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Il tempo migliore della nostra vita

Romanzo

Antonio Scurati
Bompiani

Recensione di Maurizio Soldini
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Pubblicato il 07/08/2015 12:00:00

 

Quando un romanzo riesce a toccare le corde del sentimento anche attraverso l’intelligenza di quello che dice tra le righe, significa che ha colto nel segno e che è opera letteraria destinata a rimanere nel tempo negli annali della letteratura. Oggi siamo abituati a vedere romanzi e opere di poesia messi in vetrina per pochissimo tempo. Poi prevalgono ragioni commerciali e, chiodo scaccia chiodo, il libro appena uscito prende il posto di quello uscito poco prima, col rischio che il libro uscito in libreria da pochi mesi sia già nel dimenticatoio, perché nessuno lo vede, lo sente, forse neppure lo legge più, ma soprattutto non se ne parla. Un bel romanzo come questo di Antonio Scurati, Il tempo migliore della nostra vita, non merita certamente di essere lasciato nel dimenticatoio. Piuttosto merita di essere letto e forse anche riletto più volte, come si fa per i grandi romanzi, perché se ne possano cogliere le sfaccettature e le sfumature più diverse. Resta il fatto che, comunque, romanzi come questo non possono essere non letti o passare inosservati.

Antonio Scurati è autore ormai consolidato e affermato, riconosciuto e riconoscibile per la sua poetica, che lo vuole tra i protagonisti del romanzo scritto a cavallo di finzione letteraria e documentazione storica, con un incredibile gancio alla realtà. Certamente questa non è una novità, dal momento che il romanzo ha avuto in passato i suoi fasti come romanzo storico, ma già nell’Ottocento ci si poneva il problema dell’assenza degli umili nelle storie romanzate, della latitanza delle persone normali nel movimento della storia. Esempio emblematico della nostra storia letteraria è quello dei Promessi Sposi, i cui protagonisti, Lucia e Renzo, sono due popolani, che se non fosse stato per Manzoni, sarebbero rimasti all’ombra dei protagonisti storici, che nel romanzo manzoniano diventano invece personaggi di secondo piano. Ma Lucia e Renzo come molti altri personaggi del romanzo sono frutto della fantasia e dell’immaginazione dell’autore. Il Novecento, nella strenua ricerca di un canone, ha visto affacciarsi alla ribalta dei gusti di autori e lettori, a lato e in deroga alle avanguardie e agli sperimentalismi, il realismo, di marca soprattutto social-politico-culturale e pertanto su una linea hegelo-marxista, a seguito dell’oggettivismo naturalistico del verismo, e quindi nella seconda metà del Secolo il neorealismo, fino agli ultimi decenni del XX Secolo e negli anni del nuovo Secolo, che stiamo vivendo, quando ha preso il sopravvento in alcune scuole di pensiero di teoria della letteratura un impianto del romanzo in cui la Storia e la storia di persone comuni realmente esistite si embricano in una dimensione di realismo, che riguarda non soltanto i personaggi storici, ma riguarda anche le persone comuni, per le quali non si può più dire che ogni riferimento a fatti e a persone è puramente casuale, perché non lo è, in quanto le persone di cui si narrano le gesta sono realmente esistite. Un canovaccio della narrazione che si muove tra un piano di genere saggistico e un piano narrativo vero e proprio. Per quanto lo scrittore si prenda la briga di volere e potere romanzare la storia da lui narrata, che rimane comunque una storia letteraria. Al romanzo contribuisce così da una parte la Storia, col suo metodo che rientra nell’alveo di un’epistemologia scientifica e oggettiva, che necessita di documentazione e di rigore, dall’altro vi contribuisce una storia non epistemica, ma basata sulla doxa, e per questo lo scrittore può rifarsi a documentazione di tipo giornalistica o basata anche sul sentito dire, senza nessuna velleità di verità oggettiva. Queste opinioni, lecite nel narrare la storia di persone comuni, ma realmente vissute, vengono quindi trasfigurate nella verità letteraria, che è l’opinione dell’autore, suffragata anche da una lecita realtà, in ambito letterario, a livello metodologico e linguistico, che è quella dell’immaginazione e della fantasia. 

Ne Il tempo migliore della nostra vita, Scurati intreccia così un racconto, attraverso la sua poetica caratterizzata, come ho detto, da una verità propria di persone comuni (e realmente esistite) assemblata con la verità storica, di vicende avvenute in un periodo di alcuni decenni del Novecento, dove si narra l’incontro, in qualche modo parallelo, di due famiglie, quella dell’autore (Scurati e Ferrieri), di persone cosiddette normali, di persone comuni, che non entrerebbero mai nei libri di Storia, se non fosse per una decisione dell’autore, con la storia e le vicende di famiglia di un personaggio entrato invece di diritto nella Storia, quale è Leone Ginzburg.

Il romanzo di Scurati si apre con un “no” alla Storia, detto da un personaggio, meglio una persona, che ha fatto la Storia. Leone Ginzburg è stato partigiano e antifascista, che piuttosto che giurare fedeltà al fascismo, si precluse una carriera universitaria che si profilava più che brillante. Con il suo "no" si precluse anche la possibilità di vivere.

Leone Ginzburg fu, come sappiamo, eminente intellettuale, letterato, slavista, fondatore della Einaudi. Scurati ci presenta la storia di questo uomo e della sua famiglia, da cui emerge la figura di un altro personaggio storicizzato quale è sua moglie, Natalia Ginzburg, figlia dell’istologo professor Giuseppe Levi, maestro della Levi Montalcini, tutti entrati nella Storia con la S maiuscola. I fatti si svolgono nella temperie di un momento epocale, quale quello del ventennio fascista, fino ad arrivare agli anni del dopoguerra, che noi più giovani, compreso l’autore, non abbiamo vissuto e che la letteratura invece ci può aiutare a rivivere intensamente ed emotivamente, al di là dei libri di storia, che ci danno informazioni scientifiche su dati di fatto, senza la trasfigurazione ermeneutica della letteratura, che questi fatti riesce invece a rendere nella complessità di vissuti umani e non solo scientifici che rendono la vita, la vita personale, in qualche modo diversa e perfino superiore alla Storia. Perché possiamo continuare ad avere cura di una memoria che in qualche modo ci appartiene. Per chi, come me, fa parte delle generazioni nate a ridosso del dopoguerra, a cavallo degli anni Cinquanta e Sessanta, va detto che nella nostra giovinezza eravamo travolti da un'ampia letteratura, che riguardava gli anni della resistenza e giù di lì, così come l'avevano vissuta e raccontata gli scrittori del calibro di Fenoglio, Pavese (che pure entra nella narrazione di Scurati), Vittorini, Pasolini, Carlo Levi e numerosi altri autori che non cito solo per brevità. Con questo romanzo di Scurati, oltre a noi altri, anche i giovani di oggi hanno nuovamente l’opportunità di vedere ripresi quei discorsi sulle vicende della Resistenza e dintorni, ché dagli anni Ottanta e Novanta non se ne parlava poi più di tanto, per il fatto che ebbero un declino a causa di una overdose di letteratura sulla Resistenza, che sembrava non avesse più niente da dire dopo avere raccontato in lungo e in largo quelle vicende storiche in numerosi  racconti e romanzi. Antonio Scurati col suo romanzo dà oggi un nuovo impulso a quel tipo di letteratura, certamente con stilemi differenti, e con una visione teorica della letteratura diversa da allora. Infatti Scurati non cavalca più il neo-realismo o giù di lì, come avevano fatto quegli autori che ci raccontarono quelle storie "quasi in diretta", facendo comunque di quelle storie alta letteratura, ma lo fa soprattutto dal punto di vista che è quello di una trasfigurazione veristico-realistica della letteratura, che diventa però di fondo personalista, nella misura in cui vi è un passaggio da un background culturale di tipo hegelo-marxista a una dimensione, mi si passi il termine, di tipo kierkegaardiana. Prende il sopravvento la vita, l’esistenza delle persone, di tutte le persone, più o meno note, storicizzate o meno, come Leone Ginzburg e sua moglie Natalia da una parte, e dall’altra le persone comuni nate in quegli stessi anni e vissute sotto il fascismo e durante la Seconda guerra mondiale come Antonio e Peppino, Ida e Angela, che sono i nonni dell’autore.

Il filo rosso della narrazione di questo romanzo è la storia reale di Leone Ginzburg dal giorno della sua uscita volontaria dall’università, con il “no” al fascismo, fino a quello in cui viene ucciso nel carcere romano di Regina Coeli. Attraverso le innumerevoli vicende di lui e della sua famiglia, che riguardano le dimensione non solo sociale e politica, ma anche familiare e personale, che implica la considerazione di tutti gli eventi che in qualche modo accomunano tutti gli esseri umani, comprese le persone comuni, come nascite, morti, figli, libri, luoghi, case abitate o lasciate perché distrutte dai bombardamenti, e così via. Le stesse vicende che riguardano nascite, morti, figli, libri, luoghi, case abitate o lasciate perché distrutte dai bombardamenti, e così via, Scurati le narra in parallelo raccontando la vita privata della sua famiglia, dei suoi nonni, del padre, della madre e di chi era con loro a dividere la vita di ogni giorno. In qualche modo, volenti o nolenti, le storie, per quanto parallele, si incontrano, convergendo in un punto che assimila tutti gli esseri umani alla loro identità antropologica di persone, con una propria singolarità, peculiarità, irripetibilità e dignità, oltre a quella relazionalità di fondo, che si nutre di libertà, non sempre rispettata da chi dovrebbe favorirla, e di responsabilità, che ognuno dovrebbe dimostrare di avere, prerogative tutte queste che accomunano tutti gli uomini, a prescindere dal fatto che la storia sia scritta con o senza la s maiuscola. Il pregio dell'opera di Scurati, oltre che letterario, è allora anche culturale, storico e sociale. L’autore ritiene, infatti, che tutti gli uomini abbiano la medesima importanza, perché nella storia, alla fine, si è ugualmente importanti per la dignità che ci deve contraddistinguere in quanto siamo esseri umani, persone, e poiché in quanto tali siamo liberi e responsabili nel far crescere relazionandoci la comunità in cui viviamo. A   prescindere da quello che abbiamo, perché la nostra essenza non dipende dall'avere o non avere una qualche qualità, dall'essere o non essere illustri o comuni, ma dal fatto che siamo, per il solo fatto di essere, ecco la caratteristica ontologica, essere uomini, persone. Così come non dipende la nostra dignità dai luoghi dove siamo nati e cresciuti e dove avvengono le vicende e gli eventi che ci riguardano, siano questi i luoghi dei “miserabili vicoli” di Napoli, siano le strade dei sobborghi rurali di Milano, siano le strade della Torino dove risiedono e lavorano gli intellettuali, siano gli umili paesi del sud e dell’Abruzzo come Pizzoli, dove venne confinato il dissidente al fascismo Ginzburg. E che si tratti di uomini illustri ed esemplari o meno, di intellettuali, o eroi della resistenza, come nel caso di Leone Ginzburg, o “di umili, di operai e contadini, artisti mancati e madri coraggiose”, non ha importanza, perché tutti hanno una “profonda comunanza”. Perché la Storia di Hegel e la storia di Kierkegaard alla fine si ritrovano strettamente legate, e non è vero che prevalga l’hegeliana totalizzante astuzia della storia, perché alla fine non vi è razionalità totalitaria che tenga, ma a prevalere è soltanto il senso della vita. Perché alla fine nulla ha senso e importanza se non l’esistenza, la vita, e non la vita sub specie totius, ma la vita di ogni singola persona. E possiamo ben affermare, senza pericolo di essere smentiti, che questo romanzo di Antonio Scurati si profila nell’orizzonte improntato all’esistenzialismo della Lebensphilosophie.

Va detto, riprendendo quanto affermato all’inizio, che la lettura di questo romanzo, scritto con passione e sentimento, che trasudano da ogni parola, da ogni frase e da ogni capitolo, oltre che essere stato scritto con acribia storica in attesa ai fatti narrati, riesce davvero a commuovere, con punte di rara commozione empatica come quando si ha modo di leggere la lettera scritta dal carcere da Leone a Natalia solo qualche ora prima di morire. E questo significa molto, abituati come siamo, ormai da qualche tempo a questa parte, a leggere per lo più descrizioni e descrizioni di descrizioni. Sembra che spesso lo scrittore non debba e non voglia prendere posizione e stia in una posizione di neutralità rispetto alla presunta oggettività del racconto. La formazione cede sovente il passo all’informazione, anche in letteratura. E il sentimento sembra che non debba esserci, perché tutto deve fare riferimento alla oggettività del testo sostantivato.  Pare che per stare nel politically correct anche a livello letterario, oltre che nel mondo delle scienze sperimentali, non si debba essere aderenti se non a un mondo di cose, di fatti e di individui (non persone), tralasciando sentimenti e aggettivazioni. Scurati, pur non tralasciando attente descrizioni di fatti e cose, e spesso affidandosi a un repertorio di documenti, lettere e quant’altro possa essere preso come un dato di fatto, ci parla soprattutto di persone, delle qualità aggettivate dei sentimenti e dei vissuti e delle relazioni dei personaggi, di tutti i personaggi, che, ognuno con le sue peculiarità e caratteristiche del proprio carattere personale, non può non commuoverci. Siano persone illustri o comuni. Per Adorno "le forme dell'arte registrano la storia degli uomini con più esattezza dei documenti". E Scurati nello scrivere questo romanzo sembra proprio che si sia voluto attenere a quanto sostenuto dal filosofo della Scuola di Francoforte. Scurati, infatti, nel volere comunque rievocare la Storia, non lo fa soltanto con la volontà di mettere al primo posto la Storia stessa, ma ci vuole parlare di quelle persone, che, attraverso i loro vissuti, hanno fatto la Storia e non sono state soggiogate dalla razionalità e dall’astuzia di questa. Per Scurati, in primis, vi è la persona, a cominciare dalla presenza assidua della persona dell’autore stesso, in una dimensione performativa della letteratura dove vita e racconto si integrano a perfezione. Ecco perché questo romanzo oltre che essere di alta letteratura, per il modo di scrittura e di stile, semplici, leggeri e diretti, come Calvino raccomandava dalla sue lezioni americane, è un romanzo di elevato impatto morale e civile. Non per niente la civiltà e la morale si fanno forti dell’adagio del filosofo Alasdair MacIntyre, che ha ripreso il concetto di virtù morale nel Novecento e che ha sostenuto e sostiene che “l’educazione morale è un’educazione sentimentale”, che viaggia anche, se non soprattutto, come ha ribadito anche un’altra famosa filosofa delle virtù, Martha Nussbaum, dentro il linguaggio della letteratura. E Antonio Scurati con Il tempo migliore della nostra vita ha fornito l’aspetto pratico a questi assunti teorici. Perché pensandoci bene, tutto il romanzo, vuole essere proprio un’introduzione alla nostra educazione morale attraverso un’educazione sentimentale, intesa a cercare una risposta a uno degli assunti principali della morale, nella fattispecie quella aristotelica, contrariamente a quella kantiana, della ricerca della felicità, della vita buona e delle virtù. Per fare questo Scurati gira intorno alla ricerca di quale sia, allora, il tempo migliore della nostra vita, la nostra felicità. Nelle battute finali del romanzo, viene infatti riportato un passaggio del racconto Inverno in Abruzzo di Natalia Ginzburg, scritto poco dopo la morte del marito, Leone, dove lei dice: “Mio marito morì a Roma nelle carceri di Regina Coeli, pochi mesi dopo che avevamo lasciato il paese. Davanti all'orrore della sua morte solitaria, davanti alle angosciose alternative che precedettero la sua morte, io mi chiedo se questo è accaduto a noi, a noi che compravamo gli aranci da Girò e andavamo a passeggio nella neve. Allora io avevo fede in un avvenire facile e lieto, ricco di desideri appagati, di esperienze e di comuni imprese. Ma era quello il tempo migliore della mia vita e solo adesso che m’è sfuggito per sempre, solo adesso lo so”. Quell’avvenire facile e lieto è proprio quello che abbiamo vissuto noi delle generazioni nate nel dopoguerra, in tempo di pace. Noi che spesso viviamo anche, per dirla con Heidegger, il grigiore esistenziale dell’inautenticità rispetto a eroi come Ginzburg o ai nostri avi, come quelli di Scurati, che, pure, ci hanno preceduto e ci hanno, insieme ai grandi, mutatis mutandis, spianato in qualche modo la strada con la dedizione “dell’affanno quotidiano, delle opere e dei giorni” verso quello che sarebbe dovuto essere ed è un avvenire di pace e di tranquillità e di desideri appagati. Ma quale è dunque e in che consiste questa felicità? Quale il tempo migliore della nostra vita? Quale l’autenticità? Nell’essere eroi? Nell'essere famosi e illustri? Nell'essere personaggi storici anziché persone comuni? La risposta sembra poterla cogliere nel passaggio del racconto di Natalia Ginzburg riportato prima. Persone illustri e persone comuni non hanno differenze sostanziali e la felicità è l’aspirazione al senso che dobbiamo cercare di dare all’esistenza, alla nostra vita. Sembrerebbe che Scurati si voglia rifare, pur non dicendolo esplicitamente, anche ad una lirica di Antonio Clemente, - poi divenuto principe Antonio De Curtis, il grande Totò, amico intimo del nonno Peppino, che pure fa parte della storia di questo romanzo, - la lirica ’A livella, secondo la quale tutti gli uomini sono uguali perché livellati, messi in pari, davanti alla morte, che non guarda in faccia se una persona è nobile, comune o miserabile. Alla fine, infatti, Scurati sembra darci la chiave per superare l’aporia: “l'unica epica che ci è rimasta è l’epica primitiva cui la vita privata ancora si attiene. E, poi, la sola storia che conti davvero, la sola veramente traumatica, per noi come loro, è quella cui dobbiamo la nostra nascita. E, poi, per tutti quanti si tratta pur sempre di vivere con l'amico estinto, e l'amico estinto con noi, si chiami esso Leone, Natalia, Antonio, Ida, Angela o Peppino”.

Nella prefazione scritta durante il confino a Pizzoli a Guerra e pace di Tolstòj  Leone Ginzburg dice che per lo scrittore russo ci sono personaggi storici, che vivono in tempo di guerra, e personaggi umani, che vivono in tempo di pace. “Certo, anche la pace presenta i suoi rischi – abbiamo visto pure questo – anche la felicità tende le sue trappole: ‘La felicità può perfino far distogliere lo sguardo di un giusto da un uomo ucciso ingiustamente’. Ciò nonostante, secondo Ginzburg, Tolstòj, pur avendo combattuto da giovane nel memorabile assedio di Sebastopoli e poi raccontato in modo leggendario la guerra, riservava le proprie simpatie al mondo umano, alla pace.  Tolstòj prendeva partito per la sua ‘felicità esplicitamente terrena’. È lo stesso partito di Leone Ginzburg, indubbiamente”. 

E allora, concludendo il romanzo, Scurati dice: “Teniamoci, perciò, stretto il nostro avvenire facile e lieto. Prendiamocene cura. Non distogliamo lo sguardo da un uomo ucciso ingiustamente.

E questo è tutto. Quando la felicità dei protagonisti è raggiunta, per grande o piccolo che sia, il libro finisce”. 

 


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