XII
Gli occhi di Pietro
Un pomeriggio eravamo al bar Aurora. Adelina tormentava il cellulare chiamando i suoi genitori, mandando squilli e messaggi a questa e quell’amica; io ero oppresso da una stanchezza, da una sensazione di vuoto, di disagio, tanto più tormentosa in quanto non ne capivo la ragione. Era una giornata serena, tutto era andato liscio sia sul lavoro che con Adelina, che appariva tranquilla e soddisfatta.
Da un po’ di tempo avevamo preso a litigare anche per futili motivi. In verità ero piuttosto nervoso a causa degli avvenimenti di quei giorni e dei nostri rapporti in cui ponevo anima e corpo, con enorme altruismo che stava tuttavia lentamente scemando. Perché in amore è necessaria una buona dose di egoismo per caricarsi dell’energia necessaria allo sviluppo del desiderio. Ecco, era proprio questo che andava spegnendosi: il desiderio, e con esso la voglia di intimità con lei. Apprezzavo sempre più quei ritagli di tempo spesi in solitudine, che facevano parte delle vecchie abitudini che avevo dismesso quando ci mettemmo insieme. C’erano giorni, assai rari in verità, in cui, intenerito dalle sue membra esili, apparentemente fragili, ci mettevo l’anima a stapparle un gemito di beatitudine. Quando rinveniva, rilassata, mollemente distesa sul letto, diceva che l’Amore non ci appartiene, perché non possiamo contenerlo: “Esso, quando ci viene dato, bolle e trabocca e non siamo in grado d’afferrarlo, come un torrente in piena, non siamo capaci di trattenerlo, di farlo nostro per sempre. Se riuscissimo in questo avremmo raggiunto la felicità. L’Amore è un dono divino di cui non siamo mai abbastanza meritevoli, mai abbastanza grati”
Quel discorso mi appariva strano perché non capivo di quale amore parlasse: di quello spirituale donato dalla divinità all’uomo, oppure dell’orgasmo che io le donavo: amore carnale e precario, per il quale raramente mi mostrava gratitudine, anzi mi dava ad intendere che non avevo fatto altro che il mio dovere di servo inutile. E veramente mi sentivo un servo che imbandisce un banchetto prelibato alla signora, banchetto cui gli è proibito partecipare se non nel segreto della cucina. Se mi fossi saziato da solo o avessi cercato altre mense sarebbe stata la fine di tutto.
Il centro era popolato dai pochissimi sopravvissuti alla calura che non erano fuggiti in vacanza. C’era un’aria mite, un silenzio inusuale a quell’ora. I negozi rimasti aperti erano vuoti. La gente preferiva passeggiare dando un’occhiata distratta alle vetrine, ma soprattutto godeva quella luce tenera, quel colore del cielo azzurro e profondo di cui il caldo e l’afa ci avevano privato per parecchi giorni. All’improvviso mi parve di vedere Pietro, o meglio di sentirne su di me gli occhi. Guardai attorno, affondai gli occhi nell’ombra del negozio di scarpe che ci stava di fronte, dall’altro lato della strada, senza scorgere alcuno che gli somigliasse. Eppure quella sensazione durava e mi dava un senso di profondo disagio. Avevo raccontato a Adelina della visita di Susanna, della sua scomparsa, di Coito che bussava di casa in casa, e lei mi consigliò di avvertire Tango.
Come aveva previsto, Michele fu da noi in un attimo. Davanti a una birra scura, con aria interrogativa, attendeva che dicessimo qualcosa. “Hai visto Pietro?” Domandai “Ho avuto la sensazione della sua presenza”.
“No, so che sta male ed è improbabile che se ne vada a passeggio per la città. Pare che a mala pena si regga in piedi . Mi avete chiamato per dirmi questo?”
“Non smetti mai di fare il poliziotto?” Protestò Adelina
“Ti abbiamo chiamato per stare in compagnia, non per farti delle rivelazioni. Tuttavia qualche cosa avrei da raccontarti” e gli riferii di quella faccenda di Coito che andava a bussare di porta in porta sbirciando misteriosamente dentro casa. Michele, come ebbi finito di raccontare, bevette dei profondi sorsi di birra e dopo una lunga pausa in cui era evidente che meditava circa l’opportunità di confidarsi o meno: “E’ una storia strana, dei malviventi perseguitano Pietro e Maria, supponiamo mandati dai Cabrini, come sostiene Susanna, tuttavia noi conosciamo quell’individuo che parlò con Mario, da parecchi giorni si aggira attorno alla casa di Pietro, è un ex poliziotto che si è messo in proprio, un detective. Sebbene sia un poco di buono, non è un assassino, non tenterebbe mai di uccidere Pietro, di investirlo con la macchina, come è accaduto tempo fa. Siamo riusciti a rintracciare l’auto: è una macchina a noleggio. Chi la guidava aveva presentato documenti fasulli, e si sa che i noleggiatori, pur che paghino, non stanno a guardare in faccia i clienti, non dico poi i documenti. Così non siamo riusciti a sapere chi fosse. Poi c’è la strana persecuzione nei confronti di Susanna. Sembra che la vogliano terrorizzare, e ci sono riusciti, ma non hanno mai tentato di impossessarsi di qualcosa di lei. Eppure qualcosa deve pur avere che può interessare, a Cabrini per esempio.
Infine ci sono le tue disavventure che non saprei a cosa collegare. E’ tutto molto confuso, caotico, sconnesso, senza senso”.
“Vorresti che tutto si ordinasse come le tessere in un mosaico, ma la vita non ha le caratteristiche di un mosaico, essa presenta una notevole complessità e quindi imprevedibilità. Ciò che è vivo viaggia sul filo di lama: vuole crescere, ma può ritornare nel caos indifferenziato” Così si espresse Adelina e io ne fui stupito.
“Non è tempo di fare filosofia” la interruppe Michele “Il nostro compito è di semplificare i fenomeni, i comportamenti criminali, per dare loro un senso, una ragione, per poterli ordinare, proprio come tessere di un mosaico che rappresenti la vita, sia pure degradata”
Si unirono alla compagnia Luigi e Lucia e i discorsi si fecero più futili.
Il crepuscolo velava i vetri delle case e i negozi abbassavano le saracinesche, presto si sarebbero accesi i lampioni. Andammo tutti insieme a concludere la serata alla trattoria del castello. A ovest, ai piedi del dirupo su cui si ergeva la massa nera del castello, si poteva vedere la chiesa di S. Nicolò illuminata dalla fioca luce di un faretto a neon quasi esaurito. La piazzetta perfettamente circolare era deserta e metteva tristezza. O forse ero io depresso in quella notte di fine luglio, senza saperne il motivo, perché esso albergava nella profondità del mio cervello, nell’attesa di affiorare al momento giusto, quando meno me lo sarei aspettato.
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