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Stato di quiete

Poesia

Pierluigi Cappello
Rizzoli

Recensione di Maria Grazia Maiorino
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Pubblicato il 05/05/2017 12:00:00



Poesia di naufragio e di luce

 

“Le cose perdute fanno grandi le cose salvate”. Questo verso, nella poesia senza titolo con la dedica “a mio padre”(p. 40), suona limpido e chiaro, se lo ritagliamo dal resto consola noi tutti che consideriamo il vuoto una condizione privilegiata per l’ascolto e i limiti come le nostre strade, sintetizzando mirabilmente un aspetto dello stato di quiete. Ma la dolcezza del leopardiano naufragare nulla toglie all’oscurità dell’abisso, al ribollire dei vortici e all’approssimarsi della tempesta, infatti subito dopo leggiamo: “ma sapessi il graffio, il taglio della tela, il vuoto che riempie”, e non possiamo non sentire quanto sia dolente quel graffio, chiodo nella carne e nello spirito, prezzo di quel vuoto.

Tra questi due poli, come Pierluigi Cappello spiega in una prosa lucidissima e bella che già rasenta la poesia - e mi ha ricordato lo scorrere vario, inaspettato, fra realtà e sogno, della narrazione autobiografica di “Questa libertà” (Rizzoli 2012) – nella nota iniziale, vanno e vengono i trenta testi della raccolta, composti in “anni difficili”. In una condizione singolare, così singolare da sfiorare continuamente il mistero, che sembra avvolgere insieme chi scrive e chi legge. Alla parola viene affidato il compito, anch’esso difficile, di decifrare, alludere, suggerire, abbandonarsi, interrogare. Stelle fisse il bianco, l’azzurro, la luce, il bagliore, le apparizioni della memoria, i numi tutelari di un universo primigenio che si affaccia a volte con andamento di poemetto fiabesco o di racconto in versi, altre volte in istantanee del cuore, ineffabili e come sprofondate nell’oltre del desiderio; in visitazioni del padre e della madre che ci riportano odori, abiti, gesti, cose concrete che rimangono impresse nella memoria, ma i dettagli a un tratto si impennano e salgono in alto, come un canto sciolto in musica vanno a toccare corde dove mancano le parole e il sentimento diventa quasi una muta preghiera.

Sono strappi, separazioni di sé da sé, sono rose e nomi, sono i nomi e un nome, quello del poeta, diventati luoghi in cui consistere e sostare durante e dopo l’avventura della mente alla ricerca di un miracoloso equilibrio fra opposti, come in un “battesimo dei nostri frammenti” che ci ricorda Mario Luzi. “… strappa dividi strappa ancora, /separa questo da quello, / la prima dall’ultima volta // e il suono dello strappo lasciato / chiamalo col  mio nome”, così si conclude il primo componimento (p. 21). “… Accado allora / e mi lascio portare, dentro questa cosa che mi fa accadere / affidato al tempo come una foglia nel fiume. / Senza nome, ma con il tuo nome ben inciso” conclude “Equinozio”(p. 29) , dove mi piace pensare che il “tuo nome” si riferisca all’io lirico, a un amore, al fiume, al disegno riguardante noi, le nostre vite intrecciate insieme in un puntino dell’universo che chiamiamo Terra. E verso la fine il tema del “nome”è affidato a un’intera poesia, intitolata appunto “Oggi. Scrivere il nome”(p. 53), che disegna un itinerario spirituale di abbandono nel senso più alto, verso uno spazio di libertà senza ormeggi, disegnato ancora e sempre dalle nuvole.

C’è tanto cielo in questi versi, scrittura di nuvole e scrittura delle origini, c’ il tempo che dilaga in uno spazio interiore, kairos più che chrono, un farsi presente delle cose simile alla grazia, anche quando subito si sfarina in cenere. Il passato raccontato al futuro, per esempio, in “Natività” (p. 33), è una traccia di questo tempo delle apparizioni, ogni volta rivisitato e nuovo: “La neve sarà già alta la mattina”. E già il primo verso ci introduce nell’atmosfera rarefatta e tesa della nascita e delle rinascite, con le impronte poetiche delle cose vissute, preziosi doni dello stato di quiete: “si troveranno tutti nella chiesa troppo grande / per il paese piccolo e daranno al Natale la forma / delle loro giacche sformate, del loro stare vicini, / del vapore dei loro aliti, lo faranno per loro / e perché è la festa …”.

Nel poemetto “Colore”(p. 35) l’attesa dall’inizio alla fine ci tiene con il fiato sospeso: assistiamo a un rito d’iniziazione in cui bisogna imparare “la maniera di essere piccoli al mondo senza paura” e ciò non riguarda solo il bambino protagonista ma diventa metafora della nostra vita adulta e di altre paure e fragilità. Il racconto procede gettando nastri di luce come un faro nella notte, rivelando altro tempo e altro spazio: “E dei due il più breve affondava le radici nel futuro / e il più lungo affondava le radici nel passato, / e, insieme, intrecciavano una fune lanciata nell’ignoto e nel tempo”.

 Più avanti, nella poesia con la dedica “a mia madre”(pag 39), si oscilla fra nascere e morire, c’è l’amore lontano dei profeti di Israele e di ogni esilio, e il dolore in cui affonda l’unicità della solitudine umana: “Ovunque si è nati, si nasce nel ricordo, ognuno da solo”. ”Forse sarei più sola / senza la mia solitudine -“ dice Emily Dickinson nella sua stanza-cella, dalla quale si sporge cercando parole e immagini al femminile per scalare le vette più alte del pensiero e sfidare gli abissi. Mi sembra di vederla comparire qua e là, la poetessa di Amherst, bianca nel bianco, come un angelo: “..luce bianca, pietra e metallo nell’aria, / con il ritmo di uno scalpellino, un qualche uccello che non conosco / lascia il suo verso farsi novembre, / di punta in punta crescere e scomparire / e dappertutto non è il posto in cui cercare / nel silenzio acceso delle ossa, nella testa. / Dappertutto non è il posto dove cercare. “(“Sole di novembre”, p. 27).

L’ultima sezione, eponima, è come un approdo nell’occhio del ciclone, la vertigine provata nell’immobilità. La poesia “Alba, stato di quiete” (p 50) inizia così: “Stare afferrati al sonno, luce e naufragio dove non si è toccati /… l’immobilità, qui, si forgia in dote, il guizzo rivelatore si cancella”. Versi che non finiscono mai perché ci chiedono di sostare e ancora sostare tra le pagine, per condividere la nostra parte di viaggio, in dialogo con loro, in uno specchio abbagliante o nero o trasparente, secondo i momenti, sempre fiduciosi che le rose pronunciate restino accese “come qualcosa di morto e dopo salvato”, mentre la vita scorre e ci riprende, a libro chiuso, nei piccoli gesti necessari di ogni giorno. 

 


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