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FIFTY-FIFTY. Sant’Aram nel Regno di Marte

di Ezio Sinigaglia 

Proposta di Redazione LaRecherche.it

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Pubblicato il 27/03/2022 09:00:00

 

Proponiamo in lettura un estratto dal libro

FIFTY-FIFTY. Sant’Aram nel Regno di Marte

di Ezio Sinigaglia, TerraRossa Edizioni

 

 

Fair Play

 

Fair Play, che bel soprannome ti ho servito! Uno dei più graziosi della mia carriera di Sant’Aram Battista. Proprio bello. Ah, sì: ne sono fiero. Fair Play, già Edison per quei denti quadrati che, nelle oscurità totali del novilunio, luccicavan qua e là per l’accampamento come lampadine. Si sapeva sempre dove fosse, in quelle notti, dove volteggiasse il pericolo, dove eventualmente si preparasse a esplodere la zuffa. Lo tenevo d’occhio, quando la bellezza del suo sorriso lo tradiva. A bocca chiusa, nella notte, era invisibile. Nero su nero, ombra contro ombra. Una scimmia, Fair Play. Agile e selvaggio. Scuro di pelo, intrattabile di pelle. Primordiale e irascibile. Permaloso e gutturale. Inquietante di sensualità animale. Ladro e attaccabrighe. Di notte rubava con destrezza dalle tende, nel breve iato fra il crepuscolo estivo e la tromba straziante del silenzio. Di giorno difendeva la refurtiva a sorriso spianato e a pugni chiusi. Rubava preferibilmente a sottufficiali ed ufficiali, sia per convenienza di bottino sia soprattutto per inclinazione innata all’equità. A me rubò il portafoglio, nel quale tenevo pochi spiccioli, equivalenti comunque a tre delle sue decadi. Il fatto che quella cifra rappresentasse per lui quasi dieci volte quel ch’era per me è una prova lampante della ragionevolezza dei suoi furti. Che fosse stato lui era più sicuro di quanto fosse sicuro che, quella stessa notte, a gocciolarmi sul naso era la pioggia. Così il mattino seguente gli portai il caffè. Anche al campo me l’ero assicurato. Non ci voleva molto. C’era un’immensa tenda di stoviglie, vettovaglie e cucinieri. Facevo bollire quattro dita d’acqua piovana e ci scioglievo due cucchiaini di caffè liofilizzato. Per riuscirci, è ovvio, bisognava avere con sé il caffè liofilizzato. Nient’altro. All’acqua provvedeva ogni notte Giove Pluvio. Il mio caffè anticipava ogni mattina di mezzora l’orrenda sbobba della casa. Quindi, benché liofilizzato, era ambitissimo. Ogni mattina l’offrivo a un eletto dal capriccio. Ogni mattina trovavo un sorriso per il mio buongiorno. Piaceri minuscoli e sublimi. Un sorriso di Edison non era una cosa che si dimenticasse tanto facilmente. Ci si poteva far la barba, la mattina, nei trentadue specchietti dei suoi denti, se si aveva l’accortezza di mettere le guance in pieno sole. Il caffè gli piaceva: era un uomo del Sud. Lo feci forte e gli allungai una bustina di zucchero, addolcendo così ulteriormente il suo temperamento aspro e scontroso. Si spinse a chiedermi come stavo. Durmitu beni, tenenti? Sì, quasi tre ore filate, non c’è male. Bedda jurnata, eh, tenenti? Mica tanto, per me, caro Edison: chissà dove ho la testa: ho buttato per aria la tenda senza riuscire a trovare quello che cercavo: i miei documenti: patente, carta d’identità, tesserino militare: non riesco a ricordarmi dove diavolo li ho cacciati: così mi sento un po’ sperduto, senza nemmeno un nome e un indirizzo: la giornata, però, è proprio bella: su questo devo darti ragione: me la gusterò nel più totale anonimato. Detto questo ci salutammo, perché non c’era ragione di parlar più a lungo. Il caffè bevuto. Edison essenziale nella verbalizzazione. Io interessato a risciacquar le tazze prima che lo zucchero vi s’incrostasse rendendo l’operazione fastidiosa. A sera, a colpo sicuro, andai al lettino da campo e, sotto il cuscino, trovai il mio portafoglio. La cosa in sé non mi sorprese affatto. Mi sorprese però che vi frusciassero, nell’apposito scomparto, le intatte banconote. Così lo battezzai Fair Play e, la mattina seguente, gli offrii il caffè di nuovo. Non era tipo da restare insensibile a un privilegio del genere: due caffè consecutivi.

Qualche notte più tardi, sventuratamente, Fair Play rubò un orrendo accendino rivestito di scaglie di tartaruga bionda al sottotenente Senzarrosto. Quest’ultimo, nomen omen, fumava in modo scriteriato, addirittura più di me, ma tutto quel fumare non dava alcun sapore alla sua carne, né alla sua esistenza. Lo udimmo urlare oscenità blasfeme già sull’ultimo squillo della sveglia. Fui tra i primi ad accorrere e, appresa la funesta notizia, gli tesi i miei fiammiferi. Mi sembrava un gesto non solo di solidarietà, ma anche di sovrabbondante risarcimento. Erano minerva, piatti, elegantissimi, il corpo rosso e la testolina gialla. Li giudicavo, uno per uno, assai più intelligenti dello stesso Senzarrosto, per non dire del suo disgustoso meccanismo d’accensione, ch’era costato la vita a un essere innocente. Lui ci si accese tosto la sigaretta, con un mio minerva, ma continuò ugualmente a scagliare minacce e contumelie all’indirizzo dell’invisibile Fair Play. Gli suggerii di seguire la mia tattica, che mi aveva consentito di salvare insperatamente capra e cavoli. Senzarrosto non riusciva a capire come la mia idea si potesse applicare al suo prezioso oggetto d’arte. Nel mio caso c’era la scusa dei documenti: ma nel suo? Glielo spiegai. Dammi retta, Senzarrosto: ti preparo due caffè belli forti: tu vai là, gli offri il caffè e, quando Fair Play ti chiede come stai, gli racconti tutta la tua disperazione: la tua tartarughina amatissima, che vive con te more uxorio fin dalla tua infanzia e che ti segue anche nei pagliericci di fortuna, si è perduta: non puoi dartene pace: è la giornata più funesta della tua esistenza: questa sera ritrovi la tartarughina fra le coltri: dammi retta, il ragazzo ha del fair play. La sua ottusa risposta fu: Vaffanculo, Aram, vaffanculo e vaffanculo, sei veramente uno stronzo figlio di puttana: vaffanculo: se osi ancora una volta chiamarmi Senzarrosto in presenza della truppa, se osi, se osi, Aram, se osi, bada bene, m’incazzo per davvero! Così, ottusamente, andò da Fair Play. Proprio in quello stato di sovreccitazione e di tendenza al turpiloquio che attenuava l’efficienza secretiva delle ghiandole della sua vigliaccheria congenita. Trascese, com’era prevedibile. Dalle indiscrezioni di alcuni fidati testimoni stabilii con certezza che era stato abbastanza idiota da mollare un ceffone sulla guancia di Fair Play. Il clamore, subito allarmante, mi sorprese mentre lavavo le tazzine. Mi precipitai sul posto. Un nugolo di folla seminuda, urlante. Guance bianche di sapone da barba. Guance bianche di terrore. Grida di aiuto. Invocazioni supplichevoli. Polvere. Ondeggiamenti scomposti del cerchio degli astanti. Al centro della ronda Fair Play incalzava un Senzarrosto verde, tremolante, balbettante minacce disarticolate. Quando vidi il coltello, mi prese un batticuore da restarci secco. La lama lampeggiava nel sole più ferocemente del ghigno selvaggio di Fair Play. Vicinissima alla carotide di Senzarrosto. Tendenzialmente sempre più vicina. Fair Play, che aveva indosso le sole mutande d’ordinanza, non mi era apparso mai così scimmiesco e spaventevole. Aveva peli neri dappertutto, comprese le scapole, le reni. La folla seminuda indietreggiava, con mia schietta invidia. Di colleghi e subcolleghi, nei dintorni, nemmeno l’ombra od il progetto. L’imprevisto doveva averli colti tutti alle latrine. Mi risultò subito evidente la necessità di ricompensare la patria, in un’unica e forse fatale soluzione, di tutti i privilegi del mio grado. La paura, come sovente fa, mi venne in aiuto. Mi strozzava la gola in modo tale da suggerirmi di parlare pochissimo, e senza alzar la voce. Sussurrai: Fair Play, dammi il coltello. E tesi la mano. Stetti là, tutto irrigidito per sembrar saldo, almeno sei secondi. Probabilmente, in quel pandemonio assordante di urla e trepestii, il mio mormorio scivolò nell’orecchio destro di Fair Play come qualcosa di irreale. Mi buttò negli occhi la coda dei suoi occhi fiammeggianti, il che offrì a Senzarrosto l’opportunità di levarsi di mezzo e di lasciarmi, per dir così, il mio minerva acceso in mano. Mi compiacqui di aver vuotato la vescica da non più di otto minuti. Chi minchia chiamò a ttia, tenentiddu? Il diminutivo mi parve incoraggiante. Così incoraggiante che il lampeggiare del coltello a un palmo dai miei occhi si trasformò in un fenomeno ottico piacevole. La paura si dimezzò di botto. Tenni il braccio teso. Su, Fair Play: non c’è bisogno di chiamarli, i tenentini. L’oscurità della risposta lo persuase della mia determinazione a confondergli le idee. O forse, invece, gli apparve prodigiosamente chiaro che il mio intervento era stato organizzato dall’intero Olimpo per la sua salvezza. Fatto sta che mi tese il coltello, con notevole fair play, dalla parte del manico. Chiudilo, per favore: non penserai ch’io sappia maneggiare questa roba? Lo richiuse. In seguito dovetti anche esercitare una certa garbata pressione su Senzarrosto perché allontanasse dal vestibolo del suo cervello la corte marziale che vi aveva già riunita. Il coltello adesso ce l’ho io: ti avverto, Senzarrosto, è affilatissimo: se lo denunci, addio metafora: sarai Senzacoglioni in senso proprio.

 

 


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