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ho sentito un minuetto battere sulla testa dei cani ritardat

di Filippo Di Lella
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Pubblicato il 05/08/2017 12:53:18

Strade calde e deserte nel buio della sera trapanato solo da qualche debole luce che filtra di nascosto dai lampioni, dalle nuvole, da qualche casa.
Niente autobus. Comunque l'avrei perso...
Perdere, vincere... Una storia finisce, una storia comincia.
I musicisti suonavano nei club, lontani dal rumore dei tram.

È quasi disarmante l'attaccamento maniacale delle abitudini alle carcasse spente colme di muco e progetti che si annidano nelle loro tane; quell'odore di fieno sembrava fosse sempre stato lì, quel bruciore nelle vene proveniva da un misterioso istinto di oppressione nascosto nelle carceri del pensiero cosciente e si diffondeva come una nebbia priva di colore e colma di sostanza infettando gli angoli più remoti, penetrando nelle foglie dei tigli e nelle spine dei cactus sui davanzali.
Il macchinista del treno era sceso a fumare e sostava di fianco alla locomotiva del leviatano in attesa che esso ingoiasse enormi quantità d'aria e persone per poi rivomitarle a chilometri (ferrati) di distanza. Non era che un macchinista.
Il boy d'una ragazzina guardava tutti con aria torva e stringeva lei tra le braccia lasciandole appena lo spazio di respirare, si sarebbe fuso in lei, l'avrebbe assimilata, la voleva possedere come si possiede un paio di scarpe, l'avrebbe menata anche stasera e i suoi lividi nascosti avrebbero ballato un altro minuetto d'amore e disincanto delle ossa.
E la notte filava via liscia e il fieno sembrava il miasma di anime bruciate dal mal di testa del mattino o solo un po' di catarro sputato per errore dal sole giù, dritto sui campi e in faccia alla periferia.
Un debole sottofondo arioso intonato dai cavi dell'alta tensione informava i viventi di non sostare, di non sperare altro che l'arrivo dei mostri di latta, forse d'una amichetta o una sgualdrina dallo sguardo dolce veloce ad aprir le cosce e a riassettarsi la parrucca, forse d'un dio che li salvasse tutti o li annegasse tutti in un mare fatto dei loro guai, delle loro idee, di cavi d'acciaio e isole stampate sui poster nelle agenzie di viaggi.
Sarebbero tutti soffocati nella logica deriva tecnologica-plutarchica e mediamente schizoide dei loro tempi o sarebbero assurti a felici vittime d'un destino elettrico ed impazzito come un treno deragliato.
La festa sarebbe dilagata.
Tutta la ditta del consumo ne avrebbe in ogni caso gioito.
Tutta la cricca dei -sarebbe meglio...- avrebbe brindato con sorrisi da squalo falsi e superficiali quanto i propri ragionamenti moralistici.
Tutto quel fieno avrebbe preso a puzzare di putrefazione e incenso per coprirla.
Un tossico si grattava nervosamente appoggiato ad un palo, aveva lo sguardo assente che vedeva chissà chi o cosa stampato nella tela delle cose, forse si sarebbe fatto rimorchiare da uno spacciatore grigio e marcio per soddisfare la sua sete di anima ed ectoplasmi...forse, l'astinenza era lontana in quel momento e pareva che gli orologi segnassero tutti delle ore diverse.
Sembrava che la fonte dell'umanità non fosse mai stata così nascosta.
Una signora sembrava agitata alla finestra di un caseggiato dotato di troppe antenne e poca facciata, ma forse era solo la noia liquida di quel paesaggio a creare il suo arredamento passeggero.

Nel cuore di quel sanguinamento osceno mi ritrovai con un mazzo di leggeri sorrisi impressi nella testa dal quale scegliere ricordi come carte da giocarsi al momento giusto nell'immensa partita che mi stavo giocando (come tutti) in corsa per la salvezza, per una redenzione ridicola e provvisoria in attesa dei conti e dell'oste. L'Oste.
Avrei comunque perso l'autobus e ad ogni modo non ne giravano più.
Trovai il solito bar.
L'allucinazione concreta al fondo delle cose stava nei fondi di bottiglia e puzzava di sudore stantio, sigarette, stivali da muratore e si confondeva col volo polveroso di mosche troppo pigre e smangiate per definirsi libere.

-Non ti si vede da un bel po', buco di culo-, il buonasera del barista che nessuno chiamava per nome risuonò.

Ordinai il solito giro di birra, non parlai quasi per nulla: il caldo mi fiaccava le gambe e i piedi stavano per esplodere nelle scarpe come salterebbe una mina di profondità in contatto con uno squalo o con una sirena distratta.
O con un buco di culo...

La ventola...la ventola!
Niente aria condizionata, il bar incassava così poco da potersi a mala pena rifornire; quasi tutti avevano un conto stellare che nessuno sembrava intenzionato a saldare e così, il barista, riscuoteva in favori e cortesie varie ciò che gli era possibile senza ricorrere a metodi più bruschi. Era un buon diavolo ma senza aria condizionata.

In quel forno mezzo spento una peristalsi incancrenita spingeva i minuti ad inesorabili compromessi con la dignità, così ad ogni istante le facce smagrivano immarronendosi come vecchi papiri rattrappiti dalle sfere di eoni emesse dal tempo eterno e senza pietà; era solo la noia, era solo il clima, era solo la vita che passavano planando attraverso le finestre fino a sfiorarci un braccio ma senza davvero mai toccarci, a toccarci davvero c'erano già le ipocrisie della povertà e lo scandire ritmato dei tamburi alla radio che passava Nina Simone come un vecchio rosario fatto d'ossa.
E il sudore.
Il sudore era reale quanto il più pesante degli schiaffi e colava giù fino al cuore, penetrava attraverso la pelle fino a raggiungere il fegato dell'anima e straziava scaldando i brandelli meticci e bastardi che ancora vi trovava conservati all'interno come tesori di antiche scorrerie e liquori distillati di risate.
Qualcuno aveva appeso un fallo di gomma verde ad una parete.
Sembrava il west in un vecchio film di terzo ordine con falli finti al posto delle pistole.
Stavo lì a chiedermi che fine avesse fatto la parte migliore di noi e quale importanza potesse avere, in fondo, (la gente dimentica sempre più in fretta!) se ci era stata rapinata dall'infanzia, dall'indifferenza o dalla nostalgica malinconia della felicità effimera di emozioni sintetiche e plastiche da consumo...Stavo lì e il caldo ci avvolse tutti con le sue lunghe dita di ghiaccio implacabili per l'anima facendoci sudare le supporazioni delle nostre cicatrici; gli spifferi entravano come intrusi non richiesti dalla porta principale. Il Cipolla mormorò qualcosa sul vago del fatto che col tempo atmosferico non si capiva più niente.
Rise. Rise ad un volume isterico ed allegro, poi strappò il fallo finto dalla parete gettandolo nel cestino ai miei piedi e se ne andò per la sua strada agitando un dito medio da quella sua minaccia troppo grossa.

La raggiunsi.
Finalmente la raggiunsi e il tempo...
Il tempo...

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