Le voci di dentro, di Eduardo De Filippo (1948).
Alberto Saporito si presenta a casa dei suoi vicini, i Cimmaruta, insieme a suo fratello Carlo, accusando l’intera famiglia della morte dell’amico Aniello Amitrano. Alberto denuncia alla polizia l’atroce delitto di cui ritiene di poter fornire sicure prove: le lettere scambiate tra Amitrano e Matilda Cimmaruta, una camicia insanguinata ed una scarpa sarebbero state accuratamente nascoste dietro una vecchia credenza.
Improvvisamente rinsavito, Alberto si rende conto di aver sognato l’assassinio e di non essere neppure certo del suo sogno; tuttavia, sebbene ritiri la denuncia, uno ad uno i membri della famiglia Cimmaruta gli fanno visita, accusandosi reciprocamente del delitto.
Inserita nella Cantata dei giorni dispari, Le voci di dentro indaga la difficile, quasi impossibile, costruzione di un’autentica relazione fra gli esseri umani, pronti ad uccidere e tradire gli affetti più cari pur di salvare se stessi.
“Sono assai i morti, più i morti che i vivi”, dice Alberto Saporito a Pasquale Cimmaruta: morti fra i vivi, infatti, sono coloro che non prestano ascolto a quella scomoda “voce di dentro” che è la voce della coscienza. Il discorso interiore – “il dialogo silenzioso che l’anima svolge con se stessa” (Platone, Sofista) - è ciò su cui si fonda ogni discorso esteriore, ciò che rende possibile l’esistenza di una comunità umana, sembra voler dire, quasi platonicamente, Eduardo.
Il silenzio, allora, è l’altro protagonista della commedia, impersonato dall’enigmatico e stravagante Zì Michele, o’ sparavierze. Chiusosi in un mutismo irrevocabile, Zì Michele “non parla, perché non vuole parlare”, vive isolato in una sorta di palafitta di legno nel deposito di sedie dei fratelli Saporito e si esprime soltanto attraverso un particolarissimo codice segnaletico, ossia lanciando granate, botte e girandole, convinto che solo la "verde" morte, quando arriva, dia il via libera.
Una segreta fratellanza lega Zì Michele ad un personaggio uscito dalla penna di Calvino, il signor Palomar. Come o’ sparavierze, il signor Palomar, uomo taciturno di temperamento contemplativo, rivendica il primato dell’arte del tacere sull’arte del dire. “In un’epoca e in un paese in cui tutti si fanno in quattro per proclamare opinioni o giudizi, il signor Palomar ha preso l’abitudine di mordersi la lingua tre volte prima di fare qualsiasi affermazione” (Italo Calvino, Palomar).
Pur passando settimane e mesi interi senza proferire parola, Palomar però ci avverte: anche il tacere può essere una colpa in tempi di generale silenzio.
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MD
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