice, capace di rapportarmi con naturalezza alle persone ed alle situazioni, invece sono pesante, aggressivo, associale. Di fatto le cose belle che fanno parte della mia vita le rovino, le allontano. Ho il terrore di guastare anche te, figlio mio, con la mia stranezza, l’euforia eccessiva, la malinconia. Confido nella tua gioia di vivere e nella mia fermezza a non arrendermi, ma solo il tempo dimostrerà se entusiasmo e determinazione saranno sufficienti a salvarti dai miei limiti.”

Invece disse:

- Si mi piace correre, mi piace tanto.

- Dovresti giocare di più. A me giocare mette di buon’umore.

Sorridendo rispose:

- Probabilmente hai ragione.

  Si ricordò di quando, giovanissimo, correva scalzo sui prati, rincorrendo i fratelli. Tempi che lui ricordava felici. Da adulto comprendeva  che quel dopoguerra, per i suoi genitori, non doveva essere stato facile, eppure ricordava quegli anni come i più sereni della sua vita. Anche lui, come il figlio, osservava l’azzurro intenso del cielo, per ore. Ripensando a quei giorni, il profumo dei mandorli in fiore lo investiva con straordinario realismo, attraversando il tempo e lo spazio, giungeva fino a quella spiaggia, al tramonto.

  Ad un certo punto qualcosa in lui si era incrinato, un cortocircuito inaspettato. I colori avevano perso intensità, i profumi vigore, le persone attrattiva. Si era chiuso in un mondo rassicurante e terribile, allo stesso tempo. La voce del figlio interruppe il flusso dei pensieri.

- Comunque, per me, sei il migliore papà del mondo.

  Quell’ometto paffuto, spettinato, disordinato, impacciato, che lo guardava dal basso verso l’alto, riusciva ad arrivare dritto al suo cuore. Si inginocchiò, guardò il bimbo teneramente negli occhi e lo abbracciò forte.

- Piano papà. Così mi fai male.

- Scusami campione.

  Per quei due occhi neri, solo per quei due occhi neri, che lo guardavano con infinita ammirazione, lottava e avrebbe lottato, un passo alla volta, un giorno alla volta. E, con un po’ di fortuna, forse, non avrebbe inferto troppe cicatrici all’equilibrio di quel piccolo che, un domani, sarebbe probabilmente diventato un uomo felice.

  C’era una volta un bambino e c’è oggi un uomo. Il suo nome è Ing. Tommaso C. E’ cresciuto all’ombra di un bipolarismo ingombrante che ha reso la sua vita straordinaria. Ha vissuto l’abisso, la tenebra, l’oscurità che avvolge la mente umana, isolandola dagli affetti. Ha imparato tutte le cromie dell’arcobaleno, per affermare le sue ragioni contro lo sguardo offuscato di chi vedeva il cielo in varie tonalità di grigio. Ha sperimentato, fin da giovanissimo,  il filtro che la mente impone alla realtà e si è metodicamente impegnato a domare ansie e paure, attraversando momenti di vera, effettiva, concreta felicità. Ha vissuto esperienze fuori dal comune e imparato ad osservare il mondo da una prospettiva inusuale. Ha imparato ad assaporare la gioia, gustarla fino all’estrema essenza, succhiarne tutta la dolcezza, fino all’amaro. Ha scoperto che, chi crede di poter conquistare la luna, arriva ad accarezzarla. E’ stata un’altalena emotiva, un viaggio difficile, faticoso, meraviglioso, unico.

  Oggi quel bambino è diventato un papà felice che fa i conti con un’ingombrante eredità e quando pensa: - “Faccio fatica, faccio fatica a fare tutto” - osserva gli occhi azzurri della figlia, ripensa al suo eroe e si fa coraggio: “Un giorno alla volta, un passo alla volta.

 


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