Pubblicato il 15/05/2015 17:20:53
Quando ero ragazzo, nei cosiddetti “favolosi” anni sessanta, uno dei sogni più frequentati da quelli della mia generazione era di poter avere la patente di guida e quindi l’automobile. Ricordo che cominciai a preparare i “documenti”, con largo anticipo rispetto al compleanno, allo scopo di avere “subito” il famoso foglio rosa. In effetti, pochissimi giorni dopo aver compiuto i diciotto anni, ero in possesso del desiderato documento. Esercitazioni alla guida ne feci poche, perché in realtà sapevo già guidare, in quanto con Vittorio, mio amico e compagno di mille marachelle, guidavamo già l’auto di suo padre che ,ovviamente, non ne sapeva nulla. Un mese dopo il rilascio del foglio rosa vi furono gli esami, ai quali mi presentai con un amico già patentato; superai brillantemente gli esami e conseguii la patente. All’epoca la patente era considerata da noi giovani come l’indispensabile chiave d’accesso alla “vita”; infatti l’automobile non era solo sinonimo di velocità, ma era anche la certificazione di appartenenza a una società tecnologica oramai evoluta, cui non si poteva rimanere estranei. Ma l’auto aveva anche un altro importantissimo valore: serviva per “rimorchiare”. Tuttavia, una volta giunti in possesso della patente, si poneva un problema: “Ci vuole la macchina”. Fu così che riuscii a ottenere ventimila lire da mio padre e con Vittorio andammo allo “sfascio” a comprare una macchina in società. All’epoca i pochi sfasciacarrozze si trovavano prevalentemente nei pressi di piazza Fonderia e li fu facile fare “amicizia” col simpaticissimo “zu Vicè” che ci vendette una Balilla del millenovecentotrentatrè, che non aveva sfasciato, perché a suo dire, perfettamente marciante e da lui garantita mediante pittoreschi giuramenti su tutte le generazioni che l’avevano preceduto. Valga per tutti un test di efficienza: bisognava iniziare a frenare a piazza Croci , per fermarsi al “Politeama”. Quella Balilla appagava il “sogno” di noi ragazzi, ricordo che la riverniciammo con i rimasugli di vari colori che nella loro miscela avevano prodotto un’indescrivibile colore “can che fugge”, che tuttavia , a noi piaceva moltissimo. L’auto consumava più olio che benzina, eppure era per noi un mito con la sua linea austera, ben piantata sulle quattro ruote, lei che era stata anche il “sogno” di chi ci aveva preceduto trent’anni prima. La Balilla era servita solo da approdo a una realtà, prima solo sognata e che una volta raggiunta cominciava già a vacillare. Le “esigenze, che, all’epoca, crescevano ogni giorno a dismisura, ci fecero prestissimo dimenticare l’agognata “macchina” e presto la Balilla fu riportata allo “zu Vicè”, che provvide a sostituirla -questa volta non avevo soci – con una più recente Topolino b del millenovecentotrentotto. Era, praticamente, iniziata la corsa al consumismo, del quale, la mia generazione con i suoi modelli culturali è stata in gran parte responsabile. Negli anni successivi cambiai tantissime automobili, tutte rigorosamente usate, fino a quando nel ’68 finalmente comprai la mia prima vettura nuova: la “Cinquecento f” altra pietra miliare della mia vita d’automobilista; ma questa è un’altra storia. La Balilla occupa un posto particolare nella mia memoria e quando s’affaccia nei miei ricordi, la penso rivivendo l’entusiasmo del momento, ma anche con un pizzico di malinconia.
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