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Gibson

di Franco Bonvini
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Pubblicato il 23/06/2018 12:22:58

 

 

Gibson era il suo nickname.
Lo aveva scelto in memoria dei tempi andati e di quel pezzo di legno rosso che ancora conserva e lucida.
Le sue dita, una volta abbastanza agili su quella tastiera di legno, riuscivano sempre meno a seguire il pensiero perciò cominciarono a cercare su un' altra tastiera quello di cui aveva bisogno.
Che prezzo avrebbe dato ai suoi sogni?
Già.. perchè erano proprio i sogni quello di cui aveva bisogno e con le dita su quell' altra tastiera riusciva ancora a farlo.
Un biglietto per Tokio? Un click e via.
Per New york? un altro click.
Passava parecchio del suo tempo libero tra finestre aperte, applicazioni, siti strani.
All' improvviso una specie di animazione in flash sul monitor, un foglio bianco su cui scorreva una penna lasciando tracce nere e rosse, parole che aveva già sentito molto tempo prima e che forse vorrebbe ancora sentire.
Ma le lettere che componevano le parole ripresero ad animarsi e a mescolarsi fino a comporre una grande x con scritto sotto: clicca qui.
Click...
Si sentì scuotere mentre una voce gli diceva: ma come si fa ad addormentarsi sulla sedia? Dai vieni che è pronta la cena.
Lui era una persona tranquilla, sempre disponibile verso il prossimo, soprattutto con gli amici ed era molto difficile se non impossibile che qualcosa lo facesse arrabbiare.
C'erano però dei giorni nei quali era intrattabile, percepiva il mondo che gli stava intorno in un unico colore: Nero pece.
In quei momenti in cui precipiti nella delusione assoluta, é bello avere un amico vicino pronto a consolarti con una frase adeguata, e dall' altra parte di quella tastiera ce n' erano molti.
"Cavolo! ti é presa brutta, dammi retta lascia perdere, non ne vale la pena". Dopo quella frase Gibson abbassò lo sguardo e fissando la tastiera negli occhi scrisse: "Già, hai ragione devo fregarmene, non conta niente".
Era da qualche anno che Gibson affrontava in questo modo i suoi demoni, perché in fondo era di questo che si trattava: Paure.
Nel caso di Gibson, Il demone che non gli dava tregua era la paura della solitudine e del tempo.
Nei giorni in cui queste paure gli facevano visita, per allontanarle si rifugiava nei ricordi, ascoltava musica, o meglio guardava perchè erano quasi tutti dvd musicali dei suoi due figli, e sognava.
Fino al solito scossone e alla solita voce che diceva:
Dai Gib che domani devi andare a lavorare.
Uno sguardo all' orologio del pc: 02.35. Alzò il culo dalla sedia, andò a letto, si abbracciò alla moglie e riprese a sognare.
"Hey hey, my my, rock'n roll can never die".
Fuori dal nero, dentro al blu.

 

Quest' ultimo pezzetto è ispirato da una poesia in milanese: "me mader"

Gibson era ossessionato dal ricordo di quel foglio bianco su cui scorrevano parole familiari.
Aveva cercato parecchie volte di ritrovare quel sito dove aveva avuto inizio l' animazione.
Accompagnato dallo scorrere della musica girava la rete sperando di imbattersi ancora in quel foglio e magari riuscire a leggere tutto quello che c' era scritto.
Fino a quando si rese conto che forse non era arrivato dal doppino telefonico ma da un altro tipo di collegamento....una specie di sibilo mentale.
Allora chiuse gli occhi e piano il foglio cominciò a riapparire, e le scritte.... guardati c' era scritto come sei magro, mangia!, non far tardi la notte, e torna presto.
E rimproveri.
E amore.
Ma piano piano quelle scritte svanivano lasciando il foglio bianco e luminoso.
E allora cominciò a scriverci sopra.....guardami, come sono magro, non ho fame, faccio tardi la notte e dormo poco, dimmi che ho una brutta cera.
Ma le scritte svanivano lasciando il foglio bianco e allora lui ricominciava.
Ma lei non rispondeva.
E lui continuava.
E ancora continua.

Continua..


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