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La progenie dell’età dell’oro – invettiva


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Pubblicato il 22/08/2011 12:00:00

O voi falliti inetti ipocriti intriganti

indegni ruffiani della vita che è in voi

Voi che non rimpiangete e non sognate

certi di esserci sicuri di fare

pensierosi automatici disinnescati: bruti

Voi che credete di venire

da dove vorreste andare figli dei condannati

a emigrare pastori della disintegrazione

discepoli di voi stessi. Aborti.

Perle vostre orecchie lorde

merdose dei rumori che inventate

la polvere inorganica e opaca

sulla pelle i polmoni incatramati

e sopra tutto la vostra gaudente indifferenza

di inetti

Peri vostri amplessi metodici e annoianti

voi scissi e consapevoli

della vostra decomposizione imminente

aggregati di niente che vi parlate addosso

e come insipide larve carrieriste v’illustrate

in araldiche di niente. Voi che vi eleggete

adivi di voi stessi

genia terricola. Voi che vi confortate nell’agio

di teorie che inventate per darvi ragione

che sprecate un tempo inesistente a

accumulare minerali e possessi

che osate recintare i campi

voi che ci incatenate i fratelli voi

bisognosi pusillanimi di condottieri e di saggi

Per voi che biasimate da profeti le libertà degli altri

e subite l’anarchia di voi stessi

voi indomiti

bramosi

sapidi intelletti

metafisici rettori del vero – voi

che non siete altri che voi stessi. Voi che dite

io penso io sono

e che misconoscete la contraddizione

che siete. Carne che suppone. Illusi.

Voi che avete applaudito con gioia oscena

mentre i fratelli che dicevate in dio erano arsi vivi

vi siete nascosti tra la paglia

di funesti ideali

e avete acconsentito

a che i figli macellassero altri figli per chiamarne qualcuno notabile

Per voi che ancora giocando

sempre più spietati avete ritenuto

di esservi fatti adulti

Voi irresponsabili senza remissione

Perle vostre membra infiacchite

flaccide appoggiate sulle laide poltrone le

sedie i morbidi letti nutriti e gonfi

come fetide saccate d’immondizia

schifosi nelle vanità

che soprannominate eccessi. Inetti codardi

indegni del sangue che vi irrora e vi spinge

apostoli della vivisezione

pavidi ottusi mangia corpi che non

volete quando è ora di morire

Voi brillante progenie delle stelle aurei

figliocci del censo imbevuti del pensamento

cosmico

voi compari del soffio

Per voi che scavate i defunti di altre ere

e ritagliate le frattaglie ai morti

come testimonianze da addurre in tribunale

voi che impiantate contro ogni sopruso

sistemi di sopruso giudiziari

Voi che ammucchiate rottami e vi obiettate indignati, quasi sorpresi

voi che per l’agio comprate

e che comprando azzerate se stessi

voi che con noncuranza varcate

i vostri limiti

che vi cullate nelle spavalde imprese

voi effigi di voi stessi e nulla più

Ascoltate o voi esimi falliti, inetti ipocriti

intriganti ruffiani di voi stessi ciò che desiderò Sertorio

vittima condolente e disertore

del costume aggiogante dei padri

e delle madri

che voi siete

 

“Al calare del vento andò a sostare su certe isole sperdute e prive d’acqua dove passò la notte, e di lì salpò per attraversare lo stretto di Cadice, tenendo sulla destra la costa esterna dell’Iberia. Sbarcò poco sopra la foce del Beti, che sbocca nell’oceano Atlantico e dà il nome alla regione iberica circostante.

Qui s’imbatté in alcuni marinai appena ritornati da quelle due isole dell’Atlantico – separate da uno stretto assai sottile e distanti10.000 stadi dall’Africa – che vengono chiamate Isole Fortunate. Godono di piogge moderate e rare, e soprattutto di venti miti,carichi di rugiada. La loro terra, perciò, è fertile e grassa,ottima per seminare e da arare; inoltre producono spontaneamente frutti dolci e sufficientemente abbondanti per nutrire la popolazione che trascorre nell’ozio un tempo libero dal lavoro e da ogni occupazione pratica. Anche l’aria in quelle isole è salubre,grazie a un clima temperato e privo di forti sbalzi stagionali. Infatti i venti settentrionali e di levante, che soffiano da terra verso l’esterno, incontrano un vasto spazio vuoto in cui si disperdono e, data la grande distanza delle isole dal continente, si smorzano prima di giungervi; d’altra parte i venti che soffiano dal mare, quelli cioè di mezzogiorno e di ponente, apportano piovaschi leggeri e sparsi, ma soprattutto rinfrescano la vegetazione con brezze umide e la fanno crescere dolcemente. Tutto ciò ha diffuso, e radicato anche tra i barbari, la credenza che proprio lì si trovino i Campi Elisi e la sede dei beati, cantati da Omero.

Quando udì questo racconto Sertorio fu preso da uno straordinario desiderio di andare ad abitare in quelle isole e di trascorrervi in pace il resto della vita, lontano da un potere persecutorio e da guerre senza fine.” (Plutarco, Sertorio 8-9)

 

 

[ Tratto da Acrilirico, di Gian Maria Turi, Manni Editori, 2011 ]



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