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Il realismo terminale

Saggio

Guido Oldani
Ugo Mursia Editore

Recensione di Maurizio Soldini
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Pubblicato il 16/09/2011 12:00:00

Il poeta Guido Oldani, voce tra le più autorevoli nel panorama letterario contemporaneo, nel suo libro Il realismo terminale, Mursia, 2010, affronta il problema dell’epocale trasformazione del mondo, nel quale gli oggetti materiali, le cose, prendono il sopravvento sull’uomo, sul soggetto, lo assimilano, sino ad annullarlo, tanto da far sì che «nasce un modo radicalmente diverso di interpretare il mondo e di rappresentarlo, anche artisticamente, a partire dalla poesia». Il passaggio attraverso  l’ermetismo e il surrealismo, secondo il nostro poeta, a partenza dal futurismo, conduce all’incirca a metà del Novecento, quando compare il neorealismo, che degenera nelle neoavanguardie, per le quali l’oggetto sarebbe morto, nella misura in cui i significati periscono a beneficio dell’ “involucro fonetico del significante”. Il varco al virtuale è consequenziale. In questa temperie vi è una mutazione antropologica legata all’urbanizzazione e nel terzo millennio cambia la percezione della realtà, “fatta più di oggetti che di natura”.  Siamo al realismo terminale, dove la natura imita l’oggetto e non viceversa. Gli uccelli sono copia degli aerei e non viceversa. Siamo davanti ad un vero e proprio rovesciamento estetico. E il realismo sarebbe meglio detto con oggettismo, ma la significatività è tutta riposta nell’aggettivazione terminale. Una dittatura estetica dell’oggetto si è insediata nel nostro sguardo mutato. Tutto è artificiale e questa artificialità abitata da oggetti la ritroviamo per antonomasia raccolta e osannata nel centro commerciale, che ritengo essere diventato il tempio di quello che Oldani definisce oggettismo terminale. Lì dove gli oggetti, heideggerianamente parlando, sono i prodotti della tecnica, che si continua a imporre e a cercare di sostituirsi all’uomo, scambiando i ruoli di oggetto e soggetto, lì dove la stessa tecnica sta ormai terminando di fagocitare il soggetto umano. Lì dove potremmo trovare, però, una possibile via d’uscita e una qualche verità di senso quale è riposta nell’arte e in particolare nella parola poetica, fonte di salvezza dello stesso essere, parola di cui l’uomo si deve fare pastore e curarne tutti gli aspetti a ché non sia travolto e stravolto dalla tecnica e dai suoi oggetti, proprio come oggi sta avvenendo e come denuncia lucidamente anche Oldani. Parola che oggi più che mai, così come viene veicolata nel linguaggio soprattutto virtuale e pertanto non parlato degli sms e delle e-mail, ha bisogno di essere curata. Una parola diventata muta, che non suona più, che non si muove più tra inspirium ed espirium. Una lingua fatta di parole morte, esangui, che andrebbero fatte rinascere a nuova vita. Problema estetico e nello stesso tempo etico. Che chiama alla responsabilità chiunque, ma in particolare chi scrive e chi parla soprattutto come poeta. Gli scrittori oggi sono chiamati a usare un linguaggio “leggero”.  La leggerezza non sarà anch’essa imposta dall’oggettismo che detta legge?! Un oggetto più è leggero e meno ingombrante, più è pragmaticamente efficiente. Non sarà che anche l’anoressia mentale ha a che fare con questo paradigma? E non sarà che il linguaggio e la parola si stanno prosciugando su questa falsariga? Nella valanga degli oggetti è avvenuta la frantumazione dell’io. E nel momento in cui scompare il soggetto, là dove lo stesso soggetto rischia la cosificazione (a tal proposito si pensi alle tecniche di ingegneria genetica e alle neuroscienze che parlano della coscienza come se fosse un oggetto materiale), sembrerebbe di essere davanti ad un mondo pieno, mentre invece siamo al cospetto del vuoto, davanti al nulla. L’uomo non è più soggetto, ma è il complemento oggetto, là dove soggetto è diventato l’oggetto. La poesia è sui generis in quanto sempre meno prodotto di consumo. In questa sua limitatezza c’è una possibilità di via d’uscita dall’impasse, come nel “realismo terminale ci sono alcune condizioni per il contrario”.  Nel realismo terminale, infatti, si compie il dissolvimento del soggetto nell’oggetto e gli oggetti sono divinizzati, portati ad assumere quel surplus, come voleva Spinoza, che li fa dirigere verso la soggettività. Nello scenario metropolitano del Duemila l’uomo globalizzato e cosificato è posseduto dagli oggetti e questo oggettismo è terminale non per se stesso, in quanto gli oggetti sono destinati a resuscitare come l’araba fenice e a trasformarsi nel loro succedaneo sempre più innovativo, ma terminale è riferito alla dimensione soggettiva degli uomini, che sono fatti ormai schiavi della tecnica. E il poeta in questa situazione che senso ha, che ruolo assume? Ma ancora, il poeta a quali luoghi mira? Il pericolo è l’arcadia. Un mondo che fu e che or non è più. Come possiamo meravigliarci se oggi non c’è un possibile canone? Ma poi siamo sicuri che il canone non ci sia? “Ognuno per sé, con uno “stile libero”… cerca di sostituire il canone disperso … e così praticamente chiunque può improvvisarsi e simularsi poeta…”. In effetti il canone, che può anche essere un non-canone, oggi c’è ed è proprio il realismo terminale. Oggi abbiamo davanti il totalitarismo degli oggetti “che il realismo terminale vorrebbe però smascherare”.  “Là dove c’è il pericolo, c’è anche ciò che salva”, diceva il poeta Hölderlin. E così “il futuro … potrebbe essere quello del bozzolo-farfalla, oppure … del bozzolo sarcofago”.  Il poeta potrebbe aiutare la farfalla ad uscire dal bozzolo. La roba, gli oggetti ci determinano. E nel determinarci ci annullano, attraverso le mafie, le guerre, etc. Abbiamo creduto nella libertà, abbiamo pensato e pensiamo di essere liberi (si vedano le scaturigini sulla sessualità, sulla demografia, sulla religione, sui valori, sulle scelte morali tout court etc.) senza renderci conto di come “l’oggetto determina, agendo come un boomerang, le nostre regole esistenziali”. Non solo non siamo responsabili, ma non siamo, contrariamente a quanto pensiamo, neppure liberi. Insomma il realismo terminale è un passaggio epocale col quale anche la poesia non può non fare i conti. E il canone è dettato dai dinamismi oggetto-soggetto, in cui l’uomo subisce l’imposizione e, secondo me, l’impostura dell’oggetto. E in questa impostura bisognerà lavorare di fino, con le unghie, ma se capita anche con ironia, per cercare di smascherare la trappola. Nel rovesciamento globale di oggetto-soggetto, nell’era post-human, dove non si sa più quanto ci sia rimasto dell’uomo (biologicamente parlando) e ancor più dell’umano, quanto ci sia rimasto di naturale rispetto all’artificiale, anche del paesaggio, che dire del silenzio della cultura attuale a tale proposito? E che dire della poesia, che pare faccia finta di nulla e di non accorgersi dei cambiamenti epocali intercorsi? “La poesia odierna  – conclude Oldani - … in realtà è come la vivida luce di una stella, che continua a fluire. Essa stella è morta da tempo e chi da questa luce sopravvissuta viene ancora rischiarato, … può sentirsi al sicuro e credere che la stella sia nel pieno della sua vitalità, ma tale corpo celeste, se potesse, esibirebbe il proprio certificato di avvenuta estinzione. Naturalmente tutto quanto detto può benissimo essere inteso come l’invenzione di una metodica per la produzione dell’ironia, o una sua semplice esercitazione: poco male, sarebbe come scambiare un’alba con il suo naturale sosia che è il tramonto. Anche questo può succedere, ed è sia ironico che no”.



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