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L’Elvira

di Mara Limonta
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Pubblicato il 13/12/2016 17:55:33

(mio racconto , nono classificato nel concorso 'Una foto una storia' , dell' Associazione Fahrenheit di Vimercate, presto in ebook)

 

Quando sono nata io, Augusto, mio nonno, è arrivato all'ospedale per vedermi, di corsa, letteralmente, in bicicletta. Non aveva la patente, inforcava la bici e via, per le strade della Milano di allora, affollata di tram ma poche macchine in giro, tutte Fiat 500 e pochi soldi, quasi come ora...
Anni '70, aria di libertà, di lotte politiche e di voglia di fare, per Augusto di lavorare. Era un uomo semplice e lo studio proprio non era adatto a lui, soltanto le elementari e faticare, tanto, e mai un lamento.
'Rosso' convinto, giovanissimo aveva fatto la guerra, era stato preso prigioniero in Germania, era fuggito e ritornato a casa magro da far pietà ma vivo. Aveva fatto mille duri mestieri, avanti e indietro con la sua fidata bicicletta, comprata per quattro soldi alla Fiera di Senigallia, sulle ripe della Darsena, lo storico mercato delle pulci milanese, per la gente che aveva necessità di comprare qualcosa con le cinque lire che c'erano, e contate.
Si vendeva di seconda mano un po' tutto, dalle scarpe ai vestiti, bijoux appariscenti, riviste e libri d'epoca, ma Augusto, uomo pratico, aveva bisogno di spostarsi velocemente, e soprattutto senza pagare. Una volta sui tram c'erano fior di bigliettai all'ingresso per staccare e timbrare il dovuto, poi sostituiti da una fredda macchinetta obliteratrice per contenere i costi. Sono spariti i bigliettai e la poesia, ma gli impiegati erano innamorati del proprio lavoro, guai a sgarrare e non pagare!
Così mio nonno puntò deciso al bancone di bici usate, ne scelse una, con telaio e ruote nero fumo, con raggi d'argento e una comoda sella, agile quanto basta per sfrecciare da Porta Romana, dove abitava, alla periferia, per scaricare casse all'ortomercato. Preferiva i portapacchi con i ganci, così ritornava dal lavoro con la cassetta di legno stracarica di sugosi pomodori, gentilmente 'offerti' da padroni distratti.
Aveva chiamato la sua bicicletta Elvira, non sapevo perché, forse il nome di una fidanzatina, tempi beati della sua giovinezza.
In effetti mio nonno era proprio un bell'ometto, capelli bruni ribelli fissati con la brillantina Linetti, e un sorriso malandrino alla Cary Grant, ma era buono come il pane.
Alla domenica andava con l'abito della festa al Cral del quartiere per giocare alle bocce e le donne gli morivano dietro, ma lui rideva e pensava a lanciare a punto la boccia al pallino, era perdutamente innamorato, per davvero.
Il suo amore si chiamava Teresa, mia nonna, una rossa chioma inquieta fermata con una spilla a cuore, piccolina ma tosta, più di lui, incredibile a dirsi.
Era impiegata in una piccola azienda vicino al Duomo, andava a lavorare con il tram e odiava la bici, non aveva testa di imparare ad usarla, “Ma cosa fai, sempre in bicicletta, parla con me!” diceva al marito, e giù litigate che si sentivano dalle finestre delle case vicine.
Era molto religiosa, ogni domenica andava alla messa e così, per quieto vivere, lui l'accompagnava, non in chiesa, era ateo convinto, l’aspettava fuori con gli altri amici della stessa fede politica, a metter su feste di partito, con tanto di riffa e, ovvio, un ristorante all'aperto. In gioventù era stato cuoco, e cucinava... da dio!
Quante volte l'ho visto rimestare il minestrone, affettare la filzetta di salame per i panini, da chef esperto qual era, ma trovava il tempo di giocare con me bambina: io vincevo un peluche ed ero contenta, ma lui pagava il giocattolo sottobanco ai gestori della lotteria, per l'unico scopo di vedermi felice.
Teresa lo teneva in riga, gli stirava le camicie e di sera cenavano insieme sentendo la radio, ma dopo il caffè Augusto spariva, prendeva l’Elvira e pedalava sul Naviglio Grande girovagando senza fretta.
La strada sterrata lambiva il canale a pelo d'acqua, vedeva i pescatori in cerca di fortuna, di acchiappare, chissà, qualche alborella, qualche luccio, si fermava a parlare con loro, scambiando consigli di cucina e di vini, da vero intenditore.
Vedeva le grandi cascine, i vecchi lavatoi di pietra, dove lavare i panni e i peccati di una città di affari e malaffari. La Milano da bere era ben di là da venire! Augusto si ricaricava d'aria pura, ritornava lasciando la bici vicino al portone d'ingresso, senza lucchetto, tanto ci si conosceva tutti, ritrovava lei, Teresa, che rattoppava i suoi pantaloni lisi e si baciavano stretti nel buio della stanza, mille e mille baci per l'eternità.
Gli anni passavano, e vedevo i miei nonni anziani, attivi ma fragili, come una nuvola.
Erano in pensione, Teresa con la chiesa e le faccende domestiche, Augusto indaffarato ancora tra le bocce e l'amore inossidabile di sempre, l'Elvira, la sua bicicletta.
La tirava a lucido pulendo alla perfezione ruote e pedali, anche se era un po' vecchiotta bastava per girare nel quartiere, metteva nel portapacchi il sacchetto della spesa e il giornale, andava al parco per veder giocare i bambini e si sentiva in pace con la vita.
Accadde all'improvviso, con Augusto vicino, “Aiutami, ho una fitta forte qui”.
E Teresa se ne andò, lasciando il compagno di una vita senza lacrime e senza difesa.
Lo vedevo vagare piano con l'Elvira tra i caseggiati, in mezzo alle macchine, erano un pericolo per lui, lo sapeva, ma non gli importava, anzi, il suo sogno era che un'auto distratta lo stendesse lungo il selciato, morire così, in un istante, e rivedere lei, con un sorriso.
Così fu, il suo cuore malandato soffiò l'ultimo battito, Augusto sbandò e cadde dalla bicicletta, s'addormentò tranquillo.
E l'Elvira lo prese amorevole con mani forti d'acciaio, gambe in spalla e pedalare, verso un mondo migliore.


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