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Risorgivio 2002

di Gennaro Vernice
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Pubblicato il 05/09/2011 08:57:50

Siamo nei pressi della Diga del Basentello, a circa 24 ore dalla “merendina che accarezzo”.

Sulla Murgia addomesticata, dopo esserci allontanati per una manciata di chilometri da Poggiorsini…toh, guardatelo: un lago nel silenzio, a primavera.

Tutt’attorno, il grano verde crea campi a cent’altezze, animati a intermittenza dato l’infrangersi della divina alitosi. Ossigeno, se lo gradite, che frastaglia le innumerevoli punte, tra un abisso e l’altro, colmo di fertile luce solare.

-Che vertigini!

Siamo su tre auto diverse, tutte da rottamare. Io sono sull’ultima e siedo sul lato anteriore di un posto a sedere, ricoperto sicuramente da moccoli, visto che alla guida, c’è una vecchia conoscenza.

Ondate che intiepidiscono i miei pensieri mentre ammiro, l’umido celestiale, traboccare sugli occhiali che indosso.

Si arrestino i motori e si aprano i sipari su questo pic-nic di Pasquetta, là dove incontro i tuoi occhi, cara Cri; intenti ad accudire le nostre spiaggiate salsicce di cavallo.

Li osservo e li fisso e poi, finalmente, mi concedi un secondo. C’è qualcosa in essi…tra il marrone e il muschio. La vedo mimetizzarsi tra le stoppe e allontanarsi, rifugiandosi nel buio di questa sinistra pupilla selvatica.

Rieccotela sbocciata dall’altro lato.

-Fammi entrare, è una grande idea che grugnisce a squarciagola!

-Ma sei fuori?

-Non ancora per molto.

-E io? Che ci rimango a fare qui, sola soletta, con questo branco di lupi affamati?

-Non aver timori, farò in un batter d’occhio e sarà solletico!

-Porco!

Così comincia l’arrampicata. Dai suoi stivaletti, ripieni di melma, fin sopra le sue labbra. A carponi, vinco anche il suo naso dove concedo al mio essere, cinque decimi di Yoga.

-Ed eccomi, dinnanzi al tuo infinito, mio amore; se hai la pazienza di udirmi, io ti dico che tra non più di sette minuti, staremo a far baldoria mangiando selvaggina. Ti va?

-E il vino?

-Il vino è a sacco. Chiederemo al giorno (Dì).

 

 

*

 

 

Stoppe ruotano lascive, rimpinzate da ignude correnti infreddolite, su un muschiato e serpeggiante sentiero discendente. Esso è illuminato, fin dove scorgo quei primi ramoscelli[1], da una luce che guizza a colpi di palpebra.

Mulina spirante, fluendo dalla mia vista, dato l’umido, verso le distese inaccessibili di macchia bruciata, sul fuoco delle tue pupille.

 

A sera, due astri solari, scaldano la mia notte. Lassù. Pazzi come la mia paura del fogliame che scodinzola, del profumo d’ombre e delle moltiplicazioni d’orma, che rivelano la reale presenza dell’arcigno selvatico. Pastulante nel forteto, sui miei passi da compire.

-Quasi quasi mi arresto, per non destare alcun sospetto. Ma lo devo catturare!…e con che cosa?

-(Semplice. Hai notato quei pensieri né in cielo e né in terra, che trascorrono, scivolando attorno alla sfera del tuo proponimento?)

-Ne visualizzo i lampi, ma nulla che sgoccioli in me come colore e mi sorvolano diretti verso il buio del confine!

-(Albeggerà e ti ritroverai faccia a faccia, col cinghiale a pancia all’aria. Non temere).

-Sarà, ma i pensieri del mio “germoglio”, son personali e continuano ad attraversarmi estranei!

 

 

*

 

 

Piove ed è notte, sul fogliame decaduto. Fradicio di te mia dolce Christin. Odori intimi che preludono alla Donna: il fulcro, di questo incantevole sottobosco appisolato. Del verro smaliziato ho perso le tracce, tralasciando ingenuamente il fiuto del vento. Certo, la bagarre della cacciata si fa col naso e non con gli occhi, ma la pioggia bracca me che poso la stanchezza, sulle braccia di radici affioranti.

 

Al mattino, imbalsamato dal freddo e controvento, ritrovo l’incantesimo nel regno impenetrabile di arbusti e rovi. La luce, avventurata, mi lascia comprendere di essere appollaiato nel ruvido abbraccio di ginepri e spinosi cespi di ginestra. I merli e i pettirossi, sembrano preferirmi; canticchiando e rendendo il mio risveglio, colmo di musica e sensazioni.

Si fa concreta la retta via solo quando, dietro i tronchi, immagino baritono l’elemento.

Puzzolente e fulminato mi rialzo. L’ora, sembra essere quella giusta. Spero solo che la preda, abbia in bianco solo il suo recente passato[2].

 

 

*

 

 

Scappo e salto, affannato ma convinto di potergli tirare le orecchie e possederlo, solo con la forza delle braccia.

Zig zag e poso, le mie prossime orme, in punta di piedi.

-Schh, silenzio!

Immobile astuto, stipato sull’argine di una proda, ronfa e scorreggia invisibile, dietro un cespo di stipa.

 

Eccomi di sorpresa su di lui che si inalbera!

-Lo tengo, lo tengo!

Ci dimeniamo, rotolando come due giovani innamorati. Poi gli sferro un cazzotto, due ceffoni e mi sale in grembo; grugnendo e slinguacciandomi come se fossi io, la sua sposa (sbadiglio).

 

Appesantito da 200 Kg. di zavorra, inizio l’ascesa fin sui punti di partenza e poi fuoriesco soddisfatto di me.

 

 

*

 

 

Eccovi, cari amici, quello che io credo possa digerire solo oggi: un forte odore di selvatico, tra le lenzuola di Pasqua.

-Guarda laggiù! Il cavallo ricoperto dalle sue salsiccette, che se la squaglia!

E guardate, miei illustrissimi, i vostri occhi! Come son buffi di fronte al sorriso della mia pazzia!

-…Krisst, smettila di accarezzare la tua folta e balbuziente farfallina!

-E perché?

-Vedo che…deve ancora bisbigliarmi qualcosa, lo sento!

 

 

 

 

 

 

 

 

 



[1] Le tue ciglia.

[2] Sia in carne; bella trippacchiuta.



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