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L’isola che non c’era

Romanzo

Leonardo Bonetti
Il ramo e la foglia edizioni

Recensione di Mattia Rosenberg
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Pubblicato il 09/04/2021 12:00:00

 

Ogni giorno trascorreva e si ripresentava a me stesso, che trascorrevo mutandomi da un posto all’altro: il giorno ed io avevamo gli stessi compiti e gli stessi problemi. Ero affiatato con ogni cosa che capitava intorno a me, che fosse pure un albero che si piegava o la figura orribile di una nuvola che agiva sopra le colline. (“La macchina mondiale”, P. Volponi)

 

 

Sarebbe veramente bello e affascinante raccontare di questa misteriosa isola, emersa dalle acque tra la Sicilia, Malta e Lampedusa, passeggiandoci sopra. Si potrebbero anche intessere paralleli tra questa e quella di Robinson, o di Arturo, creando un arcipelago letterario fatto di sorti comuni, dissidi da cui fuggire e territori su cui essere i primi a posare lo sguardo. Inoltre, chi ha suppergiù la mia età ricorderà un vecchio telefilm, L’isola delle cavallette, ed è proprio quest’ultimo a rivelarmi l’arcano bonettiano. L’isola delle cavallette è, nella mia memoria, ridotto a qualche manciata di suoni e immagini, la trama si è persa, o forse non c’è mai stata, non ricordo esattamente. Però resta come luogo in cui c’è parte della mia infanzia, è una traccia di quel che sono stato, c’è un me nell’atto di guardare quell’isola, immaginandomela. Da qui mi sono detto: L’isola che non c’era, forte della negazione del titolo, non c’è proprio, è solo un luogo che l’infanzia ci riconsegna dai flutti dei ricordi. A suffragio di questo pensiero c’è il nome del protagonista: Leo, dietro al quale non è difficile scorgere l’autore medesimo che si chiama infatti Leonardo. Le sillabe mancanti tra il nome del protagonista e quello dell’autore rappresentano l’incompletezza, il cammino che Leo deve ancora percorrere per avvicinarsi a essere un uomo maturo e completo quale l’autore è. E in particolare, ritengo che in questa differenza risieda proprio la scrittura, intesa come dono o attività. Attraverso la scrittura, l’esercizio dell’arte romanzesca, Leo può acquisire una vista privilegiata su ciò che lo circonda e un modo di vedere, con i sentimenti e la fantasia, in grado di allontanarsi dalla realtà conosciuta, la quale resta come un miraggio tremolante all’orizzonte dell’isola mentre questa si popola del reale, cioè della realtà quando viene agita e non solo pensata.

A mio avviso L’isola che non c’era non è un romanzo isolano, non è ambientato nel Mediterraneo, insomma quella Laga è come la mia isola delle cavallette, semplice custode dei ricordi, ma intangibile. L’isola che non c’era è infatti, a tutti gli effetti, un romanzo mitteleuropeo, di terre lontane dal mare, che del mare hanno una visione, una fantasia, un rifugio segreto. Il luogo dove sorge l’isola potrebbe essere più o meno sulle rive dell’Inn, o ai confini tra Austria, e Svizzera, in una vallata che si allunga fino al villaggio di Traich, o un colle che sovrasta Attnang Puchheim, dove non è difficile incontrare Wertheimer, il famoso soccombente narrato da Bernhard.

Così, dopo le delusioni, ma soprattutto dopo la lacerazione del legame più profondo, Leo si imbarca sul peschereccio proprio come il piccolo Austerlitz, narrato da Sebald, viene messo sul treno che lo porterà via da una lacerazione profonda. Il distacco di Leo lo porterà sull’isola così come Austerlitz, dopo varie vicissitudini, approderà a Londra, in una villa circondata da un giardino e affacciata sul mare, che potrebbe benissimo essere la leonardiana casa dei Poyka con il loro orto. Le conseguenze che Austerlitz vivrà da quel distacco lo porteranno poi ad avere un rapporto singolare con alcuni edifici in cui passano numerose persone, edifici in qualche modo capaci di restituire una sorta di tessuto sociale, ancorché momentaneo e instabile. Tali luoghi, non comuni, o “sociali”, sull’isola di Bonetti, esente da ospedali e tribunali, non ci sono ma si incarnano ad esempio nel Necrolario. Dunque l’isola, come l’Europa centrale dopo la distruzione e lo sconquasso, si illude di vivere una nuova condizione pacificata, ovvero di illusoria pace. Ma c’è un elemento che si insinua, questa pace è resa instabile dal fatto di essere basata su qualcosa che si è dimenticato, il libro, la cui sparizione dà vita all’isola, potrebbe essere la memoria storica di fatti che hanno dato vita alla nostra società ma che la rendono contemporaneamente rocciosa ed effimera.

C’è un quadro di Max Beckmann, Prima del ballo in maschera, del 1922, in cui sono raffigurati dei personaggi in attesa in una stanza. Il quadro fa parte della corrente pittorica detta “Nuova oggettività” che si distanziava dalle correnti e dagli influssi modernisti e astratti per recuperare tratti più classici. Una sorta di recupero di stili precedenti l’irruzione del cubismo, ormai divenuto troppo alla moda e quindi considerato lontano dalla gente e dalle idee rivoluzionarie dell’epoca. Quindi, questo stile e il quadro in oggetto sono caratterizzati da una maggiore attenzione alla figura umana e con tratti che, escludendo gli stili più recenti, si rifanno a forme più “classiche”, una maggior riconoscibilità del soggetto, sebbene contraddistinto da una grande potenza descrittiva ed evocativa. Come non sovrapporre questo stile alle parole di Bonetti, così attuali ma nutrite dalla letteratura forte del Novecento, evitando stili alla moda o attuali ma effimeri. La potenza evocativa è quella delle parole dense e terrene di Buzzati e di Gadda, hanno la levità dell’immaginazione della Ortese, sono leggerissime ma si rinforzano nella cadenza, come accade in Bernhard. E, dunque, quando Leo passa la sua prima serata conviviale sull’isola, incontra alcuni personaggi che vi abitano, apprende gli usi del luogo, la scena raffigurata nel quadro di Beckmann prende vita. I volti sono descritti con pennellate forti, precise ma simboliche, cariche di una conoscenza che viene da basi solide e non si lascia liquefare dai vezzi della moda. Nel quadro, e nella scena narrata, vi è l’attesa di qualcosa di sereno, forse di utopico, una festa in maschera, o l’indomani vissuto nell’isola da cui dolore e ingiustizia sono banditi, una sorta di realtà mascherata, anche se, come si sa, l’effetto principale di una maschera è quello di essere rivelatore. Ma osservando più attentamente dietro l’attesa dell’immediato, che potrebbe anche essere felice, s’intravede una catastrofe, una tragedia annunciata o presentita, per esempio la tela di Beckmann trasuda la paura per quanto stava iniziando ad accadere in Germania.

E questa sensazione di pericolo imminente, la festa, il bere e il gioire, insieme, fanno presagire un destino alla Katharina Blum in cui tutto si ritorce contro la protagonista.

La narrazione prosegue e si giunge di fronte a un pozzo, in cui bisogna discendere per vedere una collezione di farfalle. Ovvero, malgrado l’isola si erga sulla linea delle acque c’è bisogno di scendere, di toccare il punto che, prima dell’emersione, segnava il suo limite. Il ricordo del luogo da cui si proviene e verso cui si rischia di tornare. Ma è anche il primo segnale chiaro dell’aspetto occulto dell’isola, la dimensione buia e sotterranea, la discesa nel pozzo – che è anche simbolo alchemico – per vedere una collezione, sostanzialmente di cadaveri. Esseri appartenenti alla dimensione aerea della luce e dei colori sono conservati in teche appannate, la memoria conserva ma sbiadisce; da qui Leo deve fuggire, dal sapere del dottor timido, dalle sue collezioni che mascherano, con un esile diaframma, il vuoto che sembra dilagare malgrado l’isola sia piena di vita.

C’è nel romanzo un afflato ortesiano, in cui l’autore rivela una delle sue radici sottolineando la vocazione a quel realismo magico che ci fa subito pensare alle generazioni perdute di Bontempelli, al vuoto che si spalanca quando i passi sono appesantiti dal ricordo e il futuro rappresenta qualcosa di pauroso. Ed è nel tocco di Bonetti sulle cose semplici che si rivela il suo realismo magico, ogni oggetto, pietra, albero sull’isola, toccato dalla voce narrante, descritto dalla minuziosità linguistica dell’autore diventa magico sotto gli occhi del lettore, sembra spogliarsi del suo aspetto terreno e ammantarsi di significati, assumendo così un aspetto imprevisto e del tutto nuovo, in bilico tra il conosciuto e il possibile. E fin qui dardeggia il quadro di Beckmann ma una passerella che cade rompe l’incantesimo, è tempo di futuro, bisogna muoversi. Inizia il viaggio di Leo alla scoperta del segreto dell’isola, attraverso alberi e cime il protagonista cerca la sua Wolfsegg, vuole dare un senso al dolore del passato annodandolo al futuro.

Musil ci fornisce una efficace descrizione per gli abitanti nel momento in cui Leo decide di abbandonare il villaggio che l’aveva accolto. Era forse il loro destino che ai loro occhi quella vita estatica, il cui specchio appare incrinato sotto la vita ordinaria – pur tenendosene lontani – e se cercavano il simbolo grossolano della cancellata (sull’isola la cancellata è un muro che separa due giardini ormai abbandonati) lo facevano col desiderio di mettersi ancora una volta alla prova… (da “L’uomo senza qualità”, di R. Musil). “L’uomo senza qualità” ci ricorda l’appartenenza geografica del romanzo, come detto, e mi aiuta a introdurre l’elemento che contraddistingue Leo e che pare essere assente negli isolani: il desiderio. Leo desidera: sapere, muoversi, scoprire, mentre agli altri, tranne forse a due, il desiderio è sconosciuto, o rimane inespresso. Questo è quello che muove i passi di Leo, ma soprattutto lo rende umano, degno di svelare i segreti della vita (la Casa delle Gravide) e della morte (il Necrolario), confini emblematici, tracciati i quali Leo può evincere le coordinate della misteriosa casamatta, luogo ignoto o dimenticato, metaforico e simbolico ma totalmente estraneo, non uguale, dissimile a qualunque altro posto presente. Ed essendo l’isola diversa da qualunque altra terra, ecco che la casamatta si trasforma nel punto debole: anch’essa ha qualcosa che la accomuna a ogni altro luogo, ovvero la sua condanna. Come dice Musil Di metafora si dice anche che è un’immagine. E anche di un’immagine si potrebbe sempre dire che è una metafora, ma nessuna delle due è un’uguaglianza. E appunto perché appartiene a un mondo regolato non dall’uguaglianza ma dalla similitudine, si può spiegare la grande forza di sostituzione, l’effetto imponente di imitazioni oscure e poco somiglianti… (da “L’uomo senza qualità”, di R. Musil). Dunque l’isola si rivela per quello che è: un salone il giorno dopo un grande ballo in maschera, metafora, neanche troppo velata, che descrive il cuore dell’Europa in due momenti, al termine della Seconda guerra mondiale, oppure lo stesso luogo ai giorni nostri, un continente che, dopo l’ubriacatura di fine Novecento, si ritrova a fare i conti con un presente contraddittorio e capace di fare affondare tutti tra i flutti irati della Storia.

L’isola che non c’era rappresenta efficacemente il potere e il ruolo del ricordo, come sostegno dei nostri giorni e come monito a non ricadere nei conflitti e negli orrori causati da guerre, razzismo e discriminazione. Anche perché sembrerebbe che talvolta il ricordo stesso rischi di finire dietro una teca appannata sul fondo di un pozzo, anziché rifulgere e guidare. E non basta dire che le divisioni e le ingiustizie sono sparite solo perché non ci sono tribunali, ma bisogna assicurarsi che lo siano veramente, dovunque, e non coltivate per fini e interessi che spingono la società sull’orlo del baratro, o dell’inabissamento. Il nostro Leo raccoglie invece gli elementi vitali dell’isola: il ricordo e la solidità del linguaggio, la coerenza del sentire, l’ideale della costruzione in armonia con la natura. E lo possiamo immaginare, dopo decenni, passeggiare ancora sulle rive dell’isola con un sacco sulle spalle pieno di materiale raccolto negli anni e per ogni luogo del paesaggio far risorgere dal passato e proiettare verso il futuro quel che rappresenta. Sebbene Probabilmente sono ricordi sepolti, quelli che generano la strana realtà iperbolica di quanto si vede in sogno (da “Gli anelli di saturno”, di W. G. Sebald) e sicuramente ci saranno momenti in cui il nostro Leo si troverà a mormorare: C’erano attimi in cui mi sentivo in grado senza alcuno sforzo di penetrare con lo sguardo nella creazione, che altro non è se non un’immane estenuazione. «Attimi» dissi. (da “Perturbamento”, di T. Bernhard).

 


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