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Il film dei ricordi

di Rosa Maria Melchionda
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Pubblicato il 07/01/2012 00:39:10

                                                Il film dei ricordi

Ho tra le mani l'annuario di una scuola elementare; quella di un paese alle pendici del Gargano, a pochi chilometri dal mare, ma ad un'altitudine sufficiente per essere considerato un paese di montagna.
Un insieme di case costruite una attaccata all'altra, a formare degli isolati che si ergono ai fianchi di strade trasformate in vie ripide, in piano, a gradoni o gradini in pietra di tufo; a formare piazze e piazzette, salite e discese, con fontanelle ad ogni angolo di quartiere, con un parco cittadino, costellato di panchine, per le passeggiate serali o nei pomeriggi domenicali. Un cancello di ferro battuto lo chiudeva ad orari stabiliti, per proteggere tutta la vegetazione al suo interno, una fonte, nel paese, di naturale frescura durante le caldissime estati. Un maestoso ex convento trasformato in sede di uffici pubblici; una vecchia pesa per la raccolta di grano e pomodori; la scuola nella parte più antica del paese, mentre fuori dalle sue mura, lungo i pendii, giù giù fino al mare, la distesa dei campi per tanto tempo l'unica risorsa del luogo.

Leggo il ricordo di un ex alunno, Prefetto della Repubblica, che racconta la quotidianità, le difficoltà e le abitudini dei contadini negli anni della sua fanciullezza. E vengo catapultata in uno scorcio di vita che in qualche modo mi appartiene e che non conoscevo.
Il periodo di cui scrive l'autore è quello fascista degli anni trenta; i protagonisti sono i suoi compagni di scuola e fra questi spicca la figura di " un ragazzo di umili natali, figlio di contadini, la cui intelligenza era pari solo alla sua sconfinata povertà."
Mi colpisce il nome e comprendo che la descrizione si riferisce allo zio che non ho mai conosciuto: se l'è portato via una malattia prima che io nascessi.
La mia curiosità di sempre su tutta la storia della mia famiglia può essere appagata, così leggo con maggior interesse e piccoli tasselli, ora, completano il quadro dei miei ricordi che, come il motore di una cinepresa, rianimano cose e persone e luoghi, immutati nel tempo.
" Sono tanti i ricordi..." scrive il Prefetto e racconta di mio zio Nazario che si reca a scuola puntualissimo, ordinato e pulito anche dopo aver aiutato la sua mamma al banco delle verdure, senza scarpe, anche d'inverno; diligente ed attento, soprattutto con " libri e quaderni che gli venivano forniti generosamente dal maestro per non perdere un allievo dall' impareggiabile profitto scolastico".
" Sono tanti i ricordi..." e parla di mio nonno Saverio che lavorava come contadino a giornata e che nei giorni di festa lo incontrava "...stretto in un vestito nero, quello del lontano matrimonio".
La mia memoria lo vede passeggiare lungo il corso centrale del paese, i capelli bianchi tagliati a cresta, stretto nel vestito nero, con un panama bianco che solleva con una mano ogni volta che saluta un compare.
I suoi occhi azzurri tradiscono impercettibilmente la gioia quando all'improvviso lo assediano i nipoti, la maggioranza dei quali vive lontano e torna a trovarlo durante le ferie; poche frasi e la sua mano si insinua fra le pieghe del panciotto a cercare le monetine da consegnare ai pargoli per comperarsi un gelato. Li osserva correre felici verso il negozio, si rivolge ai compagni di passeggiata inorgoglito, mentre io, piccola fra i piccoli, mi chiedo come mai non ci regali anche un bacio, mentre gli lancio un ultimo sguardo prima di sparire dietro la vetrina.
" Era un uomo di altri tempi", mi dico, " vissuto duramente nei campi e con ferrei principi. Mostrava in un modo tutto suo l'amore per la famiglia, senza riuscire ad essere espansivo, senza increspare il rettangolo dei suoi baffetti bianchi, ben saldi sotto il naso, con un sorriso troppo gioioso".
Ricordo il rito della preghiera prima di iniziare il pasto che lui presiedeva quale capofamiglia; i suoi pisolini seduto davanti alla porta di casa con il capo sorretto dal braccio appoggiato allo schienale. Sembrava stesse lì di vedetta ad osservare il mondo che gli passava davanti e proprio in quella posizione ci ha lasciati per sempre, un giorno, senza preavviso.
Era nato nel 1899, all'inizio del nuovo secolo delle invenzioni.

" Sono tanti i ricordi..." scrive l'autore e racconta di mia nonna Rosa che nelle prime ore del giorno allestiva il banco della verdura nella piazzetta del mercato aiutata dal figlioletto Nazario... ed io non ne avevo mai saputo nulla.
Conosco poco della sua vita da ragazza, del suo matrimonio, l'arrivo dei figli e la perdita prematura di alcuni di loro, il lavoro nei campi assieme al marito, che la teneva lontana da casa  tutto il giorno, lasciando la custodia dei figli piccoli ai più grandi. L'arrivo dei nipoti.
Nessun aneddoto, nessun particolare... ma le donne non avevano cose da raccontare: nella casa natale fino al giorno del matrimonio, poi massaie e madri all'ombra del loro sposo. 
Ho in memoria l'immagine di una donna stanca, infilata nel suo abito scuro, i capelli avvolti in una treccia dietro la nuca, che si trascina fra i mobili del monolocale che è stata la sua casa. Su quella treccia, un tempo, aveva posizionato una ciambella di stoffa che le serviva per trasportare sul capo anfore con l'acqua presa alla fontana al crocevia per bere, lavarsi e cucinare; con la ciambella trasportava le ceste con la verdura per il suo banchetto alla piazzetta. Avevo visto le ciambelle appese in bella mostra ad un chiodo sul portone di legno massiccio che di notte veniva chiuso, con serratura e moschettone, gettando nel buio completo il monolocale dei nonni. Qualche volta a noi bambini veniva dato il permesso di giocare con quelle robuste ciambelle e ci sfidavamo nel riuscire a trasportare oggetti sul capo come aveva fatto per tanto tempo lei, la nonna. 
Sfiorava soltanto noi bambini; avrei voluto che si allungasse in un abbraccio, in una coccola, in un gioco per godere della nostra fanciullezza e rifarsi almeno in parte di quella dei suoi numerosi figli, già persa da secoli.
A volte mi soffermavo a guardarla e cercavo di capire quel distacco, cosa la teneva lontana chissà dove; avrei voluto afferrare il filo dei suoi pensieri che si tesseva quando con gesti lenti e meticolosi si muoveva nello stanzino dove lavava i piatti e fissava ora il rigolino d'acqua che scendeva dal rubinetto, ora lo stretto quadratino che era la finestra aperta sulla strada, ma posta troppo in alto per favorire qualsiasi visuale.

Nelle sere fredde d'inverno, seduti attorno al braciere durante le feste, al calore della cenere e con lo stordimento che provocava, mangiavamo biscotti e taralli al cioccolato, o al finocchio, fatti in casa, con qualche bicchiere di vino per gli adulti e storie e fantasie per noi piccoli; ricordo le voci con quella caratteristica musicalità dialettale che ha accompagnato la mia crescita, ricordo anche i silenzi di nonna Rosa, i silenzi di chi la vita ha toccato con amarezza.
Cercavo ovunque qualcosa che mi rivelasse particolari preziosi per la mia curiosità, ma anche le poche fotografie, antiche e grigie, non contenevano che sorrisi formali ed espressioni impostate; l'armadio di legno ad una sola anta, imponente, con lo specchio, arrotondato ad arco nella parte superiore, con intarsi di figlioline e visi d'angelo, che aprivo qualche volta con un cigolìo sinistro, non conteneva scatole di ricordi che potevano aiutarmi, ma solo abiti e cappotti immersi in un profumo di naftalina.
" Sono tanti i ricordi..-" dice l'autore. " Sono tanti i ricordi..." confermo, degli anni '70 in cui ancora nelle case dei contadini di quel paese mancava il bagno e nel cuore della notte si sentiva l'urlo di una tromba che avvertiva del passaggio dell'uomo con la " botte" addetto allo smaltimento dei contenitori che fungevano da gabinetto durante il giorno.
Mi svegliava sempre; il suono cupo era tetro, immancabilmente mi tiravo fin sulla fronte lenzuola e coperte, vedevo ombre minacciose stagliarsi sulle pareti illuminate dalla luna che si infilava nel finestrotto quasi a ridosso del soffitto; ma poi sentivo il respiro dei miei fratelli e dei cugini addormentati vicino a me e tutto passava. Il sonno tornava.
Era bello arrivare dopo un lungo viaggio, lasciare le valigie nella stanza destinata ai genitori e correre in quella che avremmo condiviso con i cugini, aprire il mobile che nascondeva un lettone, tirare fin sul pavimento il portellone, sistemare il materasso rattrappito per il disuso sulla rete e tuffarcisi sopra con i cugini ritrovati, decidendo che avrebbe dormito a fianco di chi. Uno, o più, mobile-letto di quel tipo era presente in ogni casa, era comodissimo in quegli  anni di forte emigrazione in Germania e Svizzera o nel nord della nostra Italia, per gli affollati ritorni al paese durante le vacanze: dopo ore ed ore stipati negli affollati vagoni ferroviari o intasati nel traffico delle autostrade, garantiva un posto letto, a casa dei genitori o parenti, agli emigranti che tornavano per un po'. Era il simbolo del ritrovarsi, come lo era il più moderno divano-letto, sempre pronto all'occorrenza...
Oggi non esistono più né l'uno né l'altro nelle nostre abitazioni, luoghi spesso molto piccoli, non adatti alle riunioni di famiglia di un tempo. Le cose cambiano, le situazioni cambiano, la vita cambia. Qualcosa si perde, qualcosa si modifica, molto si evolve, ma abbiamo la pellicola dei ricordi che, riavvolta, conserva per sempre il mondo che è stato. 
Quando il cuore ha bisogno di immergersi nelle emozioni che contano, apre la scatola ed avvia il motore d'altri tempi...    


                                                                                                  (2011)     



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