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Lettera bianca

di Sara Ludovico
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Pubblicato il 28/04/2022 16:35:32

Dio di misericordia, il tuo bel Paradiso l'hai fatto soprattutto per chi non ha sorriso, per quelli che han vissuto con la coscienza pura. L'inferno esiste solo per chi ne ha paura.

Il nero non mi ha mai intimorito. Sembra un colore come un altro, come il blu o l’antracite. Singolare, individuale, non ha bisogno di mescolarsi con qualcos’altro per essere migliore. Il bianco, quello è un colore che mi terrorizza. Non si trova in mezzo alle altre tinte, anche se ha mille sfumature all’interno, come se contenesse tutti i colori e nel contempo nessuno. È un colore che non comprenderà mai chi è davvero. Neanche tutta la vita basterebbe per fargli comprendere chi è realmente. Se è blu, rosso, giallo, nero, arancione, lavanda, verde prato o verde acqua. Si sentirà sempre diverso. Si sentirà sempre messo da parte. Servirà per dare anonimato a ciò che ha creato l’uomo, o per contrastare i colori protagonisti. Come le strisce pedonali, i muri dell’ospedale, i fogli vuoti. Ecco, lui è vuoto e pieno allo stesso tempo. Ma la sua pienezza non viene compresa, studiata, nessuno ci fa caso. Sarà sempre un colore che è lì, in mezzo agli altri, e nessuno saprà mai il perché.
Ecco, io sono così. Bianco, anonimo e senz’anima. Vorrei rivolgermi a voi, che vivete dei momenti sereni, che non pensate al futuro prossimo, e neanche al giorno dopo. Voi, che vi fate coccolare da una coperta che vi darà la sensazione di casa, con la tv che vi parla comunque, che voi l’ascoltiate o meno, in fondo la cosa importante è riempire i vuoti del silenzio. Voi, che cucinate la cena per qualcuno che amate, o solo per voi stessi. Voi, che preparate i vestiti sulla sedia da indossare domattina. Voi, che aspettate il sole per sentirvi utili in questo mondo, per farvi riscaldare il sangue che sentite troppo freddo e non volete soffermarvici troppo. Spero non vi dispiaccia se oggi leggerete queste parole graffianti, queste verità che tanto detestate.
La morte ci attende. Ci attende, nei secondi che passano nei vostri orologi costosi, regali assassini di Natale o del compleanno che voi avete tanto apprezzato. Ascoltate quel ticchettio, guardate quelle lancette. Non girano come una giostra, compiendo movimenti circolari che iniziano e finiscono nello stesso punto. È ciò che viene a mancare dalla vostra ora, dal momento in cui saluterete questa Terra e queste finte ricchezze. Quelle giostre con i cavalli colorati, che vi fanno brillare gli occhi per le musiche e i colori, su cui fate salire i vostri figli, quelle sono una bugia. Perché girano a vuoto, senza meta, senza cambiare mai. Quelle lancette invece uccidono ogni secondo un bambino, un padre, un nonno, una madre, una figlia, una moglie. Quelle lancette vi tolgono un pezzo di voi fino a farvi giungere alla morte. E nel frattempo non sarete mai uguali al secondo precedente.
Questo continuo mutamento può consolarvi, può rendervi curiosi addirittura. Può affamarvi di altri secondi, può rendervi vincenti. Oppure no. Oppure vorreste rimanere identici, perché ci mettiamo tutta la vita a comprendere la nostra essenza, tutta la vita a sentirci unici, per ritrovarci uguali a milioni di altri, e da un secondo all’altro, improvvisamente, sentirci diversi. E dobbiamo ricominciare daccapo.
Per voi è semplice, però. Non vi ci soffermate troppo, non vi interessa magari. Però siete pronti a giudicare. A puntare il dito. E quindi, mi rivolgo a voi, signori della Corte, quella Corte fatta di un altare e di un cerchio bianco di pane azzimo; voi, che avete sopra il Cristo redentore sporco di sangue e dei vostri peccati, che siete attorniati dal giallo che sa di luce, ma che avete rabbuiato con le vostre prediche, le vostre interpretazioni. Grazie a voi abbiamo paura, tutti paura di nominare quella parola; quella notizia scritta nero su bianco sui giornali vi fa rabbuiare, vi destabilizza e si insinua in voi un dubbio, ma non potete, non potete parlarne, è peccato anche solo pensarci. E vi crogiolate nelle idee superflue e meschine, colpevolizzando la mancata sanità mentale nei nostri corpi rivolti sull’asfalto, che non solo vi consola, ma ve ne fa uscire vincenti. Non potete avere paura se sono cose che non vi riguardano. Passate avanti, prego. E aspettate la domenica, per allontanarvi da Dio, nella sua casa da cui l’avete sfrattato per rendervi ancora una volta protagonisti di una storia che non è la vostra.
Immaginate se Gesù fosse vissuto oggi. Immaginate se vi predicasse di non fare agli altri ciò che non volete fosse fatto a voi stessi. Di porgere l’altra guancia. Che gli ultimi saranno i primi. No, non l’avreste venerato. Lo avreste nuovamente crocifisso, su una croce colorata magari, ripreso da migliaia di telecamere, occhi fissi sul suo corpo inerme e colpevole. Noi siamo gli ultimi, signori. Siamo quelli che nessuno ha voluto ascoltare, nessuno ha voluto comprendere. E voi ci considerate peccatori.
Dante ci ha disegnati in una selva, come quella che lui ha attraversato prima di compiere il suo viaggio. Ci ha fatto a immagine e somiglianza di arbusti con foglie stanche, le nostre anime intrappolate nei tronchi antichi e rugosi, a farci torturare dalle Arpie, e saremo gli unici condannati nel Giudizio Universale a non unirci ai nostri corpi: quelli saranno appesi con una corda ai nostri stessi rami, e noi costretti a sostenere quel peso ancora per l’eternità.
Signor Poeta, io a questo non ci credo. Non abbiamo sorriso, non abbiamo amato la vita. Abbiamo ucciso noi stessi. Noi siamo gli ultimi per davvero, non abbiamo messo al primo posto i nostri cari e nemmeno noi stessi. Non possiamo nemmeno definirci egoisti. Abbiamo peccato contro di voi, contro di noi e contro Dio. Gesù ci amerà per questo. Ci guarderà, e ci accompagnerà fra le stelle e le nuvole, fra il nero e il bianco, ci mostrerà una nuova strada, ci bacerà caldamente dandoci quella speranza che non abbiamo trovato nella vecchia città, in mezzo a uomini superficiali, in mezzo a bacche rosse, ad alberi verdi e a sorrisi lucenti, negli odiosi oggetti colorati di cui vi riempite le case, non l’abbiamo trovata in una dimora, in un’opera d’arte, in una natura costantemente vessata da mani troppo forti per poterle ostacolare. Non l’abbiamo trovata negli occhi di nessun altro, con nessuno abbiamo potuto dividere questo filo di ferro intricato e tagliente, abbiamo solo cercato di lasciarci andare, giorno dopo giorno, consapevoli della Natura che non ci ama, che quando può spazza via uomini, vite e mondi, decide a suo piacimento, non importa chi, che storia abbia dietro, può morire un’anima innocente o un’anima cattiva, questo le è indifferente.
Signor Poeta, io però ti ringrazio. Perché in questo momento, su questo ponte duro e severo come i miei organi e la mia essenza, come il colore anonimo dei miei occhi invisibili, so di essere Dafne, so di aver preferito trasformarmi in albero che farmi sovrastare da una forza come quella di Apollo.
Guardo le mie lacrime che scendono, finalmente esternamente, fuori dal mio corpo. E mi vedo trasformare, vedo il mio sangue tramutarsi in linfa, guardo il verde nella mia pelle così bianca, guardo il mio sorriso indurirsi e quella lacrima. Quella lacrima trasparente che prende i colori che vuole, che non ha paura di cadere, che attraversa ogni superficie senza farsi male. Come quella di Dafne, lei, che è rimasta eterna sul capo di ogni poeta che la succederà nei secoli dei secoli. E in questo momento la leggerezza pervade questo vento che fa a pezzi le foglie, che agita i capelli e il mare, e ci scombussola le anime. Dafne si è salvata, Seneca anche. Ripenso alla ginestra di Leopardi, guardo l’acqua gelida che mi fissa attenta, per paura di perdere un solo passo. E poi guardo il cielo, che piange su di me. Sa cosa sta per succedere, ma poteva anche non saperlo. Lì, tra le nuvole e oltre, c’è un Dio che mi tenderà il braccio. E voi sulla Terra non lo saprete mai. Tornerete in quella casa di pietra intrisa di incenso e di ipocrisia, amerete voi stessi e crederete di amare il prossimo.
Vi siete scordati di noi, ma noi non ci siamo scordati di voi.
Osservo la mia vita bianca, e poi guardo giù, il gelido mare nero che mi tende le braccia.
E spicco il volo. Gesù verrà a salvarmi, mentre voi mi ignorerete.
Vi amo comunque, perché so che non volevate essere quello che siete. Però mi raccomando ciò che vi raccomandò Cesare Pavese: non fate troppi pettegolezzi.
Domani ci sarà Cristo dentro me, e io dentro di lui, fra le sue braccia che non hanno bisogno di giudicare, ma solo di amare.

Quando attraverserà
L'ultimo vecchio ponte
Ai suicidi dirà
Baciandoli alla fronte
Venite in Paradiso
Là dove vado anch'io
Perché non c'è l'inferno
Nel mondo del buon Dio.

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