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Dea cacciatrice

di Alberto Rizzi
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Pubblicato il 27/05/2017 12:26:47

Li ho tenuti tutti.

Lo so, ci sono punti di vista differenti sulla faccenda del proprio passato, se sia possibile o inutile tentare di dimenticarlo, con tutto quel che ne consegue in fatto di teorie, corollari, percorsi da seguire.

Io lo sai, il passato l’ho sempre guardato in faccia; ho sempre guardato in faccia anche il presente, per la verità; il futuro no: come fai a guardare in faccia qualcosa che deve ancora essere? È stato così anche stavolta; e per il resto adesso tocca a te pensarci.

Ci sono cose che non ti ho detto; e non so se ho fatto male o bene, però adesso è il momento di parlarne. Volevo farlo più tardi, ma va bene lo stesso.

C’è un libro che mi è sempre piaciuto molto, ed è il Mahabharata; per la verità la cosa che mi piace di più, che penso sia più utile, ne è l’inizio. Quando il Principe Arjuna chiede a Krishna perché deve prender parte a questa guerra di famiglie imparentate fra loro – compresa la sua – e lui non sa, non vuole schierarsi, proprio perché è uno dei guerrieri più forti e con più forti legami di sangue. E il dio gli risponde: “Arjuna tu che cosa sei?” e lui risponde “un guerriero“E qual è il dovere di un guerriero?” lui risponde “combattere”, “Ecco allora tu combatti, non te ne deve importare niente se vinci o se perdi, se sei dalla parte giusta o se sei dalla parte sbagliata, meno che mai ti deve importare di quali saranno le conseguenze ultime delle tue azioni: perché a te non compete governare il mondo, a te compete soltanto, come ogni altra creatura, di fare al meglio delle tue capacità quello che ti è toccato in sorte di fare. Gli dei guideranno il mondo”.

C’è molto da discutere su queste frasi, per la verità non è che sia d’accordo su tutto: per cominciare, bisognerebbe capire cosa abbiano in mente questi dei per noi… Discuterne un po’… Però questa frase m’ha accompagnato nei momenti più importanti della mia vita, quasi sempre me la son trovata davanti, quando c’erano in ballo le scelte più difficili.

Avere avuto una vita tutto sommato facile come la mia, come la nostra, non significa che ad un certo punto uno non debba fare delle scelte, che la mettono in discussione perlomeno in qualcuno dei suoi aspetti fondamentali.

Sai che ho cominciato a sparare praticamente da bambina; a scuola stavo sempre con le altre, giocavo sempre con loro, con le bambole e tutto il resto, come qualsiasi bambina. Ma tutte le volte che si andava alle giostre, smaniavo solo per il tiro a segno; non c’erano santi, dovevo sparare; e se non sparavo, sapevo che sarei rimasta a guardare i palloncini che scoppiavano, i barattoli che venivano buttati giù dai piombini anche per delle mezz’ore.

E sai che andava a finire che mamma e papà mi accontentavano: poi a quell’età riuscivo a usare solo la pistola ad aria compressa, con tutte e due le manine che la tenevano come potevano. I risultati però c’erano, almeno contro i palloncini. Lo sai, ho ancora due peluche che vinsi allora e sai anche quanto mi sono sempre stati cari.

Poi in vacanza, quando con la compagnia si andava alle sale giochi, nessuno mi batteva a quei vecchi tiri a segno meccanici, che adesso fanno tanta tenerezza, al confronto con le play-station… Davvero, me li son sempre messi dietro tutti quanti, tutti i ragazzi della spiaggia, così che mi avevano soprannominata subito Calamity Jane.

E sai anche quanto mio padre mi spalleggiava; l’amore per le armi, la perizia nel tiro me l’ha messa senz’altro lui nel sangue, lui che si è sempre fatto un vanto dell’esser stato tiratore scelto in Nord-Africa; e che non gli pareva vero di avere una figlia da far crescere nella sua passione, lui che – come da manuale – avrebbe voluto come primo figlio un maschio.

Niente di strano che se la ridesse della grossa, quando portavo via le pistole giocattolo al mio fratellino, scatenando le sue inevitabili crisi di pianto, vero? Nulla di strano che mia madre lo rimbrottasse, rinfacciandogli – per fortuna senza una gran convinzione – in che diavolo di modo intendeva farmi crescere.

Dal tiro a segno dei baracconi a quello vero il passo fu breve; mi appassionai presto alla severità dell’aria compressa, e altrettanto presto me ne staccai: ero affascinata dalla reazione dell’arma da fuoco, dal rinculo che si deve saper gestire con tutto il corpo e che con un’arma pneumatica naturalmente non c’è; l’odore della polvere da sparo, anche, contrapposto all’asetticità dei padiglioni di tiro. Abbandonai senza troppi rimpianti quella disciplina, nella quale ero una promessa, come dimostrano i trofei che ben conosci.

Posso dire d’averle provate tutte: dall’automatica calibro 22, alla carabina di precisione, dalla 44 Magnum a tamburo che ti spacca il polso ogni volta che tiri il grilletto, al sovrapposto per il tiro al piattello. E anche lì con qualche bella soddisfazione.

Poi ci fu la mia prima battuta di caccia; continuo a ricordarla per le punzecchiature che ricevetti per tutta la mattinata dai miei compagni, visto che ero l’unica donna; e di cui quella che mi fece ridere di più fu “Chi ha legato quella ragazza al fucile?”, per via della mia statura. La disse un attempato signore, peraltro sempre cortese e attento verso di me e gli altri due giovani che, come me, erano alla loro prima esperienza. E alla quale ribattei tre ore dopo, abbattendo d’istinto un lepre col mio primo tiro.

Sarebbe stato una figura importante nella mia vita ma, a ben vedere, ci furono altre circostanze, altri segni che avrei in seguito dovuto considerare altrettanto importanti. Per esempio, il fatto che quasi sempre riuscissi a centrare la preda al primo colpo, mi spinse ad interessarmi, col tempo, alle armi a colpo singolo, a palla; fino a diventare l’unica donna, credo, ad andare a caccia con un fucile ad avancarica.

E a proposito di segni, con l’andar del tempo mi accorsi che i migliori risultati nella caccia li ottenevo – com’era stato quel giorno - in luna crescente, mentre i migliori risultati nel tiro in luna calante. Oppure come certi nomi – Francesco, prima di tutto – si accompagnassero alle occasioni importanti della mia vita: Francesco si chiamava il cacciatore di cui ti ho scritto appena sopra, un Francesco è tutt’ora il mio migliore amico; e un Francesco sai chi è stato…

All’epoca stavo con Guido, il mio primo “fidanzato serio”; devo ammettere che di uomini non ne capivo molto: non solo perché avevo diciassette anni, quando cominciò la nostra storia, ma perché il tiro prima e la caccia poi, assorbivano tutte le mie energie; per non parlare della scuola e di qualche amicizia femminile che ero comunque riuscita a mantenere, malgrado i miei hobby.

Per la verità col senno del poi, credo che, inconsciamente, attraverso quelle due discipline stessi costruendo il mio carattere, la mia persona, più che con qualsiasi altro interesse o frequentazione.

La disciplina interiore e fisica necessaria a conquistare la sicurezza nella posizione di tiro e in tutte quelle operazioni che devono essere svolte meccanicamente, durante una gara, senza perdere concentrazione. L’allenamento fisico che occorre per una battuta di caccia, se la fai seriamente; la concentrazione che bisogna mettere nel seguire e riconoscere le tracce, nel capire quando è il momento di sparare; questione di disciplina anche lì.

Tutto questo assorbiva il meglio delle mie energie, anche mentali, e non lasciava molto spazio a pensare ad altre cose. Conoscevo molto meglio la mentalità di un fagiano, quando a ventidue anni la scoperta di un suo tradimento – ultimo di una lunga serie, peraltro – a cinque mesi dal nostro matrimonio, mi colse del tutto impreparata. Vedi le coincidenze significative? Mi ritrovai come un animale abbattuto da un colpo inaspettato, perché tirato d’istinto…

Fu un periodo bruttissimo; mesi a macerarmi per prendermi tutte le colpe, quando l’unica colpa – come succede sempre in questi casi – è solo quello di aver concesso fiducia ad una persona che non la meritava, ignorando tanto certi indizi quanto i suggerimenti di chi mi stava davvero vicino. Di quel Francesco, per esempio. Pare quasi che dia più fastidio l’ammettere una colpa in fondo lieve come l’essersi fidati, che il male che ci si fa, accollandosi invece colpe gravi e inesistenti.

Col senno del poi è facile dire “avrei dovuto fare così”; consoliamoci dicendoci che, sempre col senno di poi, meglio che il castello di carte sia crollato allora che dopo. Superai la cosa immergendomi nel fare le cose che amavo di più, il lavoro nello studio notarile e la caccia. E facendo a me stessa il giuramento più stupido che si possa fare in queste circostanze: che mai e poi mai mi sarei più innamorata.

Passarono tre anni, tre anni e mezzo; il tempo preciso non lo ricordo e per la verità non ha molta importanza. Ricordo però la data: il 22 Aprile.

Gran bella giornata, piacevolmente calda; partiti due giorni prima del week-end per una partita di caccia in Friuli sui monti ai confini con l’Austria. Arrivati sul posto, il classico chalet di montagna, ci ritroviamo in dodici a scherzare e a passare il tempo in qualche passeggiata nei dintorni. C’erano stati piovaschi, nei tre o quattro giorni prima della battuta, ma pareva che tutto sarebbe andato per il meglio.

Invece feci una cosa un po’ stupida, allontanandomi dal gruppo durante la pausa del pranzo; non era la prima volta e di per sé non è che sia una cosa stupida, quando ci si mette d’accordo di ritrovarsi un’ora dopo o giù di lì. Purtroppo non si mette mai in conto il destino, sotto forma di un passo falso, tornando al punto d’incontro di fretta, perché si era lasciato passare troppo tempo a guardare i paesaggi, a studiare qualche orma.

Un passo falso che ti butta giù per un pendio e verso un canalone fitto d’alberi; che per fortuna ti frenano la caduta, ma ti rompono una gamba e una spalla; la qual cosa ti fa rimanere svenuta per diverse ore, finché si scatena un temporale: e fra i tuoni, la pioggia che ti bagna e il dolore torni in te, accorgendoti che sono quasi le cinque del pomeriggio; e naturalmente quasi trent’anni fa non era come adesso che ci sono i cellulari.

Quante volte ti ho raccontato questa storia? Così sai già come andò a finire: che sentii passare un paio di volte l’elicottero del soccorso, dal quale però non mi si poteva vedere; e che a un certo punto sentii una voce che chiedeva se c’era qualcuno: muovendomi più o meno inconsciamente, avevo dato un lamento e avevo fatto cadere un sasso.

Ironia della sorte aveva fatto sì che fossi rotolata per quel pendio fino ad una decina di metri dal sentiero che gli correva sotto; e che i miei compagni ci fossero passati e ripassati, di lì, ma mentre ero incosciente. E, naturalmente, che l’uomo che stava terminando la sua passeggiata serale, si chiamasse Francesco. Rimasi quasi tre settimane in ospedale, un po’ in Friuli e poi nella città dove abitiamo; lui venne una volta in ospedale, tre giorni dopo che ero stata ricoverata, per sapere come stavo. Tutte cose che sai.

La cosa che non sai, è quello che ci dicemmo tre mesi dopo che ci eravamo messi assieme – non so cosa mi spinse, già al momento di quella sua visita, a chiedergli l’indirizzo per scrivergli: io ho sempre sostenuto con tutti che era perché si chiamava Francesco, ma in cuor mio so che non è così; e che non fu nemmeno, perché già me ne stavo innamorando - ma non ho mai ritenuto di doverti dire: troppo diversi siamo, tu e io, perché abbia ritenuto utile farlo. Ma ora, visto il momento…

Tu sai che Francesco non cacciava, ma conosceva quei monti e le abitudini dei suoi abitatori – animali e piante; lui per la verità non faceva distinzione – meglio di chiunque altro. Io pensavo che non gli sarei piaciuta per questo, o almeno che sarebbero nate discussioni interminabili, nelle quali avrebbe cercato di farmi cambiare idea. Lo pensavo perché aveva certe convinzioni così radicate, che lo immaginavo impaziente di convertire gli altri.

Nulla di tutto questo: mi spiegò a fondo le sue ragioni, in un paio di occasioni nelle quali fui io, per la verità, ad affrontare l’argomento, ma alla fine mi disse: “Ma tu, cosa ti senti di essere? Ti senti questo impulso a cacciare così dentro di te, da considerarlo il fondamento della tua personalità?” E io gli risposi: “Sì, non è il mio mestiere; ma sì, per essere quello che sono, è davvero importante.”

E allora lui mi fa: “Ecco allora tu continua a cacciare: non te ne deve importare niente di quello che pensano gli altri – ascolta le loro ragioni come hai fatto con me; e se te lo chiedono, spiega le tue – ma non preoccuparti nemmeno delle conseguenze: perché è nell’ordine della Natura uccidere ed essere uccisi. La cosa fondamentale è che tu lo faccia per uno scopo – mangiare, usare una pelliccia – senza fingere che questo sia uno sport. Per il resto pensa solo a fare meglio che puoi quello che sai fare: che è poi quello che qualsiasi essere vivente dovrebbe sforzarsi di fare”.

È stato questo o, se preferisci, anche questo, a farmi capire che era la persona per me. Tutto il resto è venuto di conseguenza: il matrimonio, la nascita di Lorenza… E lui che se n’è andato troppo presto, dopo appena cinque anni che stavamo assieme. Ma quell’insegnamento è rimasto, come io sono rimasta quella di quand’ero piccola, che ti rubavo le pistole giocattolo.

Caro fratellino, tu sai come sto; sai quanto sia stata dura in questi due anni e mezzo, come io abbia lottato in tutti i modi: è una malattia che quasi mai perdona e anche se ci siamo attaccati tutti quanti a quel “quasi”, non è andata come si sarebbe voluto. E allora io mi ricordo di quello che ho imparato, che ho sempre saputo, cioè quella che sono: e allora, qual è la cosa che so fare meglio? Cacciare.

Così adesso vado a caccia: ho preso una delle vecchie pistole, di quelle che usavo per il tiro a segno, non certo l’arma che preferisco: non sarebbe giusto usarla per questo, tanto so che da quella distanza non sbaglierò il colpo. Vado a caccia del mio male: lo guarderò negli occhi e lo finirò. Finirò anche me? Non credo, lo sai come la penso; anche questo me lo insegnò Francesco: qualunque cosa accada, noi si continua.

Scommettiamo, fratellino?


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