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Incerto confine di Stefano Vitale e Albertina Bollati

Argomento: Poesia

di Alfredo Rienzi
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Pubblicato il 25/01/2020 18:29:28

Incerto confine.

Albertina Bollati, Illustrazioni. Stefano Vitale, Poesie.

Edizioni disegnodiverso, 2019.

 

 

La poesia di Stefano Vitale si è sempre mossa su una linea di confine: quella dove l’occasione poetica che possiamo chiamare sensoriale o del mondo incontra la volontà poietica, ri-creativa dell’autore e dove, per opposto vettore, il pensiero, con la sua necessità di com-prendere, di collocarsi, porta il poeta a scandagliare gli orizzonti, i moti, i fatti che gli si offrono. Un cogito ergo video, dove non basta più, astrattamente essere.

Nell’ultima prova di scrittura poetica, dal titolo chirurgico: Incerto confine, Stefano Vitale aggiunge un significativo ampliamento del concetto di limes.

È da dire, innanzitutto, che il volume è una preziosa edizione pubblicata lo scorso novembre 2019 per le Edizioni disegnodiverso curata di Paola Gribaudo che unisce i versi di Vitale ai disegni di Albertina Bollati (in senso anche materico, dove alcuni versi si ripresentano, come aeree didascalie, nel corpo dell’illustrato). Simbiosi già collaudata, con fortunato esito, per un precedente volume di versi del poeta, Angeli, del 2014, ma che qui sembra ancora più stretta e paritetica, come se parole e versi fossero sorti contemporaneamente attorno all’idea che sottende il volume.

Il confine sul quale si muove l’opera è certamente simbolico e polisemico, come nelle corde di Vitale (tra verità e pensiero, tra ombra e luce, tra corpo e il suo riflesso, tra un tempo e un altro tempo ecc.), ma assume qui anche una forte connotazione realistica e concreta, che si rivela fin dalla copertina, magnetica e lieve, dove un’esile figura umana sta aggrappata a un mare capovolto sopra un cielo sbiancato e stellato.

E già dai primi testi Chiudere i porti (p. 8) e Il linguaggio dei muri (p. 12) si fa chiaro il tema che, coraggiosamente, viene affrontato. I rispettivi incipit:

 

Chiudere i porti e lasciar riposare

le nere coscienze marce di rabbia

merce di scambio di triste rancore

mentre grasse risate dilagano

nelle sudice piazze deragliate ragioni

 

Non muore

il linguaggio dei muri

messaggi a distanza

di grafiti dispersi

tra coltelli e martelli

 

Perché “coraggiosamente”? Non certo per la valenza civile dei testi, per il nitore del proprio sentire (ancor prima che del proprio pensare), per i riflessi politici (che, per una distorta e degradata accezione, odorano di ruvidi termini quali divisivi, conflittuali, bellicosi). Questo aspetto può richiedere altri aggettivi, ma il coraggio di dire per un poeta, per un artista è essenzialmente altro, già che il semplice darsi all’arte, a una qualsiasi arte, elogio dell’In-utile, è gesto civile e politico. Il coraggio di dire di argomenti chiari e forti è essenzialmente, a mio modo di vedere, quello di lanciare la parola, «àncora/ che ci viene dal bene», senza deragliare, di condurre il verso sulla fune in equilibrio tra forma e contenuto. Per fortuna questo è capitato frequentemente ed è in virtù di questa capacità di timoniere che Stefano può permettersi di convocare nel dicibile ogni cosa, o almeno anche questa cosa. Esplorare l’impoetico, rendendone chiara voce, è grande merito, è strumento necessario per il poeta. Affrontare l’iper-poetico senza sfiorare la retorica lo è ancor di più. E l’intera raccolta ci dice questo, che l’Autore ha inserito nella sua poetica, ormai riconoscibile e consolidata, anche il tema civile (non è la prima volta, ma qui si fa titolo, emblema, copertina), inserendolo armonicamente, traducendolo, per poterne dare testimonianza, in esperienza di parola:

La chiave è nella Parola

Suono che resta accanto

Colore della pazienza

Distesa sul paesaggio delle ore

Passione e destino senza nome

(p.63).

 

Nei testi riconosciamo la cifra stilistica di Stefano Vitale, bilanciata tra fluidità e soste, diretta, ma riflessiva, attenta al ritmo nella sua libertà metrica. Alcuni testi a struttura anaforica danno al componimento una qualche valenza canora.

Si notano, in quanto a lessemi e figure, ricorrenti richiami al tempo: unitamente ad un certo numero di richiami negativi o di resa (di limite dell’umano) alcune presenze di bambini pare forniscano il controcanto, l’antidoto, l'alito di vento che spazza, in parte, le nuvole del dubbio e dell’impotenza della ragione. Quasi una figura semanticamente sorella di quella degli ubriachi saggi della penultima raccolta del poeta?

 

Alfredo Rienzi

gennaio 2020

 

 

CHIUDERE I PORTI

 

Chiudere i porti e lasciar riposare

le nere coscienze marce di rabbia

merce di scambio di stolto rancore

mentre grasse risate dilagano

nelle sudice piazze, deragliate ragioni.

 

Chiudere i porti e non dover incontrare

l’orrore di occhi naufraghi in mare

di corpi salvati piagati dal sole

stremati da guerre monete sonanti

del nostro silenzio di barbari stolti.

 

Chiudere i porti alla fuga smarrita

sul mare-sepolcro di cenere e sangue

le ombre dei morti sono gelate

scure radici senza più storia

deserto di muri e orecchie mozzate.

 

Chiudere i porti del mare che un tempo

fu Nostro, libera onda di luce

ora muro che cresce abisso di sale

specchio scheggiato dal pianto di  pietre

posate sul fondo del cielo d’estate.

 

 

ALFABETO MUTO

 

Cerchiamo la parola esatta, àncora

che ci viene dal bene

che ci afferri come un destino.

 

Cerchiamo la parola esatta, luce

nella piega delle labbra

nel gesto lieve delle dita.

 

Cerchiamo la parola esatta, argine

che ci renda lo splendore del silenzio

senza vergogna né rassegnazione.

 

Ma quel che abbiamo è

un alfabeto muto

passo senza cognizione

pieno d’errori

distrazioni, omissioni.

 

 

(NON C’E' OROLOGIO)

 

Non c’è orologio

che batta il tempo in modo esatto

avanzano le lancette seguendo

un ritmo dissonante

lontano dalla giusta cognizione

d’una palpabile certezza

il tempo è altro tempo, fuori dal calcolo

della presunta precisione,

passo sbilenco sull’orlo di un cornicione

sentiamo che qualcosa sfugge

e s’apre una ferita da dove sgorga

il sangue d’una domanda:

“sono io il mio tempo?”

 

 

 

 


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