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Ogni lettore, quando legge, legge se stesso. L'opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in se stesso. (da "Il tempo ritrovato" - Marcel Proust)

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Riflessioni di uno scrittore con le scarpe rotte25

di Stefano Saccinto
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Pubblicato il 03/12/2011 11:17:06

Per una strana deformazione caratteriale, mi ero sentito spesso vicino a marchiare per sempre la ruvida superficie del mondo letterario con il mio nome. Senza un contratto effettivo di pubblicazione. Senza un vero e proprio seguito di lettori. Senza le capacità necessarie per correggere e promuovere i testi. Forse senza neanche i testi giusti. Ma cosa importava? I miei libri mi piacevano non perché li avevo scritti io, ma li avevo scritti proprio perché volevo leggerli e nessuno li aveva mai scritti. Il mio era il parere della persona di cui più mi fidavo che valutava l’opera dello scrittore più esaltante che avessi mai incontrato. Ero io che valutavo me stesso. E mi valutavo in maniera estremamente positiva. Senza farmi sconti, però. Riconoscevo le innumerevoli pecche nello stile e la scarsa credibilità che avevano certe parti di quasi tutti i libri, ma sapevo che al momento giusto mi sarei inventato qualcosa per renderli perfetti. Nessun altro sarebbe stato in grado di farlo.
Quello che non andava di tutta la faccenda era che spesso non ero capace neanch’io di tirare fuori i risultati di tutte le mie equazioni. Oppure non mi andava di applicarmi ulteriormente e quindi le storie rimanevano sospese in un limbo di insoddisfazione che si accumulava anno per anno e libro dopo libro. Ero pigro. Profondamente pigro. Spesso dimenticavo elementi costituenti delle storie. A volte, incontrando nella rilettura un personaggio, mi chiedevo – E questo chi cazzo è? -. Così ero costretto a rifocillare la memoria con dei mantra assillanti che mi ripetevo per tutta una giornata, per diverse giornate che formavano i mesi dell’anno che ci mettevo (in generale) per stendere uno scritto.
Ricordati di ricordarti di respirare.
Poi rilasciavo tutto come se avessi compiuto uno sforzo innaturale, avevo una sorta di rigetto nei confronti dell’ultimo libro steso che mi portava ad odiarlo e a dimenticarne le fasi essenziali. E mi rendevo conto che, a causa di quelle ossessive ripetizioni, avevo trascurato la realtà in modo ignobile, restando chiuso in un mondo mentale che aveva impegnato la mente e gli occhi per tutto quel tempo.
Ricordati che hai un corpo, ricordati di nutrirlo, ricordati di lavarlo.
L’ultimo romanzo che aveva risucchiato tutte le mie facoltà mentali nel periodo della depressione e della successiva cura , venne fuori, come era stato per Elanka Wwea, ispirato da una morte, quella di mio cugino di Melito, e da un videogame concernente il mondo della malavita americana negli anni settanta. La morte e la disumana immersione nei mondi virtuali creavano un mix traumatico che stimolava una grande forza di applicazione. Ma andare avanti in quel modo diventava davvero macabro.
La scena iniziale del libro mi venne in mente per l’invasione di cavallette che ci fu quell’anno nel mio paese. Erano enormi, rumorose e si infiltravano dappertutto. Le quantità che se ne sparsero nell’aria per quel lungo periodo fecero pensare ad una vera e propria piaga degna della più celebre saga fantasy ebrea. Non si poteva andare in giro a piedi senza che ti zompassero attorno alle caviglie, in petto, in fronte, non si poteva tentare di uscire da un’auto senza che cercassero di saltarci dentro, finivano sotto le gomme con crepitii osceni. Sembrava di guidare sopra un tappeto di popcorn. Si aggrappavano a qualunque cosa e restavano appese sulla schiena della gente. Sghignazzavi. Finché non ti veniva il dubbio che ne avessi, appesa dietro, una anche tu.
L’invasione delle cavallette si presentò come un evento insolito che delineò un periodo che parve fuori dal tempo. La convivenza forzata ispirava un fascino strano. Anche nelle ore notturne e per le stradine solitarie, non era forse la migliore compagnia che si potesse invocare, ma non ti sentivi mai solo. Pensai che fosse un ottimo elemento d’arredo per una storia pulp. E l’arredai così, il testo che scrissi quell’anno, col nome L’era delle cavallette.
Da quando avevo concluso 5, stanco dei continui tentativi di esprimere una filosofia di vita o messaggi subliminali all’interno dei testi, avevo cercato di raschiare fino all’osso l’involucro emotivo che aveva racchiuso ogni successivo libro per tirarne fuori soltanto una semplice storia. Che non contenesse il mio parere sui comportamenti umani, che non comprendesse una morale o che non tendesse a farmi tratteggiare i personaggi in base alla simpatia che mi ispiravano. Avevo cercato di pormi al di sopra di ogni giudizio, di distaccarmi dal contesto letterario e di essere il più invisibile possibile, di far parlare le storie e i personaggi e basta. Il Capitano Glynk aveva risposto al meglio a questo mio proposito. Però, purtroppo, avevo in mente per la sua stesura un’opera così mastodontica che mi ero perso per strada. L’era delle cavallette divenne il mio testo immorale, asettico, quello in cui il mio punto di vista era finalmente scomparso a vantaggio di un racconto. Avevo raggiunto la semplicità che mi era sempre mancata. Il testo comprendeva un solo genere: il pulp. Ero riuscito a non uscire fuori tema in nessun punto. Mi reputai soddisfatto del lavoro svolto.
La stesura dei miei testi non mi dava più, però, le belle soddisfazioni di una volta. Fantasticare sulla loro pubblicazione ormai mi sembrava sempre più stupido. Avrei potuto stampare il testo, cercare case editrici interessate al pulp e sperare che lo accettassero, ma mi rendevo conto delle difficoltà. Avrebbero certamente trovato elementi non convincenti, parti che avrebbero potuto giudicare poco chiare, mi avrebbero rovinato persino le idee che me l’avevano ispirato oppure non avrebbero risposto, lasciandomi per sempre il dubbio su cosa non andasse, come era successo con tutti gli altri libri che avevo inviato. Persino un parere positivo non era ormai credibile, dal momento che mi avrebbero cercato dei soldi. Capii che non esisteva una via d’uscita e lentamente cominciai a maturare una decisione che spesso avevo sfiorato, ma che avevo sempre, alla fine, rimandato: pensai che avrei smesso di scrivere. Non conveniva più. Le maggiori crisi di identità che avevo avuto erano nate dall’impossibilità di traslare sul piano reale quello su cui avevo sempre concentrato la maggior parte dei miei sforzi. E ultimamente tali crisi si erano fatte davvero pesanti.
Fin da quando avevo conseguito la laurea, non avevo mandato che pochissimi curriculum in giro, non mi ero mai deciso a cercare un posto fisso di lavoro e a rincorrere un minimo di stabilità per la mia vita e la mia famiglia. Non l’avevo messa a rischio mai, per quello che mi riguardava ero certo di non averla mai trascurata. Scrivevo di notte e mi alzavo regolarmente per andare a lavorare. I sacrifici li richiedevo solo a me stesso e neppure li consideravo tali. Però non mi andava più bene. L’idea che prima o poi sarei diventato uno scrittore non mi permetteva di cercare altro. Il cibo, invece, me lo dava il lavoro, che avevo sempre odiato.
I testi che scrivevo non li leggeva più neppure la ragazza che amavo troppo assai, dai tempi della prima parte di Malko. Lei si leggeva Ammaniti e Baricco. Un altro mio amico, estimatore di ogni forma d'arte, mi confessava che avrebbe voluto leggere qualcosa di veramente bello, di veramente nuovo. La mia roba si ragnatelizzava nella memoria di vari computer. Il mio. Quello di mio padre. Quello dei miei suoceri. Erano i posti dove avevo scritto. Erano i posti in cui avevo vissuto. Lì c'era la mia essenza letteraria. E lì sarebbe morta. Adesso le preparavo l'estrema unzione.
Parlai alla gente di ciò che aveva letto senza confrontarlo con niente di mio. Lasciai la ragazza che amavo troppo assai leggere Baricco e Ammaniti e le comprai anche altri testi loro, mentre cresceva il volume di roba mia che non aveva letto. Diedi all'estimatore di ogni forma d'arte Il vagabondo delle stelle di Jack London e Pulp di Bukowski. Smisi di mettermi a confronto con il mondo letterario, come se non ne avessi mai fatto parte. Era così che dovevano andare le cose.
Per un periodo, come reazione alla rinnovata scoperta della mia fragilità e della caducità di tutto il mondo letterario che avevo inutilmente costruito per tutta la vita, pensai che avrei dovuto rinnegare tutto e cercare nuove strade per concedermi finalmente una svolta. Passai un’intera estate a cercare di distruggere ogni preoccupazione attraverso l’ascetico influsso delle sublimi traslazioni alcoliche. Amavo le distorsioni generate dagli effluvi mistici che annebbiavano il cervello, ma temetti che, nella vita, al posto di uno scrittore, avrei solo rischiato di diventare un alcolizzato. Non potevo permettermelo. La cosa mi avvicinava vertiginosamente a Bukowski e io avevo smesso di essere un allievo degli dei.

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