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Gelosia

di Giampiero Di Marco
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Pubblicato il 03/02/2012 07:56:23

Gelosia


C’erano i soliti seduti intorno al grande tavolo da gioco.
Nel salone in penombra del Circolo operaio solo una grande luce centrale illuminava violentemente i volti affilati dei giocatori ed il fumo delle sigarette, che saliva al soffitto, e le carte da gioco, disposte sul ripiano del tavolo, e i soldi delle puntate sui quali erano fissi gli sguardi dei giocatori e anche di quelli che non giocavano e si accontentavano di assistere a quello strano spettacolo del va e vieni della sorte.
Era Mimì che tirava la mano della zecchinetta ed era un piacere starlo a guardare.
Quando aveva la mano calda, nessuno era meglio di lui!
E stasera l’aveva calda davvero, le carte uscivano proprio come voleva lui.
Dapprima resistevano, ingannavano, convincevano anche i più restii a puntarci sopra e, quando sulla carta era puntato un bel malloppo, eccola uscire dal mazzo, proprio lei, tra un coro di imprecazioni e bestemmie.
Non c’era niente da fare, quando Mimì aveva il ciclo buono, questo poteva durare dei mesi interi.
Bisognava solo avere pazienza ed aspettare che passasse, perché tanto passava.
Mimì cominciava da zero, organizzando dei miseri giri di zecchinetta a cento o duecento lire a puntata con i ragazzi che facevano filone a scuola.
Li ripuliva per bene e poi passava nelle osterie ai giri di mille e duemila, poi risaliva tutta la scala dei bar e delle pizzerie giocando le cinque e le diecimila.
Infine arrivava pieno di soldi al Circolo operaio.
A quello degli impiegati, no, non lo facevano entrare, ma a questo, se aveva i soldi, poteva giocare.
E ci volevano tanti soldi per tirare la mano.
A volte sul tavolo erano puntati anche quattro o cinque milioni.
Quando gli girava bene, Mimì continuava a giocare giorno e notte, anche per settimane di seguito.
Non sapeva più dove mettere i soldi, le mazzette da centomila gli sformavano le tasche dei pantaloni e della giacca.
Non sapeva fermarsi, questo era il suo difetto.
A un tratto, e lui non sapeva neanche il momento preciso, non se ne accorgeva, la sorte cambiava e lui cominciava a perdere.
Era già successo più volte, da cinquanta milioni di vincita, aveva finito col vendersi la casa che gli aveva lasciato il padre morendo.
Ma quella sera gli andava bene.
Era brillante, aveva la battuta di spirito pronta per stimolare alla puntata i renitenti.
Sembrava un altro, persino le spalle gli si erano raddrizzate.
Sotto quella luce che gli illuminava il volto non sembrava più quella specie di uccello dalle piume arruffate, che camminava rasente ai muri senza mai alzare lo sguardo, che di solito nei momenti neri incontravi per strada.
Adesso le mani addomesticavano le carte, mischiando il mazzo con una rapidità che si poteva capire perché al Circolo impiegati era corsa la voce che sapesse sfilare la carta al momento giusto.
Attorno a lui una umanità varia e verminosa, bocche spalancate a mostrare i denti rotti e guasti del fumatore incallito, gli occhi liquidi, la bava giallastra per la nicotina a seguire le evoluzioni delle carte, mentre, dopo averle mischiare, Mimì scopriva le tre carte per la punta e quella per se.
Asso spia a Re, Donna, due in culo!
Le solite credulonità, la cabala spacciata per certezza assiomatica ed ecco spuntare qualche banconota da cento : Mimì gioca con un due, come fa a vincere, nessuno vince col due!
Operai per la maggior parte, e disoccupati che la mattina erano sul Comune a chiedere un sussidio, qualche commerciante, il pizzaiolo che veniva a giocarsi l’incasso della giornata tutte le sere, il panettiere che tirava a far l’orario per il forno, molti studenti, rari i professionisti, quelli frequentavano altri Circoli, ma qualcuno veniva all’abbraccio del popolo ruspante e preferiva la zecchinetta al più nobile baccarat.
Nella saletta antistante su un grande divano di pelle, Vincenzo era disteso con la sua enorme mole.
Lui non giocava mai.
Veniva al Circolo, perché soffriva d’insonnia.
Intanto e , solo per amicizia s’intende, faceva il cambiasoldi.
Prestava novantamila contro centomila a un mese.
Vincenzo era quasi un analfabeta, ma teneva tutti i conti a memoria.
A volte accettava in pegno qualche collanina o un braccialetto d’oro, anche cambiali, assegni ballerini, accettava tutto.
Solo dal dottore non accettava assegni, tanto quelli erano fasulli.
Ormai lo sapevano tutti ed i bei libretti colorati del Credito del Golfo erano carta straccia, però lo facevano giocare lo stesso sulla parola.
Il dottore era stato un personaggio politico e ancora credeva di esserlo, e poteva sempre venir buono avere un credito con lui e poi era una carta perdente e si poteva stare tranquilli che non avrebbe vinto mai.
Era capace di fare toppaculo anche dieci volte di fila in una stessa serata.
Infatti quando la mano toccava a lui, se per caso aveva cambiato un assegno buono, bisognava sbrigarsi a puntargli contro, prima che finissero i soldi, altrimenti non si faceva a tempo.
La gente abbandonava le altre sale del circolo, dove stava magari giocando a scopa o a guardare la televisione e veniva a puntargli contro.
Qualcuno chiamava i soci persino dalla finestra che dava sul corso cittadino.
Era una bonafficiata!
Fante, Cavallo e Re, toppaculo senza vedè!
Il dottore perdeva con classe.
La classe del giocatore si vede quando perde, vincere sanno farlo tutti.
Il gioco, questo c’è di buono, tira fuori la vera indole della gente, la carogna viene fuori ed il gentiluomo anche.
Comunque questi erano spiccioli rispetto alle centinaia di milioni perduti sui tavoli dei Casinò di tutta Europa dal dottore, al tempo che era sindaco, quando in due anni aveva concesso cinquemila licenze edilizie sul litorale.
Lui era conosciuto e riverito a Sanremo e a Venezia, dove godeva di un trattamento di favore, e dove ogni tanto ancora oggi trascinava qualche amico che voleva provare l’emozione del gioco, perdendo a spese sue e trascinando anche l’altro in perdite disastrose.
Un male lento ed inesorabile lo minava da anni e lui giocava contro la morte.
Era la vita che inseguiva tra quelle quaranta carte ed era convinto che, finché fosse riuscito a giocarsela, l’avrebbe tenuta a bada.
Al suo fianco per antico rispetto sedeva Vincenzino.
Da ragazzo aveva fatto disperare il padre, che voleva farlo studiare, ma Vincenzino testardo aveva voluto fare il mestiere del padre: il lattaio.
Fin da ragazzo era stato affascinato da questo modo di entrare nelle case della gente, di mattina presto, quando i mariti erano usciti per lavoro, e di trovare tutte queste donne ancora calde di letto, discinte, in vestaglia, scarmigliate e scalze, donne generose, come sanno esserlo solo le massaie.
Quante volte era dovuto fuggire su per i tetti, abbandonando il secchio del latte, per evitare il ritorno di mariti gelosi.
Già allora aveva preso il vizio del gioco che alimentava in tutti i modi, cercando di allungare il più possibile il latte, moltiplicandolo quasi e facendo la cresta sull’incasso.
Ma fortunato in amore, era jellato al gioco.
La sfortuna non lo abbandonò nemmeno quando, sotto i cinquanta, il sesso gli piaceva solo vederlo e non faceva più il lattaio.
Ormai il latte fresco non lo comperava più nessuno.
E gli era venuto a ciccia avere uno dei rarissimi crediti proprio con il dottore che, in cambio della cancellazione del debito, lo aveva fatto assumere come stagionale alla Forestale.
Da allora lavorava sei mesi l’anno ed aspettava l’indennità di disoccupazione gli altri sei.
Ma Vincenzino s’era giocato gli stipendi dei prossimi cinque o sei anni e le indennità di disoccupazione e s’era giocato persino i soldi che il vecchio padre si era messo da parte per il suo funerale.
Qualcuno c’era però che al gioco doveva tutto.
Tonino per esempio era uno che giocava di mestiere.
Attraverso i canali della politica era riuscito ad ottenere una pensione d’invalidità, una la percepiva sua moglie.
Ma il suo lavoro vero, per tutta la sua vita è stato il biliardo e le carte.
Adesso non ci vede più tanto bene ed il biliardo lo ha abbandonato, ma alle carte riesce ancora a guadagnare la giornata: una partita a scopa, un giro di tressette, un ramino, quando trova il tipo adatto anche un pokerino, magari con un compare.
La sera qualche puntata a zecchinetta e via a casa.
Del resto questo è il solo modo di vincere: un poco per volta senza farsi prendere dalla febbre del gioco.
E’ il metodo di Pasquale, uno che vince sempre, cento o duecentomila, ma vince sempre.
Pasquale viene al Circolo tutte le sere, come al posto di lavoro, metodico, puntuale, non beve, fuma poco, segue il gioco, non chiede la mano, aspetta a giocare il momento propizio, non si fa trascinare alla puntata.
E spizzica sempre, punta per il banco o contro indifferentemente, alla zecchinetta chiede la scafetta a chi tira la mano favorevole.
Amicone, pronto al riso, alla lode sperticata nessuno gliela rifiuta.
Col gioco si è comperata la casa nuova, la macchina, le vacanze tutti gli anni.
Il custode del Circolo dovrebbe essere l’unico altro a vincere, perché riscuote la mancia ad ogni giro ed in più c’è da pagare, dopo una certa ora, la campagna, ricordo dell’antica abitudine dei portieri dei palazzi napoletani, quando si tornava tardi la notte e si trovava il portone chiuso.
Ma tutti i custodi che si sono avvicendati nel Circolo, sono sempre finiti male perché si giocavano le mance e l’incasso della bouvette e il guadagno del Circolo e la loro paga.
Intanto al bancone della bouvette Gennaro sorseggia lentamente un liquore.
E’ un po’ nervoso, controlla l’orario, stasera Mario è in ritardo sul suo solito.
Mario è un gran lavoratore, ma la sera, se non viene al Circolo dopo cena a passare qualche ora, non è lui.
Finalmente la porta si spalanca ed entra Mario, che va difilato a sedersi al tavolo da gioco.
I due non si guardano neppure, non si salutano.
Dopo poco Gennaro saluta i presenti, recupera il cappotto ed esce.
Mario gioca, qualcuno è sempre pronto a buttar giù qualche battuta maligna sulle donne in generale.
Mario sorride amaro, risponde anche lui con una battuta.
Al Circolo si parla spesso di donne, delle donne degli altri s’intende, perché ognuno la propria se la tiene stretta e sottochiave, per portarla in giro al guinzaglio per la passeggiata per il Corso la domenica e i giorni di festa, sottobraccio con i bambini più avanti di un passo, rispondendo cento volte al saluto di altre coppie che s’incontrano salendo o scendendo.
Ma è proprio l’animale rinchiuso, quello che desidera più la libertà.
E qui libertà vuol dire in fondo soltanto prendersi qualche libertà, per vincere la noia, per reazione, per provare qualche cosa di nuovo.
Così quando Mario viene al Circolo, Gennaro da anni va a casa sua a far compagnia alla moglie.
Ormai in paese lo sanno tutti e la cosa è talmente vecchia che non fa nemmeno più notizia e scandalo.
La moglie di Mario è ancora una bella donna, ma una volta era un vero splendore, una di quelle more dalla pelle olivastra e dagli occhi profondi, una donna opulenta dagli ampi fianchi, che non avevano conosciuto la maternità, e dai seni ricolmi, che facevano impazzire Gennaro, ogni volta che la vedeva spenzolarsi dal balconcino, tra i vasi di gerani rossi, con quella sua vestaglia aderente che la fasciava tutta e che prometteva più di quanto lasciasse scorgere.
Quella di Gennaro era stata una corte lunga e per tanto tempo senza speranza.
Tutte le aveva tentate.
Sguardi intensi, cenni, ammiccamenti e poi appostamenti, incontri che sembravano casuali.
Aveva preso persino l’abitudine di andare a fare la spesa, per incontrarla tra le cataste di scatole di conserva e pile di formaggi, scambiando così qualche parola di soppiatto.
Niente, la donna era incrollabile.
Allora aveva cominciato il gioco duro.
Le aveva spiattellato come il marito la trascurasse per il gioco, e quanto perdesse, le aveva mostrato effetti cambiari e assegni del marito, che aveva provveduto a recuperare.
Non era meglio con quei soldi che le comprasse un anello, o un brillante, portarla al cinema, al passeggio la sera?
Ma niente!
Finché trovò il modo adatto, o forse la donna aveva già deciso di cedere.
In queste cose è sempre difficile stabilire qual è la verità.
Una sera tardi, mentre il marito come al solito stava al Circolo, Gennaro si nascose nel portone della donna.
Poi, quando vide che a circa cento metri, stavano avvicinandosi delle persone, uscì con fare circospetto.
Gli altri lo raggiunsero per la salita e gli diedero la voce, conoscendo la sua fama, chiedendosi tra loro chi fosse lo sfortunato becco che abitava in quel portone.
Gennaro si schermiva dicendo che era andato semplicemente a soddisfare un bisogno fisiologico urgente e basta in quel portone.
La cosa finì per quella sera.
Qualche giorno dopo, nel solito supermarket, fu avvicinato dalla donna.
Questa gli disse che una sua amica, la moglie di uno di quei passanti, le aveva detto, che aveva saputo, non si sapeva da chi, che si diceva in giro che tra loro c’era una relazione.
Quanta gente cattiva c’è in paese.
Ma ormai che la cosa era risaputa, tanto valeva che succedesse davvero.
Così cominciò la storia tra i due.
Almeno così Gennaro la raccontava.
E poiché infine quello che non si dà al marito, si dà all’amante, e le cose rubate hanno più sapore, e l’erba del vicino è sempre più verde, questa relazione divenne travolgente e con il passare degli anni, invece di finire con il termine di una sola stagione, come in genere finiscono queste storie, si irrobustì e prese corpo.
Così si andava avanti, tanto il marito è sempre l’ultimo a sapere, e c’è sempre un ultimo più ultimo degli altri.
Una sera Mario perdeva di brutto, Vincenzo il cambiasoldi se ne era andato a dormire, nessuno gli faceva credito, anzi molti gli consigliavano di smettere, ma lui era convinto di rifarsi.
Si alzò per fare una corsa a casa a prendere altri soldi.
Salì di corsa le scale, aprì la porta, in cucina la televisione era accesa, ma la moglie non c’era.
Sentiva dei rumori provenire dalla camera da letto.
Entra e trova la moglie sul proprio letto nuda e Gennaro in una posizione non proprio classica e da missionario.
Per la sorpresa non riuscì neanche a spiccicare una parola.
La donna lo investì con una bordata di contumelie: lui poteva rovinarli al gioco, e lei?
Mario si avvicinò al mobile con lo specchio, aprì un cassetto, all’angolo aveva nascosto una busta con lo stipendio che aveva ritirato proprio quella mattina, afferrò la busta e si voltò:
-Dopo ce la vediamo, ora ho da fare- disse e scappò via.
Ma, poi, seduto di nuovo al tavolo da gioco, mentre guardava le carte disposte sul piano di vetro lucido, sotto gli sguardi impietosi dei presenti, curiosi di spiarne tutte le reazioni, avendo previsto quello che poteva essere successo, pensava e ripensava.
Che fare?
Far ridere tutto il paese? Lasciarla quella troia? Ucciderla? Uccidere Gennaro? E poi? Uccidersi?
Meglio far finta di non aver visto nulla, di non sapere.
E da allora va avanti questa staffetta, anzi Gennaro ogni tanto lascia un po’ di contanti per giocare, quando le carte gli buttano male.
E poi la donna non gli fa mancare nulla, come dice sempre il dottore, le corna sono la gioia della casa, a sera trova la cena pronta quando rincasa, i vestiti stirati, e a letto, a pensarci bene è persino eccitante quello scoprire le tracce dell’altro, e in fondo sembra più matura, più disponibile, più fantasiosa.
A vederci bene, tutto è guadagno.






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