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La notte bianca. Le poesie di Zivago

Poesia

Boris Pasternŕk
Biblioteca dei Leoni

Recensione di Franca Alaimo
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Pubblicato il 08/04/2016 12:00:00

 

Già nell’edizione del celebre romanzo “Il dottor Živago” di Pasternàk per la collana dedicata ai premi Nobel della Letteratura, curata dall’Utet, il prefatore Ettore Lo Gatto scriveva come la parte in versi del romanzo potesse considerarsi “come prolungamento e, più precisamente, approfondimento del monologo dell’autore, dove l’elemento autore e l’elemento Živago si fondono fino a diventare indivisibili”.

Gli fa eco Paolo Ruffilli (che ha recentemente curato le traduzioni delle poesie di Živago per la casa editrice Biblioteca dei Leoni), quando nella prefazione afferma che questi testi poetici “ripercorrono l’intera vicenda di Jurj nel romanzo, facendo da riassunto per “tappe” del percorso esistenziale e costituendo ciascuna la “stazione” e “icona” di una fase, di una meta, di una caduta, di una ripresa, di un ritorno.

Ma certamente il fil rouge più evidente fra prosa e poesia del romanzo è costituito dalla presenza costante della natura, che non ha una funzione descrittivo-ornativa, ma che, al contrario, essendo dotata di una sensibilità quasi umana, potrebbe essere letta come una sorta di “personaggio” aggiuntivo, avente una funzione assai simile a quella del coro della tragedia classica, che commenta, condivide e accentua le vicende personali e le situazioni emotive dei protagonisti.

Una così profonda attenzione da parte di Pasternàk nei confronti della natura ha catturato l’attenzione dei critici che si sono occupati della sua produzione letteraria, alcuni dei quali hanno parlato di animismo, altri di misticismo, o, addirittura, di un panteismo di impronta cristiana.

Tutti, comunque, a partire dalla poetessa Marina Cvetàeva, hanno sottolineato l’elemento “meteorologico” nella poesia di Pasternàk. Lo fa anche Ruffilli, che nella prefazione (pag.19) così scrive: “Sempre e comunque, oltre al nucleo intellettuale o al racconto in sé di ogni singola poesia, restano al lettore, altra virtù della potenza espressiva di Pasternàk, le suggestioni che si scatenano dal compiersi attraverso le parole delle variazioni metereologiche che caratterizzano e attraversano la vita nelle diverse ore e stagioni”.

Le poesie di Živago sono state tradotte per la prima volta in italiano per la Feltrinelli nel 1957 da Pietro Zveteremich; nel 1970 l’Einaudi pubblicò un’edizione speciale con una bella introduzione di Eugenio Montale (che parlò di un “personale imaginismo metaforico e musicale” di Pasternàk). Tra le successive edizioni (a parte le altre della Feltrinelli), è da ricordare quella a cura della CFR (2014) per l’efficace traduzione di Paolo Statuti. Ma la più bella traduzione resta quella che ne fece Angelo Maria Ripellino per la già ricordata pubblicazione, nel 1968, curata dall’Utet.

Adesso il poeta Paolo Ruffilli ci offre una sua traduzione dei testi poetici di Živago; e il confronto con i precedenti traduttori non delude affatto. Piace molto, infatti, l’adozione di una misura ampia del verso, che sottolinea la fluida narratività dei testi e la loro forza irruente, in stretta relazione con la prosa.

Quando è stato possibile, Ruffilli, per restituire al lettore quella musicalissima qualità del lirismo trasfigurante di Pasternàk, ha fatto ricorso alle rime, per lo più alternate e incatenate; e, quando il lavoro di trasposizione linguistica gliel’ha impedito, a consonanze ed assonanze.

Questa attenzione al tessuto sonoro della poesia fu per Pasternàk una sorta di vocazione, tant’è che egli per molti anni studiò musica, e, anche se rimase sempre un musicista dilettante, l’influenza che essa esercitò sulla sua composizione poetica fu notevole. Non a caso Angelo Maria Ripellino parla, a proposito di queste poesie di Živago, di “tessiture fonetiche”.

È probabilmente questa vocazione musicale che gli permette di sentire la natura, le sofferenze e le gioie umane, il mistero destinale di tutte le creature come un solo canto, ora triste, ora lieto, che si alza dalla terra: “Palpebre chiuse, serrate strette,/Supreme altezze del cielo. E nuvole. /Fiumi. Guadi. Acque correnti. /Anni e secoli a venire” scrive in “Fiaba” (pag. 59-63); ed è davvero significativo che questi versi siano ripetuti due volte e che comunque chiudano questa composizione, perché è nella fiaba che il tempo e lo spazio si trasfigurano, che uomini, piante e animali parlano lo stesso linguaggio, che ubbidiscono alle leggi cicliche della metamorfosi e del sacrificio.

Ruffilli, inoltre, lascia intatte metafore e metonimie così care alla poesia dell’autore, ne asseconda i dettagli visivi, la tenerezza, lo stupore, la semplicità così apparente, se non si è capaci di cogliere echi e rispondenze segrete.

Infatti, come ricorda lo stesso traduttore nel presentare la poesia di Pasternak, essa è quella “spugna” capace di restituire in tutti i suoi molteplici aspetti (esperienze, vicende, avvenimenti) e in tutte le sue infinite sfumature “la semplice complessità della vita” (pag. 21).


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