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La luce di fronte

di Teresa Cassani
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Pubblicato il 27/04/2018 14:12:31

Il tavolo esce come una portantina dall’ingresso. Il camioncino bianco è stato parcheggiato sotto il platano.

Loretta sistema la poca argenteria dentro la scatola di cartone e pensa che ci sono tante  cose da trasportare anche se parte della mobilia rimarrà lì, nella casa di campagna. Ma un trasloco fa sempre scoprire la notevole quantità di oggetti che ingombrano ogni angolo di un’ abitazione. Amedea si preoccupa per la cristalleria.

-Odio comprare i bicchieri. Riempiono tutte le mensole e quando si rompono vanno in mille pezzi!-

- Non si romperà nulla, sta’ tranquilla mamma, li ho avvolti bene nella carta spessa – rassicura Loretta.

Il furgone bianco si muove, percorrendo lento il rettilineo che porta verso il paese. Amedea si asciuga la fronte con un lembo del grembiale verde. Poi si gira a guardare la facciata della casa. Un cordone le stringe il cuore : nel giallo dell’intonaco ci sono gli occhi di Ezio.

-Mamma, rientriamo per riposare un attimo?- propone Loretta. Pensa ai capelli in disordine, al bisogno che ha di risciacquarsi il viso.

Amedea è ferma sul vialetto interno a contemplare le piante di rosmarino. Sono così rigogliose e profumate. Il vento muove i rami del fico che sbattono contro la parete dell’autorimessa.

-Forse vuol piovere- afferma l’anziana, mentre la crocchia le si disfa leggera lambendole le spalle. In cielo infatti stanno addensandosi nubi. Grigie, come i suoi capelli.

-Il solito giugno ballerino – commenta Loretta sull’uscio – speriamo non venga la grandine.

- Per fortuna non abbiamo più da correre per sistemare i teloni – Amedea raccoglie la biancheria sospesa alla corda dei pali.

- Mi ricordo il verso delle galline faraone quando il cielo tuonava- Loretta non si decide ancora a rientrare in casa.

-Come ci teneva alla campagna tuo padre! – dice Amedea, tenendo la montagna di lenzuola sgualcite sotto il braccio.

Loretta osserva oltre l’autorimessa i ruderi della vecchia stalla con il portone semiaperto e la punta del catenaccio arrugginito che sporge . Guarda l’arco di ferro e la carrucola del vecchio pozzo, il raffio appoggiato al muretto che serviva per afferrare i secchi quando si staccavano dal gancio e si perdevano nel fondo. La catena oscilla sotto la spinta del vento. I rami del fico si piegano flessibili come archi tirati da invisibili corde . Loretta si sente nel vortice del sibilare. Le pare strano che i ricordi le facciano visita proprio in questo momento. Eppure ode il bisbiglio delle donne e poi le voci esili delle bambine che cantano durante la messa di Capodanno.

Quel giorno di tanti anni addietro la strada era ghiacciata e la madre aveva voluto raggiungere la chiesa a piedi. Due chilometri al passo della bambina. Poi si era messo a nevicare e il paesaggio sembrava una landa sperduta e loro, due pellegrine incerte sotto i fiocchi fini.

L’immagine della messa coincideva con le braccia dello zio, che uscivano dalla pianeta e formavano una croce, mentre diceva “Il Signore sia con voi !” . Lei guardava la lucina rossa nel tabernacolo di fronte e pensava che Gesù era lì dentro. I pochi fedeli stavano sulle sedie impagliate e si sentiva l’odore dell’incenso e del pavimento in cotto scuro su cui era stata passata la cera. Era una semplice stanza a pianterreno di una casa colonica adibita a cappella per la celebrazione eucaristica. Comoda a raggiungersi per il pugno di contadini che popolavano quella punta di strada.

Loretta, dopo la comunione, aveva pregato per il padre rimasto a letto con l’ influenza.

Al ritorno un automobilista aveva dato a mamma e figlia un passaggio. Grandissimo era sembrato l’abitacolo della sei e cinquanta e così confortevole in confronto alla strada, ai lastroni di ghiaccio che Loretta aveva percorso quasi zoppicando con i suoi scarponcini di cuoio alti e rigidi.

-Rientriamo, che c’è troppo vento – dice Amedea inseguendo i capi di biancheria caduti sul prato. Loretta adesso non si decide a varcare la soglia. La vista delle stanze spoglie le mette tristezza. I muri e gli angoli parlano dei tanti anni trascorsi nella sacra intimità. Riguarda i locali della stalla. Pensa al muggito dei buoi, alla mungitura, all’odore di letame. A quando i vicini venivano a comprare il latte con i loro secchielli di alluminio.

Si erano trasferiti in quell’angolo della Bassa per lavorare la terra e allevare le bestie. La zia Caterina era rientrata a Padova perché non sopportava il fango nel cortile della casa di campagna. Una casa grande, imponente e misteriosa. Attorno alla quale circolavano dicerie.

Il padre l’aveva presa senza prestare ascolto, per sistemarsi con la famiglia e dare inizio alla nuova vita. Gli eredi chiedevano un affitto modico. Ezio Stradiotto aveva attuato per gradi l’opera di restauro richiesto dallo stato di abbandono. Facciata fatiscente, impiantiti sbreccati, infissi rotti.

 

Loretta sente la voce della madre che dall’interno la chiama. Si decide a rientrare, rimanendo impalata nel corridoio lungo e largo. Osserva la porta a vetri sul fondo che fa trasparire una vegetazione fitta con il noce e il tiglio in primo piano. Nel corso del tempo il boschetto attorno all’abitazione si è infoltito e d’estate la macchia di verde fa scorgere a stento la casa. Adesso la prospettiva di dover lasciare l’oasi di frescura stringe come una morsa, anche se si sono sempre lamentati per quella terra dura, quella terra valliva che d’estate crepa di sete e d’inverno è fango. Buona per larghe di grano , barbabietole ed erba medica. Con scarsi guadagni.

Un fratello del padre ha occupato, lungo la stessa strada , una casa colonica in prossimità del ponte che dà su un incrocio stradale assai frequentato. Quella casa, appunto, in cui lo zio prete aveva voluto allestire la cappella. Pranzarono nella casa del ponte in occasione del battesimo della cugina, più giovane di qualche anno: un involto bianco tutto ricamato, due manine grinzose, una faccina da gatto appena nato, con gli occhi chiusi , la bava sul disegno delle labbra.

Lo zio prete sedeva a capotavola con la veste nera e lunga e la sua figura dominava enorme nella testa di Loretta e nella stanza semplice con il camino e la cucina economica. Durante i pellegrinaggi a S. Giovanni Rotondo i suoi rosari erano inframmezzati da episodi divertenti, raccontati ai fedeli, compreso quello della signorina che frequentava i lupanari e aveva equivocato…

 

-Chissà cosa direbbe tuo padre, se fosse qui … – sospira Amedea che si è seduta sulla punta del divano in velluto verde consunto.

-Sarebbe un colpo per lui lasciare questa casa – Loretta è entrata nel soggiorno e si guarda intorno quasi spaesata come se abbia perso la consueta intimità.

– Ti ricordi di quella volta in cui il signor Luigi gli fece vedere la radio? - Te lo ricordi ancora? – chiede la madre- ma tu, dovevi avere cinque o sei anni!

- Sì, ma non posso dimenticare l’espressione di mio padre alle prese con quel residuato bellico. Diceva “mettiamo via” con preoccupazione, come se la wermacht fosse ancora dietro la porta.

-E’ che si calava nelle situazioni- Amedea ha la voce rotta.

Loretta punta lo sguardo sulle macchie di umidità che ristagnano nei muri, appena al di sopra dello zoccolo. Una caratteristica tipica delle case vecchie, dice la madre pensando che l’appartamento in cui si trasferiranno è situato in una zona soleggiata, al primo piano di un condominio di recente costruzione, dove inconvenienti del genere sono praticamente assenti.

-Ma, secondo te, perché non si fece intimorire da ciò che si diceva su questa casa?- chiede Loretta.

Amedea si aggiusta la crocchia e abbandona con lentezza le braccia in grembo: -Perché la casa gli piaceva. Gli sembrava “da signori”. E lui aveva bisogno di sentirsi un po’ così.

Sì, una casa da signori.

Prima della guerra era un “paese” con un incredibile andirivieni di gente. Braccianti, sensali, maniscalchi, garzoni vi orbitavano intorno. Il signor Luigi raccontava con nostalgia della realtà agricola e padronale che l’aveva visto, svagato adolescente, seduto sotto i sambuchi o sotto la pianta di rose selvatiche rampicanti intorno al gelso centenario. Ezio nutriva nei riguardi del proprietario un sentimento di sincero affetto misto a riverenza, che Luigi coglieva e coltivava nell’animo con un piacere intenso. Perché gli rinnovava il ricordo di un mondo, alimentato dai flati della fantasia. Un mondo in cui aveva immaginato che i padroni venissero considerati amorevolmente come padri, capaci di provvedere ai bisogni dei sottoposti. Sosteneva che i contadini erano stati meglio alle dipendenze dei nobili, mentre la ricca e avida borghesia li aveva solo sfruttati. Raccontava di personaggi che percorrevano in carrozza le lunghe carraie dei latifondi, chiedendo con candida ingenuità ai servi se i campi, che si estendevano davanti ai loro occhi, erano stati coltivati a frumento o a cipolla.

Per Loretta, invece, il signor Luigi era poco più che un estraneo. La sua presenza anzi la intimidiva. Aveva un fare impositivo che la faceva sentire piccola e insignificante. Quei siate, quei dovete non le piacevano.

Ezio, al contrario, sembrava comprendere. Se Ezio poteva in qualche modo rappresentare il servo e Luigi il padrone, i ruoli avrebbero potuto benissimo confondersi perché Ezio chiedeva consigli a Luigi sulla conduzione del podere e Luigi faceva altrettanto. Si era instaurato tra i due un rapporto di fiducia reciproca e forse di complicità.

Loretta aveva ascoltato distrattamente una certa storia di fittavoli invidiosi che forse avevano tramato ai danni della famiglia. Ma allora era piccola e il ricordo di quelle mormorazioni si perdeva sempre più esile nella spirale dei cambiamenti.

-E questo lo lasciamo qua?- chiede la madre afferrando il Rocci da un ripiano della libreria.

- Com’è impolverato!- commenta Loretta – me lo ero quasi scordato. No, viene con me. E guarda amorevolmente il vocabolario di greco che il padre aveva comprato a metà prezzo a Bologna quando si era iscritta al ginnasio liceo classico. Un trasloco mette insieme i tasselli del passato.

Il vocabolario di greco. Una volta aveva dimenticato di portarlo per il compito in classe e il padre con la millecento aveva inseguito il pullman sotto la pioggia battente. Ventotto schiene disposte a punto interrogativo sui banchi, un sussurrare attutito, bigliettini furtivi e l’espressione forse volutamente altrove dell’insegnante.

-Menin aeide Tzeà … - ora rammenta appena questo e poco altro di quella lingua e cultura, accanto alle atmosfere sonnolente, alle mattinate uguali o diverse condivise nel volgere di un lustro mille volte rovesciato dalla clessidra del tempo. Come se quel lungo arco le abbia lasciato soltanto le tre parole con cui ha avuto inizio la poesia epica …

Tutto sommato, di quegli anni di studi non ha giornate nitide da raccontare, episodi articolati in sequenze concatenate, ma solo lampi isolati, immagini fisse, istantanee finite. Il tutto seguito da una schermata lunga e bianca, alla fine della quale campeggia quella che è stata, che continua ad essere, la vicenda primaria della sua esistenza.

 

Venezia, settembre 19…

Era pesantissima la valigia della madre, senza ruote, da portare a costo di una postura sbilanciata . Una valigia in pelle abbandonata per anni su un armadio trovava finalmente un utilizzo per quel viaggio.

Loretta dalla stazione aveva percorso le calli a piedi per attraversare a Rialto perché il Pontòn dell’Accademia era stato chiuso in occasione della Regata. Una domenica di sole scintillante, un rutilare di colori sul canal Grande, un clima di festa, di rievocazione storica. Le salesiane del sestriere Dorsoduro, erano state gentilissime. Suor Amabilia l’aveva accolta con grazia tra le studentesse che frequentavano Ca’ Foscari.

Le era stata assegnata una camera singola. La madre superiora non voleva che rimanesse isolata al tavolo del refettorio e aveva pregato le ragazze più sensibili di tenerle compagnia. Le avevano insegnato a raccogliere le briciole dalla tovaglia con una spazzola apposita, le avevano indicato la trafila da seguire per un abbonamento ai mezzi.

Aveva fatto le foto in una di quelle macchinette che rilasciano un ritratto da schedati da sbattere su una tessera color arancione.

La mattina le preparavano il cestino per il pranzo perché prendere il traghetto da fondazione Cini e rientrare o comunque la camminata dall’Archivio di Stato significava dispersione del tempo. Così a mezzogiorno consumava i panini seduta su qualche gradinata o presso l’imbarcadero e poi , nel pomeriggio, riprendeva le ricerche.

Doveva svolgere una tesi sul ruolo sociale rivestito nel corso dei secoli dai Pii Istituti, presenti a Venezia in numero cospicuo. Le piaceva l’impatto con i documenti antichi: registrazioni di ricoveri, e di degenze, trattamento degli assistiti offrivano uno spaccato di società, economia e religiosità proprie della Serenissima con le campagne intorno.

La città era meravigliosa a settembre. Loretta sapeva di quell’incanto. E guardava con gli occhi e la bocca spalancati i pittori sulla Riva degli Schiavoni che davano spettacolo come i colombi che becchettavano i chicchi di grano in piazza S. Marco e poi si involavano verso le balaustre della basilica o la facciata delle Procuratie .

Prima della cena si attardava lungo le calli saltellando sui gradini dei ponticelli, aspettandosi quasi che qualche gondoliere che passava così vicino le rivolgesse la parola.

Dopo una settimana, ritornava a casa. Era venerdì sera, pioveva, i vetri del traghetto appannati. In stazione si era fatta abbagliare dalle luci avvolte nell’umidità . Varie coppiette si sdilinquivano contro i pilastri e lei si chiedeva se mai un giorno le sarebbe capitato …

Prese posto in uno scompartimento dove c’era una ragazza soltanto. Buttò con fatica la valigia sulla reticella e poi si rannicchiò nell’angolo vicino al finestrino. Il dondolio del treno conciliava il sonno. Chiuse gli occhi, senza far caso a chi entrava e usciva dallo scompartimento.

Assecondava una serie di scossoni cercando di cambiare posizione , quando sentì una voce vicina: -Tanto non riesci a dormire!-

Si girò intimidita chiedendosi se qualcuno stesse parlando con lei. Si trovò davanti, a poca distanza dal suo, un viso simpatico, due occhi pungenti , una dentatura aperta in un sorriso espansivo.

-Tanto non riesci a dormire – ripeté il giovane alto che le sedeva accanto. -Sì – ammise Loretta – non riesco per via degli scossoni.

-O forse perché non hai sonno – fece lui sicuro. Loretta lo guardò. Che ne sapeva quello? Ma era vero: non aveva sonno.

-Dove stai andando?- continuò lui accattivante.

- Scendo a Ferrara –

- Io a Bologna – disse il giovane inarcando il dorso contro lo schienale Loretta si girò verso il finestrino per controllarsi allo specchio. I capelli lunghi, lisci, castani erano tenuti fermi da una fascia bianca che conferiva al viso un tratto di purezza. Gli occhi nocciola chiaro illuminavano una pelle in cui trasparivano vene azzurrine. La bocca, ben disegnata, era socchiusa e leggermente contratta. Si rigirò verso lo sconosciuto.

-Studi? –le chiese lui sorridente e con uno sguardo tenerissimo- che cosa studi?

-Lettere, lettere moderne – rispose Loretta col tono di chi esibisce le credenziali.

- Lettere… bah, - fece il tipo- meglio filosofia, meglio Hegel.

- Filosofia?! Quando si inizia a studiarla non si capisce niente, anche la terminologia risulta ostica…poi se si entra nell’ottica…

-E’ un ‘ottica ostica – giocò lui sull’ assonanza.

- Poi si comincia a capire un po’… ma quando io la studiavo al liceo mi sembrava che fosse giusto il pensiero di tutti i filosofi!

- Al liceo si studia storia della filosofia. Io invece faccio filosofia teoretica Loretta lo guardò spalancando gli occhi e stringendo le labbra. Sprofondò più piccola nel velluto del sedile.

-A volte i ragionamenti filosofici sono cervellotici. Stancano- asserì convinta.

- Raffinano la mente, invece. Dotano di senso razionale conseguente.

- I filosofi sono coloro che danno un’interpretazione al mondo, senza mai trovare una risoluzione ai problemi-

- Senza cambiarlo: Marx- il tono era leggermente severo.

- In ogni modo preferisco la storia e i poeti- fece Loretta.

- Beh, storia e filosofia sono connesse e i poeti possono avere qualcosa in comune con i filosofi anche se i filosofi sono cugini dei matematici.

-Che cosa?-

-La capacità di cogliere l’essenza delle cose-

-Prima viene Omero, poi Socrate- ribadì lei- la poesia è il linguaggio dell’anima, immediato, mentre la filosofia implica elucubrazioni mentali macchinose.

- Anche la filosofia ha contemplato l’idea dell’anima. Avrai sentito parlare di Platone e di Agostino. La filosofia approfondisce, aiuta a dare senso ai pensieri. E poi, tu, che fai lettere, dovresti aver presente gli stilnovisti che fecero della filosofia il fondamento della loro poesia. Loretta tacque. Forse quello aveva fatto solo un battuta… Ma certo che aveva sentito parlare di Platone e di Agostino! Però lei stava demolendo la filosofia senza motivo. Magari per spirito di contraddizione perché, invece, ne era rimasta affascinata .

Lui continuò a mostrare l’arcata superiore dei denti.

-Come ti chiami?- le chiese.

-Loretta -

-E io Vittorio, piacere – le strinse la mano - abbiamo in comune due tau. Potrebbe essere un segno propizio…- commentò sottovoce.

-Propizio per che cosa?- domandò Loretta. Lui non rispose. Si era messo a sfogliare un giornalino a fumetti.

-E’ lì la filosofia?- chiese lei con tono scherzoso. - Perché no? C’è la rappresentazione della realtà. Guarda, ci sono immagini, pensiero, parole…

- Allora la filosofia è in tutto…- lo bloccò Loretta

- Certo, se cerchi i modi di essere dell’essere. La filosofia è vita. I filosofi imparano dalla vita-

- Ma, preferisci la teoria di Platone sulla conoscenza o quella di Aristotele?

- Aristotele, perché è più legato all’esperienza sensibile. Per me la filosofia è anche ricerca di perfezione dell’esperienza.

-Questo, a dir la verità, mi ricorda Casanova in qualche modo-

-Uhm, può darsi , ma non deragliamo…

I discorsi erano proseguiti, naturali, semplici. Loretta gli disse dove abitava e che cosa faceva a Venezia, finché non scese a Ferrara per prendere la piccola carrozza sull’unico binario e lui rimase nel convoglio diretto a Bologna, subito ripartito dalla stazione e poi scomparso alla vista.

Dondolata dall’altro vagone aveva guardato il finestrino, abbagliante sul buio dei campi e delle strade. Le era rimasto in bocca e nelle narici il sapore di quello scompartimento, misto a un indefinibile odore di saponetta o di deodorante.

Aveva pensato al gioco dell’anello che si faceva alla scuola elementare. Un giorno la maestra si era sfilata la fede e aveva passato le sue mani giunte tra quelle dei bambini, per lasciarla all’alunno più timido. Agli altri aveva chiesto di indovinare. Il più timido si era sentito orgoglioso. Adesso Loretta provava una gioia strana e aveva la sensazione che l’anello d’oro fosse stato depositato tra le sue mani.

 

-Ci sei Loretta? – chiede Amedea – -Sì, mamma , stavo sognando un po’. Come è grande adesso questa stanza! –dice ruotando se stessa sui metri quadri del pavimento, sgombro dal tavolo e dalle sedie. - Da bambina facevo così- e inarca le braccia, pensando alla gonna rosa, alle scarpette di pelle lucida col cinturino che si chiudeva attorno alla caviglia.

 

Quando andava a Bologna non poteva evitare la tappa alla libreria Feltrinelli. Era la naturale sosta quasi imposta dallo sbocco di via Zamboni che confluisce, nella raggera delle altre strade, su piazza Ravegnana. La libreria Feltrinelli sapeva di stampa intellettuale, di stimolo alla critica proposto da quelle riviste di fondazione storica per le quali collaboravano le penne di maggiore spessore. Loretta vi andava volentieri e si intratteneva nelle aree in cui venivano allineate le nuove pubblicazioni. Cercava sempre qualcosa in cui ritrovare se stessa.

Era un giorno d’ottobre. I venditori di caldarroste già appostati dietro gli angoli, la bruma intorno alle due torri e l’odore tipico della stagione . In facoltà la relatrice le aveva dato suggerimenti per modificare le bozze della tesi: doveva ampliare sull’operato delle Congregazioni e dell’antico Ospedale di S. Maria della Pietà. E questo comportava un ritorno a Venezia. Con la musica di Mozart nelle orecchie, diffusa dagli stereo tra i vari settori che andavano dall’arte alla zoologia, Loretta alla Feltrinelli sfogliava un libro di Hesse quando sentì al fianco qualcuno.

-Ciao!- le disse Alzò lo sguardo e vide un soprabito scuro e il viso di Vittorio.

-Ciao! – rispose Loretta incredula. Lei indossava una giacchetta grigia e un paio di pantaloni in velluto nero , liscio.

-Non mi dire che sei ancora a Hesse – le fece lui. -Non ho letto tutti i suoi romanzi!- -“Narciso e Boccadoro”, però sì,…immagino-

-Mi è piaciuto molto!-

-Il mio preferito è “Il lupo nella steppa”- - C’è sempre il dualismo, la contrapposizione all’interno dell’anima-

-E la denuncia della società borghese. Ricordo che lessi “Il lupo nella steppa” mentre approfondivo lo studio di Franco Fortini-

- Ti interessa il dibattito politico-culturale?

-Come simpatizzante di Autonomia Operaia, direi proprio di sì-

Lo sguardo di Loretta lo perlustrò da capo a piedi, come in cerca di un segno che indicasse quell’appartenenza.

-Ho avuto qualche problema con le forze dell’ordine… Loretta raggelò. Il suo ambiente cattolico contadino le si stringeva intorno come un bozzolo. -Tranquilla! I frati domenicani mi hanno già assolto… tutte le sere vado a far compieta da loro.

-Vai dai domenicani! Che bello!-

- Non lancio le molotov in piazza-

-Voglio ben sperare-

-Vieni, facciamo un giro- le propose.

Uscirono. Lui alto, svettante. Lei incerta e sussultante. La selenite degli Asinelli lanciava piccoli barbagli. L’ odore di smog pungente prendeva alle narici. Una signora anziana a passi da lumaca fermava un autobus per attraversare via Rizzoli. Via Indipendenza fu breve da percorrere come la vita che si ha davanti. Gomitate di studenti, i poveri seduti a tendere i piattini, le voci alte e fioche delle ragazze, capannelli d’uomini che discutevano le quotazioni in borsa. Lui le cinse le spalle con il braccio. Era un tipico gesto dei compagni di scuola e di università , a cui lei si era sempre sottratta per timore che le mancassero di rispetto. Ma adesso sembrava la cosa più giusta e naturale. Le piaceva quel contatto caldo e rassicurante, quella protezione trasfusa. Le gambe e i piedi andavano sulle ruote . Il lungo portico con le sue vetrine allineate diventava un caleidoscopio di esagoni colorati che si fondevano l’uno nell’altro. Camminava per strada, con quel ragazzo alto al fianco per andare…

Dove andava non era importante. Era sulla strada del mondo, semplicemente. All’altezza di via Irnerio svoltarono per risalire la Montagnola. Nel parco il frastuono delle macchine e delle voci si attutiva. Le foglie gialle e rosse cadevano ai piedi degli alberi , alcune erano già marce e affondate nell’erba bagnata. I ricci delle castagne giacevano sul terreno e qualche bambino li faceva rotolare. C’era quella sonnolenza nell’aria e la sensazione di ferma che fa venir voglia di abbandono.

-Dove sei col pensiero?- le chiese

- In un angolo indefinito, direi. Un po’ incantata dallo spettacolo delle foglie, un po’ con la testa inghirlandata dalla tesi, un po’…

-Un po’?

-Un po’ penso a quest’incontro.- c’era tensione nel suo tono.

Lui le tolse il braccio dalle spalle e la guardò fisso.

-E la sentenza?-

- Pro, pro…-

- Ah, volevo ben dire! Un altro come me non lo troverai mai- lui fece un respiro lungo.

- Se è per questo, non esiste copia di nessuno- smorzò lei.

--Io sono un tipo speciale e, se starai con me, ti aiuterò a cogliere le connessioni tra i pensieri.

“Se starai con me”. Era una dichiarazione? Una proposta? Un’ipotesi? Loretta non sapeva. Le connessioni al momento erano bloccate. Suo padre quel giorno procedeva alla torchiatura dell’uva. L’odore di mosto compresso sotto le volte della cantina si era propagato attraverso le fessure delle porte fin dal primo mattino. Era salito lungo le scale e nel corridoio le aveva cinto la testa quando stava per uscire di casa. E adesso si faceva risentire. Un senso di ubriachezza, sì. E di sospensione nel vuoto. Vuoto di pensieri, di parole. Perché quel momento, tanto atteso, che forse avrebbe aperto la porta del centro, preludeva a un aggrumare di cose sconosciute. Che cosa sarebbe uscito dalla porta spalancata, che cosa sarebbe colato dal cielo in movimento di nubi? Loretta si sentì scossa da un brivido di freddo, subito spazzato via dal sole che filtrava cocente tra i rami nell’ora che si faceva più calda. Chi era lui? Con chi stava parlando? Lo conosceva appena. Solo perché le aveva rivolto la parola e l’aveva guardata con gli occhi tenerissimi che si riservano alle persone più care. Ma poteva anche essere finzione, passatempo, capriccio. Gioco. Adesso si erano staccati e camminavano lenti e silenziosi. Poi lui si fermò al centro del vialetto dove sostava un giapponese a scattare foto con la Canon.

-Quando torni a Venezia? – le chiese.

-A dicembre. Anche tu andrai?- la voce si era improvvisamente arrochita. -Sì, certo, devo piazzare qualche volume.

-Qualche volume?-

-Della Treccani- -

Fai il rappresentante?-

-Più o meno-

-Allora può darsi che ci si riveda-

-Non può darsi. Ci dobbiamo vedere- affermò convinto- dammi il tuo numero.

La mano bianca frugò automatica nella borsetta per cercare un ritaglio di carta. Mentre era intenta a scrivere lui fece scivolare lo sguardo sull’intera figura.

-Dovresti metterti qualcosa di colorato- le disse.

-Perché? A me piacciono i colori neutri. -Appunto! Non sono colori. Tu devi tirare fuori i colori che hai dentro.

-Per esempio?-

-Per esempio, il giallo-

-Il giallo? Per carità! E’ aggressivo, il colore dell’invidia.

-No, è il colore del sole, della gioia. Basta saper abbinare. Per esempio il bianco e il giallo ti dovrebbero piacere. Sono papalini.

Loretta fece una smorfia. Questo sindacare sul modo di vestire la disturbava.

-Non mi pare tu indossi colori così sgargianti- gli disse con spirito di rivalsa.

-Mi sono messo il primo cappotto che ho trovato. Però a me il nero sta bene. Gli stava bene infatti. Lo faceva elegante, raffinato.

-Se fosse per me indosserei il saio. Mi sembra futile curare tanto il vestiario- insistette lei. -

Sei troppo austera. Sei giovane, lo sai?

Ma perché non le parlava delle due tau? Perché non faceva qualche altra considerazione che sapesse di lettura, di conoscenza? Avrebbe voluto chiederglielo, ma temeva di condizionare la spontaneità . Voleva che parlasse liberamente che si esprimesse come gli veniva. Gli porse il foglietto con il numero. Cadde da una foglia qualcosa che lo sporcò.

-E’ la benedizione dell’uccellino! – esclamò lui divertito.

-Arriva il mio treno – annunciò inaspettata Loretta mentre gli angoli della bocca si piegavano.

-Beh? Te ne vai già?-

-Devo- gli disse con distacco- dare una mano in casa. Ma era vero solo per metà.

La telefonata arrivò dopo una settimana mentre Amedea stava entrando nel corridoio tenendo sotto braccio le fascine per accendere il fuoco. Il cane sguinzagliato le abbaiava dietro e il trillo del telefono giungeva confuso, fastidioso nella situazione.

-Sono Vittorio, c’è Loretta?

-Sì, adesso gliela chiamo-

-Pronto! Vittorio?

- Ciao. Ti piacciono le conferenze?

-Beh, dipende dall’argomento e anche dal relatore.

-Se ti dicessi che devo presentare un articolo? - Su che cosa? Dove? -Hegel. L’11 novembre al seminario dell’Alberzoni -

Filosofia?-

-Puoi venire anche tu. Sei di casa in facoltà. No?

-Se non ho altri impegni, vengo.

L’undici novembre era la festa del paese. Le caldarroste e il vin brulè distribuito alla popolazione. Suo padre lo serviva nei bicchieri alle mani della gente. Loretta gli disse che lo avrebbe aiutato solo durante la mattinata.

 

L’aula è occupata da tante persone. Loretta prende posto in terzultima fila. La prolusione della docente precede l’intervento. Eccolo. Concentrato, il plico dei fogli sul tavolo, lo sguardo che insegue un punto invisibile davanti. E parla dei modi e delle forme in cui lo spirito appare. E della coscienza che deve formarsi e deve sfidare la morte se vuole divenire autocoscienza. La sua figura campeggia nell’aula. Le file degli studenti intorno sono cordoni incolore. Alcuni prendono appunti.. Piace il riferimento a Hegel come “colui che ha saputo fendere le tenebre”. Il dibattito ha inizio e si fa acceso. Vittorio risponde, sottolinea, fa gli avanti e indietro citando Kant e Schopenhauer . E’ lanciato, ma non assertivo. Loretta beve le parole, i gesti, gli occhi liquidi, il movimento delle mani e delle palpebre di lui che è là, in fondo all’aula. L’animo di Loretta diventa fiamma per quella passione nelle parole che aprono mondi. Le piace il discorso sulla coscienza che si forma nel calvario per arrivare all’autocoscienza e lo pensa in termini psichici al di là della metafora servo-padrone. Non può aspettarlo quando ha finito. Il lievito che ha ricevuto è in espansione e lei ha bisogno di tempi in solitudine per governare ciò che sente. Riprende il treno e guarda i campi dal finestrino ma una luce troppo intensa le impedisce di vedere. E’ sulla scia dorata che la porta sempre più in alto e le dà le vertigini. In alto sempre più in alto. Poi ritorna in sé e sente un inspiegabile senso di vuoto. Adesso le pare di essersi appuntata solo su una tessera di un mosaico e che molto di quello che sta intorno le sfugga.

II

Alla fine dell’Ottocento le campagne della Bassa erano funestate dai briganti. Uomini senza scrupoli si introducevano nelle case e praticavano la tortura e l’omicidio per rubare il denaro nascosto sotto qualche mattonella del pavimento.

Dal limitare della carreggiata che conduceva tra i campi di barbabietole e di granoturco Loretta aveva più volte osservato un rudere di casa in lontananza in cui le finestre squarciate erano dei varchi che facevano vedere il cielo dall’altra parte. Un lato della vecchia abitazione si elevava annerito verso l’alto.

Molto tempo prima vi risiedeva Pompeo Torchi un uomo che possedeva risaie , distese di frumento e vigneti. Elegantissimo nel vestire, percorreva in lungo e in largo le strade della zona con un calessino e un cavallo dai finimenti sempre lucidi. Dicevano che era arrogante con i braccianti che lavoravano le sue terre e forse fu per questo che decisero di fargliela pagare. I banditi lo sorpresero di notte mentre dormiva da solo nel suo letto, lo appesero con le corde alle travi del soffitto, gli praticarono delle bruciature sul corpo con l’attizzatoio del camino e, siccome non riuscirono a sapere dove teneva i soldi, lo uccisero.

Loretta sapeva di questa storia e spesso guardava di lontano il rudere abbandonato nella sua desolazione. La paura dei ladri, che prendevano di mira le case di campagna, era molto diffusa tra i piccoli proprietari terrieri i quali munivano le finestre di grate, mettevano stanghe e lucchetti alle porte.

Telemaco Landi, bisnonno del signor Luigi, era nato in città da una famiglia che lavorava alla stazione di posta. Una volta adulto, siccome aveva il pallino degli affari e un po’ di cultura, era diventato il fattore dei signori Bonvicino. Aveva deciso poi di comprare della terra e di farvi costruire una casa. La voleva grande, imponente ed elegante. E perciò non aveva lesinato denaro perché i muri fossero alti e solidi, le travi in legno duro, consistente il tetto di copertura. Dalla città arrivarono carri di ghiaia, mattoni pieni, legname di pregio, paglia. Realizzò una dimora elegante con le stesse caratteristiche di quella dei Bonvicino. E la gente che passava per la strada l’ammirava e diceva tutt’intorno che quella sì che era una bella casa. Telemaco conosceva la storia di Pompeo Torchi e aveva fatto mettere grosse inferiate alle finestre.

I fatti che accaddero in quella abitazione andarono in questo modo. Così almeno li raccontò Amedea alla figlia, una volta che la grandine furiosa aveva danneggiato il vigneto. L’aveva appresa da Anita, una vecchia risaiola che conosceva tutte le traversie dei Landi.

Era una sera d’autunno inoltrato. Non faceva ancora buio . Pioveva. Gli usci erano stati sprangati. Il fuoco ardeva nel camino della sala da pranzo, i lumi a petrolio mandavano le loro piccole fiammelle. Sulle braci una graticola faceva cuocere delle tinche.

-Il vino è agli sgoccioli – affermò Telemaco già seduto al tavolo per cenare.

-Vado a prenderne un’altra bottiglia – Serena si avviò verso le scale della cantina dopo aver afferrato dal ripiano della madia il lume a petrolio. Stava scendendo quando udì dei rumori provenire dal basso, leggermente confusi dal ticchettio della pioggia. Ritornò immediatamente in sala da pranzo.

-Ho sentito dei rumori in cantina- disse Serena, pallidissima.

-Come?- Telemaco si girò verso di lei con la fronte aggrottata. Si alzò di scatto e afferrò un lungo coltello a serramanico che stava appoggiato sulla mensola del camino. Fece scattare la lama. La moglie lo seguì, tenendo in mano il lume a petrolio con la luce smorzata.

I rumori si erano fatti più decisi ed era chiaro che qualcuno si era introdotto in cantina attraverso una finestra che non aveva l’inferriata e stava cercando di aprire la porta interna forzando le cerniere del piccolo sportello in basso. . Con il cuore che andava a mille Telemaco e Serena si acquattarono dietro la porta e, quando finalmente l’ignoto figuro sporse la testa dentro per togliere il rampone, Telemaco lo colpì alla gola. Questi lanciò un urlo fortissimo e poi si accasciò sull’imboccatura rantolando. -Bisogna seppellirlo subito- disse Telemaco impietrito. Trascinarono il corpo per diversi metri lungo la carreggiata nello scuro e nella pioggia. Il disgraziato continuava a rantolare pronunciando maledizioni verso il suo uccisore, la sua famiglia, le generazioni a venire e tutti quelli che avrebbero abitato in quella casa. Scavarono in fretta e furia una buca sotto un olmo siberiano e ricoprirono il corpo con la terra. Telemaco pensava di aver agito come necessario, perché temeva di fare la fine di Pompeo Torchi. Si rammaricava soltanto di non aver messo le inferriate anche nelle finestre della cantina. Serena era enormemente spaventata. Sconvolta dal delitto che pesava come un macigno e dalle maledizioni della vittima.

In seguito le disgrazie funestarono le esistenze. Dei quattro figli di Telemaco si salvò solo Sostiene perché gli altri morirono al fronte. Le figlie di Sostiene si ammalarono di tubercolosi. Una fuggì con un filibustiere per il quale aveva perso la testa, si ritrovò povera e sola con una bambina da allevare e ritornò alla casa paterna . Sostiene per rimpinguare le sostanze si diede al commercio dei cavalli che gli fruttò abbastanza. Il figlio Ermete beneficiò dell’opera del padre e poté far studiare le femmine e i maschi, Luigi e Costante, in collegio. La casa tornò a splendere e le terre intorno fecero accorrere tanta manodopera. Ma Costante, fratello di Luigi, dilapidò parte del patrimonio al gioco e dovette sfuggire ai creditori, facendo perdere le tracce di sé. Durante la guerra le granate e le bombe danneggiarono la casa e poco mancò che Elvira, la madre, non perdesse la vita. Pochi anni dopo la fine del secondo conflitto mondiale, Ermete morì e Luigi, traumatizzato e impressionabile, decise di trasferirsi con la famiglia nella città d’origine dei Landi e di mettere in affitto la casa e il terreno.

 

Le giornate erano dedicate alla redazione della tesi nel periodo in cui il padre di Loretta, assieme ai fratelli, aveva comprato da poco la proprietà dei Landi. Improvvisamente, infatti, il signor Luigi era stato colto nel sonno da un infarto e la vedova si era risolta a vendere.

Fu proprio allora che Ezio cominciò ad accusare dei dolori alle ossa. All’inizio non capirono. Pensavano che fossero i reumatismi.

Una sera venne lo zio prete a far visita alla famiglia. Il cane abbaiò e poi si accucciò ai piedi della tonaca scodinzolando.

“Pace a questa casa e ai suoi abitanti” Quando fece ingresso nel corridoio, un sentimento di tranquillità colse tutti. Il fratello , tirando fuori dal sorriso i denti ingialliti e le gengive ritratte , gli chiese come stava mentre si accomodavano nella sala da pranzo. Amedea aveva interrotto il lavoro di stiratura e Loretta era già scesa per accogliere l’ospite. Ezio prese la China e il Vermouth e mise il cabaret d’argento con i bicchierini sul piano di marmo del tavolo. Don Pietro non voleva che si disturbassero e rifiutò ogni cosa. Amedea disse che al marito facevano male le ossa. Con tutta l’acqua che prendeva quando usciva sotto la pioggia per rigovernare le bestie… Don Pietro lo osservò preoccupato. Gli chiese di riguardarsi.

-Ma è solo un po’ d’artrite. Ho già fatto domanda per le cure termali- tranquillizzò Ezio.

-Avete comprato la casa. Siete più soddisfatti ora?- chiese don Pietro. Amedea gli rivelò che continuavano a udire rumori strani cui non riuscivano a dare spiegazioni. -

-Saranno le vibrazioni prodotte dai camion che passano lungo la strada oppure il vento-affermò Ezio che aveva il senso del razionale. Amedea leggermente tesa chiese al cognato di benedire le stanze. Il sacerdote venne accompagnato in tutti gli angoli dell’abitazione perché vi fosse distribuita l’acqua benedetta, venissero pronunciate le formule e le preghiere. Quando ebbe terminato, si risedette in soggiorno.

Disse loro che la moglie del dottor Caranti gli aveva telefonato, chiedendo un esorcismo per Ca’ Dario, il palazzo acquistato dall’imprenditore sul Canal Grande. La richiesta era stata suggerita dal vescovo.

-Allora andrai a Venezia, zio?- -Sì, vado il 9 dicembre dopo la festa dell’Immacolata. -

-Potrei venire con te? Devo andare a Venezia per le mie ricerche –domandò Loretta. -

Se ti fidi della mia guida, sì-

-Ma è vero ciò che si dice su quel palazzo?- chiese Amedea curiosa, sperando di avere dei particolari. Don Pietro accennò frettoloso alla maledizione, ai fatti inspiegabili che accadevano in quella casa.

 

La giornata era bella, scintillante di sole, nonostante la coltre di neve sui campi. La centoventisette verde correva sparata lungo l’autostrada. Dopo aver seguito il rosario, trasmesso da radio Maria, don Pietro aveva fatto ascoltare a Loretta alcune canzoni di De André. Lo scorrimento lungo la A 4 era veloce. Giunsero in mattinata a destinazione. La macchina fu parcheggiata. Loretta aveva chiesto allo zio di poter vedere il palazzo. Aveva nella mente le arcatelle e le trifore della facciata di Ca’ Dario. Suonarono il campanello di un ingresso laterale e venne ad accoglierli la signora. Gentile, il sorriso sulle labbra, i capelli neri raccolti in uno chignon, l’apprensione leggibile nello sguardo.

-Grazie, don Pietro- gli disse- non appena aprì la porta- Prego, accomodatevi.

Salirono un lungo scalone. Loretta teneva a tracolla una piccola borsa con l’essenziale per il suo soggiorno. Le numerose sale erano ampie. Fasci di luce entravano dalle finestre la cui forma a volta si ripeteva all’interno. Lampadari enormi erano appesi al soffitto e a ridosso dei muri stavano allineate sedie d’epoca. La signora Caranti offerse il thè e delle frolle alla vaniglia intavolando una breve conversazione di circostanza, il cui contenuto era già noto. Disse che il palazzo era stato edificato su un cimitero dei templari, che il sangue versato gridava ancora vendetta, che di notte sentiva dei trapestii sinistri e che qualcuno definiva il luogo nodo di energie negative. Loretta rimase in una sala mentre il sacerdote girava il palazzo con l’aspersorio in mano.

Il tempo le parve interminabile. Dai piani superiori provenivano rumori di mobili trascinati. Quando finalmente don Pietro rientrò nella sala era pallidissimo, come fosse reduce da una malattia o avesse compiuto uno sforzo enorme. Si raccolsero in preghiera per dieci minuti. La signora Caranti li invitò per il pranzo, ma il religioso rispose che aveva un impegno urgente in arcivescovado. Loretta fu felice di uscire. L’aria freschissima ossigenò la mente e i polmoni. L’espressione attonita dello zio le oscillava davanti.

Bordeggiando il canale percepì la vista di gondole e motoscafi, che solcavano le acque, come mezzi di fuga verso la libertà. Pensò a Vittorio. Il telefono era rimasto muto. Forse si sentiva offeso perché non lo aveva aspettato dopo la conferenza. Ma Loretta non aveva voluto tradire le proprie emozioni preferendo fuggire. Adesso sperava che il caso lo rimettesse sul cammino.

Le suore le avevano lasciato sul tavolo il piatto coperto. Francesca, una studentessa modello, le tenne compagnia. Una luce viva animava i suoi occhi dietro le piccole lenti che rendevano più grazioso il viso, incorniciato da una chioma nera e voluminosa . Le domandò a che punto fosse con la tesi e le disse che Gombrich concepiva la storia come racconto.

Nel pomeriggio Loretta visitò il palazzo Ducale dato che l’Archivio era chiuso. Siccome era l’ultima della fila, l’impiegato le abbonò il biglietto. Ma lei non riuscì a concentrarsi sui quadri dei pittori famosi come avrebbe voluto . Una strana inquietudine l’aveva presa. Uscì dal Palazzo con l’immagine della scala d’oro nelle pupille, passò davanti al Ponte dei Sospiri e puntò dritta verso l’imbarcadero. L’andirivieni dei passeggeri le metteva euforia come le acrobazie compiute dai battellieri. Era sempre un’attrattiva osservare il pelo dell’acqua, sudario dove pulsavano le emozioni. Lei vedeva Tadzio inseguito da Aschenbach e provava uno strano godimento nel rievocare l’atmosfera di morte aleggiante in quel libro.

Il caso lo aveva messo sul cammino. Vittorio quel giorno era a Venezia in compagnia di un amico, pittore e antiquario conosciuto a Parigi, che gestiva un piccolo negozio in prossimità di piazza S. Marco.

Loretta stava osservando un vecchio candelabro esposto in vetrina quando lo vide uscire. -Ciao!- Lui era immerso nei pensieri e impiegò qualche secondo per tornare in superficie. -Ciao- rispose con tono sordo e subito aggiunse con aria delusa-

Perché te ne sei andata? -Ti ho visto circondato da tante persone. Ho immaginato che avessi bisogno di tempi…

-Bah, mi sarei sbrigato subito- lui la interruppe. Lei rimase impalata nello stretto passaggio, seguendo la condensa dei fiati che svaporava. Non sapeva cosa dire. -Il mio traghetto parte tra un’ora. Potremmo fare un giro - propose Vittorio.

Attraversare piazza S. Marco dava l’impressione di possedere la città. Loretta si strinse nel montgomery beige perché tirava vento e faceva freddo. I colombi si levarono verso l’alto e il pontile dell’imbarcadero attirò come una calamita. Adesso la laguna significava sedimento di tante cose: ricordi, attese, gioia e speranza. Camminavano lungo il molo e guardavano l’orizzonte aperto nel mare. Loretta gli disse dello zio prete e della benedizione a Ca’ Dario.

-Lo so che la chiesa cattolica attribuisce le colpe al maligno, da scacciare secondo i sacri crismi, e si fregia di dare una spiegazione a tutto. Questo è il suo limite- il tono di Vittorio era leggermente sarcastico. - Da che cosa dipendono allora le morti violente e le disgrazie dei proprietari che si sono avvicendati in quel palazzo?

-Non lo so, non si può sapere tutto. Potrebbero essere solo coincidenze. La religione non può pretendere di dare una spiegazione a tutto!-

-Ma gli uomini di Dio, come ad esempio S. Agostino, hanno parlato del mistero che ci avvolge.

-Questo per spaventare la gente. La chiesa ha sempre agitato spauracchi come forma di controllo.

-La chiesa è un’istituzione umana, e quindi con i suoi difetti, ma anche divina ed ispirata. Ed è per questo che non perirà mai.

-Non perirà mai perché si allea con i potenti. La religiosità è alla deriva. Quanti, tra i tuoi conoscenti, si fanno monaci?

-Nessuno. Ma questo non vuol dire niente.

-Alla religione ci si aggrappa dopo un lutto, una malattia, una disgrazia. Si riscopre la religione in queste circostanze. Oppure ci si allontana.

- Se ci si è messi ad adorare il vitello d’oro, di chi è la colpa?

-Pecchi di moralismo. Non può essere invece che la religione non sia più in grado dare risposte convincenti? L’uomo è uomo e tale deve essere accettato nella sua totalità. Pensa al fatto che la maggior parte della popolazione mondiale è atea o agnostica. Sono tutti da condannare?

-E’ un male . E’ importante, invece, credere in Dio !- lei si accalorava. -Adesso… bisogna distinguere tra il credere che Dio esista e l’aver fede. -Sì, certo. Volevo dire appunto che il dono più grande è quello della Fede. -Ciò implica l’amore per l’uomo in tutte le sue peculiarità in quanto creatura di Dio.

-Chissà perché gli uomini tendono ad essere meno religiosi delle donne ed esprimono tanto scetticismo…-osservò lei.

-Perché sono concreti. Si attengono ai fatti.

-E la tensione verso la metafisica, allora?

-Per Hegel la metafisica coincide con la logica.

-Sì, ma il tuo Hegel attribuisce alla religione il merito di essere rappresentazione dell’Assoluto.

- Il discorso della rappresentazione o della narrazione dello Spirito a opera della religione mi sembra un po’ sfocato. A me piace Hegel quando parla del rovesciamento del ruolo servo-padrone e anche dell’importanza dello stato.

-La metafisica è un’esigenza dell’uomo il quale è infelice se pensa solo alle cose della Terra…- rimarcò Loretta.

_Ma l’infelicità è una condizione esistenziale. Anche i preti sono infelici. -Però hanno strumenti formidabili per combattere l’infelicità.

-Senti Loretta Stratiota, Loretta soldato…Tregua! Che ne dici,, piuttosto, se ci troviamo a Venezia durante le vacanze di Natale?

-Quando esattamente?- la domanda le era uscita senza poterla controllare. -Propongo l’antivigilia.

_Ci devo pensare. Magari ti telefono- lei si sistemò la tracolla e si girò in direzione del traghetto che stava sopraggiungendo proprio in quel momento .Vittorio, muovendosi rapido e deciso, si avvicinò a Loretta, la strinse a sé e le diede un bacio lieve all’ angolo della bocca. Poi fece un salto sul pontile, si voltò un attimo per articolare con le labbra senza emettere suoni “Ci vediamo a Natale” e infine si eclissò tra i passeggeri all’interno dell’area cabinata.

Il traghetto si staccò lento dal molo e seguì pigro il suo corso lungo il canale. Loretta lo guardò solcare le acque grigiastre assieme ai motoscafi. Respirò odore di nafta e di fondali mentre pensava che l’anello d’oro fosse stato depositato un’altra volta tra le sue mani.

 

Dell’Ospedale di S. Maria della Pietà avevano beneficiato nel corso dei secoli i poveri, i malati, gli anziani, gli orfani e le ragazze madri. La quantità di notizie che si ricavava dalla consultazione dei documenti in Archivio era veramente notevole ed occorreva procedere ad un’opera di selezione e di sistemazione per redigere un’analisi mirata che tenesse conto delle indicazioni della relatrice.

Nei giorni seguenti Loretta raccolse il materiale attraverso fotocopie e appunti e avviò una redazione del prodotto finale, secondo i criteri della ricerca storica. Lavorava con una gioia canterina in cuore trasmessa da un invito riservato a lei, a lei soltanto: “Ci vediamo a Natale”.

Quelle registrazioni di ricoveri, quelle note di degenza avevano anche la funzione di farle immaginare un mondo passato, in cui i letti di ospedale degli ulcerosi, degli scrofolosi , dei tisici esalavano afrori terribili che pie donne sopportavano per la loro buona natura e per amore di un Cristo sofferente. Pensava agli abiti lunghi delle ragazze, alla loro biancheria ricamata e anche all’abbigliamento degli uomini, più pittoresco rispetto a quello dei tempi moderni. A uno stile di vita, più semplice e sofferto per molti, ma con una potente carica di autenticità e sapore.

 

Venne a prenderla in stazione. Lei aveva il suo montgomery beige e lui il cappotto scuro. Lei si era messa una sciarpa scozzese con qualche quadro rosso, lui i guanti foderati e il passamontagna. Cadeva un nevischio gelato che si appiccicava sfarinandosi sulle cose. Lui le prese il braccio e la borsa e l’accompagnò per le calli con un fare gentile, un bon ton d’altri tempi.

– Dove andiamo con questo freddo?- domandò Loretta.

-In piazza, poi vediamo- le coprì la testa col cappuccio.

Dall’Ala Napoleonica la piazza sembrava una pista da pattinaggio, viscida e scivolosa. Loretta propose la chiesa come riparo. Molti avevano avuto la stessa idea e sostavano seduti sulle sedie all’interno della basilica con le scarpe dentro il bagnato dell’impiantito, i residui di neve.

Una turista disse “pas de rien” quando Loretta la urtò con la borsa chiedendole scusa.

C’era un’atmosfera di tranquillità e di raccoglimento che non faceva desiderare altro. E le sedie impagliate e la lucina nel tabernacolo erano le stesse della piccola cappella sulla punta di strada. Rimasero lì per un tempo imprecisabile, ognuno in ritiro nei propri pensieri . Congelati.

A mezzogiorno, scoccarono i rintocchi del campanile. Il caffè all’angolo e le brioches fresche erano la soluzione migliore. Lei ne voleva una con il cappuccino. Lui preferì un sandwich e una birra.

-E allora, osservi il digiuno al collegio?- le chiese divertito.

-Affatto. Il vitto non conosce limitazioni. Ma a me il sacrificio, a volte, non dispiace-

-Perché?-

-Perché purifica. Prepara alla pace-

-Se è per questo, tutta la vita è un sacrificio, non ti preoccupare.

-Sì, ma viviamo nell’abbondanza. A me piacerebbe più sobrietà, più… -Puoi sempre ritirarti in un monastero…

-Non ti pare che cerchiamo troppo la comodità, il piacere?-

-No, mi pare invece che conosciamo le difficoltà e le sofferenze in tutte le forme.

-Eppure la sofferenza esprime grandezza-

-La sofferenza abbruttisce e basta- asserì lui, scotendo la testa. -Molti scrittori e poeti la sostengono.

-Per esempio?

-Per esempio, Tarkovskij . -

E’ un’anima russa. Mi piacciono i russi- confermò lui.

-Amiamo e adoriamo un Dio crocifisso- evidenziò lei allargando il palmo della mano sul tavolino lucido.

-Dio ci vuole felici. Ci sono tanti passi della bibbia che lo dimostrano. -

Il linguaggio della bibbia è da interpretare

-C’è un insegnamento che sa quasi di erotico, mi sembra. Hai letto i salmi? -

Sì, qualcuno. Ma io preferisco il Nuovo Testamento.

-Dovresti leggere gli apocrifi- -

Perché questo bisogno di dissentire? -

Per non obbedire ciecamente, per non smettere di pensare in autonomia -A me interessa il messaggio evangelico che è di una semplicità disarmante, anche se si vogliono costruire chissà quali sovrastrutture intorno.

-L’uomo è un fabbricatore di parole che spesso sono artificio, questo è vero. Il pensiero, invece, è puro.

Si erano seduti intorno ad un piccolo tavolo da bistrot. La tazza con il cappuccio fumante era ancora come il cameriere l’aveva portata. Loretta teneva i gomiti appoggiati e le mani incrociate sotto il mento. Si era tolta il montgomery e mostrava un grazioso insieme .

-Non hai ancora assaggiato nulla ! –le disse lui consumando l’ultimo boccone. Loretta portò alle labbra la pasta sfoglia glassata. Quando si trovava in un bar le piaceva ascoltare l’acciottolio delle stoviglie che venivano prelevate dai cestelli immersi nel vapore. Adesso le percezioni sensoriali erano ferme. Il cuore batteva nello stomaco. Bevve un sorso di cappuccio e concentrò la vista su un punto della vetrina che aveva di fronte.

-Avremmo potuto fare il giro dei canali se fosse stata una bella giornata- disse.

-La bella giornata la facciamo e non la facciamo noi, con qualsiasi tempo meteorologico- osservò Vittorio-e lo stesso vale per la nostra vita!

-Sei molto puntualizzante! Qual è il tuo cognome, scusa?

-Cantalupi. Vittorio Cantalupi. -

Non ti sta male. Si adatta a qualcosa di dolce e ferino che ti caratterizza- fece Loretta. Presero il traghetto per vedere l’isola dei pescatori e la Giudecca. Il vento era freddissimo e la laguna agitata. Lui le cingeva la vita con il braccio mentre guardavano dalla cabina semideserta il mondo intorno.

-Lo ricorderemo questo Natale…- disse lei Lui le prese il mento tra le mani e le rivolse una richiesta.

–Dimmi che credi in me- -

Sì, certo- rispose Loretta trasalendo- non sarei qui altrimenti

-Sono un tipo complesso che tende però a un disarmante semplice. Vorrei che fossimo amici per un lungo tempo. Vedi che evito il per sempre. Loretta abbassò lo sguardo e si sentì ricolma di gioia. “Vorrei che fossimo amici per un lungo tempo”. Amici. Essere amici è una cosa molto bella e difficile. Difficile da realizzare pienamente, soprattutto tra un uomo e una donna. L’appello all’amicizia tuttavia manifestava nobiltà.

A questo pensava Loretta che non riusciva a prendere sonno, girandosi e rigirandosi nel proprio letto quella sera stessa . Si chiedeva se l’amicizia iniziale potesse preludere ad altro. Si diceva che lui aveva esordito con la delicatezza necessaria ma, per quanto cercasse di soffocarla, la sensazione che qualcosa le sfuggisse era un tarlo sordo che lavorava. Si mise supina, in diagonale, con la testa leggermente reclinata sul lato sinistro per trovare sollievo. In cuor suo non osava coltivare aspettative, anche se desiderava suonare i campanelli d’argento, battere le mani con forza, produrre un rumore assordante . Immaginava l’intelligenza di lui come un finissimo filo di seta, argenteo, capace di avvolgersi in mille complicate volute e di assumere tutte le forme possibili. Avrebbe voluto sapere di più della sua vita. Dove abitava? Com’era il suo appartamento? Quali le sue amicizie? Continuò a inseguire gli assilli che assumevano dimensioni gigantesche nel buio finché non prese sonno .

III

L’appartamento che avevano comprato in paese era un trilocale di modeste dimensioni, sito in un condominio periferico. Un enorme edificio di un bianco ospedaliero che, per la forma e il colore, faceva pensare d’impatto a un presidio medico. Era piaciuta, però, la ripartizione razionale degli spazi, vista dalle due donne sulla carta dell’esecutivo. Il soggiorno cucina trovava sfogo in una piccola terrazza coperta che ne ampliava la cubatura. Le camere da letto erano ampie, ben rischiarate dalle finestre e dalle aperture sui balconi. La nuova abitazione offriva la possibilità di maggiori contatti con il vicinato e perciò di fronteggiare la solitudine. Certo, avrebbero rimpianto la casa di campagna soffrendo di nostalgia. Ma le cose cambiano e nulla resta immutabile. Semplicemente, iniziava una nuova fase cui andare incontro con la ragione di chi si affida. Loretta, poi, aveva sempre desiderato una casa piccola, un nido in cui ovattarsi senza dissipare i contatti.

Quel “paese”, con le numerose stanze dai soffitti alti, i corridoi larghi e interminabili, dava lo sperdimento. “E’ vetusta e autentica” diceva il signor Luigi. Ma era troppo grande, studiata in un’epoca al tramonto. Una casa concepita secondo un’estetica non funzionale e un’austerità che non aveva ragione d’essere.

Il trasloco era divenuto inevitabile anche a causa di un fiscalismo esoso che non lasciava scelta. Inoltre la gestione di quella proprietà aveva sempre comportato problemi. Il prezzo del frumento e dell’uva per la cantina sociale era sempre stato basso. Le spese per i numerosi trattamenti anti parassitari, alte. Una volta, negli anni accesi delle lotte anti padronali, degli associati alla cooperativa agricoltori avevano seminato punte di ferro nei campi prima della mietitura, per indurre il proprietario a cedere il terreno. Luigi dispiaciuto e adirato aveva detto all’affittuario.

“Ezio, più che darla a quei figli del demonio la regalo a te!” Ezio aveva sorriso con lo sguardo complice di chi condivide una medesima intolleranza. Luigi non l’avrebbe mai ceduta alla cooperativa. In ogni zolla di quella terra c’erano il sudore degli antenati, gli anni di fatica, le roncole delle donne e degli uomini di famiglia, le zappe e i forcali dei consanguinei. La terra è madre e vita da cui scorre la vita. Il grano assicura il pane, l’uva il vino. Il corpo e il sangue. Cibo e nutrimento. Prima della guerra, chi possedeva la terra era qualcuno. Ma adesso veniva avanti l’operaismo, il lavoro di fabbrica. I prodotti dei campi non costavano nulla. L’allargamento dei mercati internazionali significava contrazione. Eppure qualcuno assicurava che la terra si sarebbe rivalutata, che era capitale sicuro, un bene di possesso irrinunciabile. Ezio aveva rimpinguato i guadagni con il bestiame. La stalla del nonno Sostiene era stata riempita di mucche da latte. I loro muggiti attraversavano la giornata in ogni ora del giorno. Il latte veniva fornito ai rivenditori e ai singoli clienti.

Anche Loretta aveva imparato a mungere. Seduta su un piccolo sedile rotondo, ricavato dai rami e dal tronco di una betulla, stringeva con delicatezza le mammelle che spruzzavano in un secchio il liquido caldo e sieroso. Era un’operazione che conferiva serenità mentale, rilassamento e, se all’inizio, lei aveva provato una sorta di repulsione, in seguito aveva scoperto che desiderava compierla. Era un abbandonarsi a un rito antico che segnava ritmi diversi del tempo.

Anche le operazioni di macelleria erano un rito. E costituivano giornate di festa in cui arrivavano i fratelli di Ezio di primo mattino, quando faceva ancora buio, e mettevano al fuoco i pentoloni d’acqua. E poi preparavano le budella da avvicinare alla bocca del tritacarne per farne salami, salsicce, cotechini ,la coppa d’estate, la coppa di testa. E il cassone di rovere veniva reclinato sui cavalletti per contenere i prosciutti salati. Loretta si incaricava di avvolgere il fegato nella rete prima di arrostirlo sulla graticola accanto alle costine.

 

Quell’antivigilia Venezia era stata una morsa di ghiaccio. Freddo, freddissimo. Che fosse un segno? Un segno di sfortuna che precedeva eventi freddi? Le belle giornate le facciamo noi, con qualunque tempo meteorologico. Ma adesso quali belle giornate sarebbero seguite? Il Natale trascorse come al solito.

La sera di S. Silvestro lui le telefonò per farle gli auguri.. Fu quasi frettoloso. La voce era atona. -Buon anno! Ti auguro ogni bene!- nient’altro. Seguiva il nulla. Lei non sapeva se e quando si sarebbero visti. Non voleva telefonargli. Non voleva essere giudicata come una che dava l’assalto. Intanto la discussione della tesi si faceva sempre più prossima. Quando finalmente giunse il momento e lei glielo comunicò, lui le espresse compiacimento ma non si fece vedere. Fuori dall’aula il corridoio sembrò infinitamente lungo e deserto e la corona d’alloro, deposta dalle amiche sulla testa, una spina. Una soddisfazione spenta nei sorrisi e nelle frasi convenzionali. “Congratulazioni” “Ad maiora”. Eccetera… Anche se Loretta sapeva di condividere con i genitori una gioia intima e profonda.

 

Le telefonò l’8 marzo. Lei andò piena di speranze all’appuntamento. Gli occhi nocciola scintillavano come la giornata sul Canal Grande quella domenica di settembre. Aveva indosso un paio di pantaloni blu come la giacca stile marinaio, un cardigan giallo oro sulla camicetta bianca. Il punto di ritrovo era il portico di S. Maria dei Servi. Arrivò in ritardo e lo trovò immobile accanto a una colonna. Le sorrise, ma con una nota di distacco. Loretta arrossì.

-Ciao, finalmente!-

-Ciao- rispose lui. -

E’ un incanto questo posto! Mi ha sempre affascinato. Anche l’arte è una manifestazione dell’Assoluto hegeliano.

-Sì- fece lui laconico. Loretta lo guardò interrogativa. Che cos’aveva? -Senti, Loretta … Loretta non capiva. -Io avrei voluto, avrei voluto sì, ma non posso ingannare me stesso… non posso ingannare nessuno. Loretta continuava a non capire, anche se cento pensieri si affacciavano. -Io… ho un brutto carattere. Rendo infelici le persone.

-Perché dici questo?-

-Perché alcune persone che mi hanno amato si sono sentite ferite da me- Il cuore di lei era nella morsa di una tagliola. Lui la guardò: -E’ giusto che tu lo sappia. Io amo, ho bisogno della solitudine. Perché ho le mie assenze. E a volte non sono in grado di ascoltare, di occuparmi dell’altro.-

-Ah… però sei pieno di risorse- lei rotolava lungo una china, aggrappata a una speranza flebile.

-Non ho spirito di sacrificio. Questo a breve andare allontana.

-Capisco- rispose lei impacciata- e … quell’amicizia cui accennavi? -Ci possiamo vedere , sentire, se vuoi- sembrava voler rimediare.Era solo il preambolo e c’era dell’altro. Loretta respirò un’aria che sapeva di caligine. Un viaggio finito in mezzo all’erba secca. Un sogno che girava nel vuoto.

 

Sentire, vedere. Pensava che sarebbe stato bello. Le piaceva parlare con lui. Le piaceva la sua intelligenza, la sua testa, il modo di muoversi, di socchiudere le labbra e di sbattere le palpebre. E soprattutto gli occhi. Quello sguardo che era dolcezza, sintonia e ironia. Quel suo essere di mistero che accresceva l’attrattiva. Del prospettare con la brillantezza del ragionamento l’essenza delle cose e poi dichiarare la propria nullità e non aspettarsi nulla dalla vita. Con l’atteggiamento di chi è pronto ad andarsene ramingo per il mondo, a cogliere le verità in solitudine. Tutto questo le piaceva. Le piaceva , accidenti. E pensava che non aveva scelta: non avrebbe potuto più riprovare un sentimento come quello. E non poteva, non voleva rinunciarvi.

 

Glielo dissero un giorno che era ritornata dal sindacato dove aveva chiesto informazioni circa la possibilità di lavorare in qualche scuola . In casa c’era la zia Pina che aveva portato una torta con la crema al rosolio. Il padre aveva fatto le analisi. Non si trattava di artrite reumatoide. Quando la zia Pina glielo bisbigliò all’orecchio Loretta non ci credette. Ezio sembrava sereno. Continuava a parlare di reumatismi e anche di osteoporosi. Ma forse sapeva. Stava in casa più spesso. Prendeva il paracqua grande, verde, da pastore, per andare a rigovernare le bestie. Loretta gli teneva compagnia. Gli comprava i giornali. Cominciava già a far scorrere i ricordi. Del padre che la portava sul manubrio della bicicletta quando era piccola. Del padre che le asciugava i pinini scalsi quando erano bagnati. Che le aveva insegnato a contare soprattutto sulle proprie forze. Sì, l’aveva già immaginata. Come sarebbe stata. Come sarebbe stata la vita senza di lui. Un inverno fermo, luci spente e solitudine a due nella grande casa con i soffitti alti e i corridoi lunghi e larghi in cui ci si perdeva. Quella casa con i suoi misteri che il signor Luigi aveva tanto difeso, che il padre aveva voluto a dispetto delle dicerie. E però destinata all’abbandono.

Non volle andarsene lontana a cercare un posto in cui insegnare. Voleva rimanere lì, a sentire gli ultimi respiri di chi le aveva dato la vita. Perciò accettò la reception al Conventello, un albergo ristorante in cui avrebbe anche servito ai tavoli. Al padre disse che si trattava di un’occupazione temporanea in attesa della nomina. Lui ci aveva tenuto più di tutti a quella laurea, a ciò che avrebbe significato.

Un edificio basso con le porte ad arco. Un orfanotrofio che aveva ospitato bambini e bambine dalla faccia smunta che, quando uscivano in passeggiata, mettevano le mantelle grigie. Una volta apparteneva alla curia. Intorno si innalzavano gli ippocastani, i platani e le querce. Il proprietario, che l’aveva rilevato, aveva voluto il cotto per i pavimenti e le porte in noce massiccio, all’inglese, senza che l’edificio perdesse, tuttavia, la sua impronta originaria: la sala da pranzo con le fratine era un refettorio, le camere da letto mantenevano il loro aspetto sobrio e pulito. Un punto di richiamo per la funzione sociale rivestita in passato, ancora presente nella memoria collettiva di tanti e per il campo di tiro con l’arco nelle vicinanze. Molti andavano a pranzo e a cena al Conventello per incoccare le frecce su quelle armi pesanti e sofisticate e centrare i bersagli.

Lui venne una sera verso l’imbrunire. Era il mese di aprile. C’era già il tepore nell’aria. Alcuni tavoli erano stati apparecchiati all’aperto. Lei gli portò le caraffe. A lui fece un certo effetto vederla con le bretelle del grembiule incrociate sul dorso e il menù sottobraccio. Dopo che le stoviglie sporche furono raccolte, lui rimase seduto a tirare due boccate di fumo. Lei sedette al suo tavolo, si tolse le bretelle e gli chiese che cosa faceva. Lui le disse della supplenza di filosofia allo scientifico. Quindici giorni, proprio lì al paese. Le disse della scuola. Di come era . Di come avrebbe dovuto essere. Parlò della scuola classista e del ’68.

_La scuola autoritaria paradossalmente ha prodotto lo spirito critico. E perciò non è stata così negativa. Il ’68, invece, ha prodotto lassismo- disse lei. -

La scuola autoritaria ha prodotto intolleranza da parte di una classe dirigente, a discapito dei più deboli. La scuola deve essere speculare alla società, non trasmettere un sapere sempre uguale a se stesso, vecchio e obsoleto.

- Basta che non pretenda di risolvere tutto con lo psicologismo. Il compito della scuola è quello di insegnare. Ricordo un docente che lasciava proporre agli studenti. Non ti dico il caos..

-Certo! Insegnare significa lasciare un segno. Ma i docenti, nel proporre, devono sempre rinnovarsi, prospettare i problemi senza dare precotte soluzioni. -Gentile diceva che durante l’ora di lezione l’insegnante e gli studenti devono dimenticare il mondo intorno, concentrandosi su un unico obiettivo che è la conoscenza.

- L’insegnante, soprattutto, deve essere capace di suscitare il desiderio di imparare, insegnare a imparare in autonomia che è il modo migliore per interiorizzare.

Con lui la parola si accendeva, prendeva vita. Diventava vita. Sotto i platani nel mordente del discorso lei era felice. Venne altre volte. Anche all’una, dopo le lezioni. Gli piacevano i passatelli. Diceva che gli davano energia. E poi un po’ di bollito con la salsa verde a base di acciughe, capperi e prezzemolo. Lei si toglieva il grembiule e si sedeva al tavolo. E parlavano. Di come andava il mondo, di come intendeva incantare i suoi studenti, dell’amore filiale e paterno, dell’amore tra un uomo e una donna. Poi le rivelò che aveva una figlia. Nazarena. E anche una compagna. -

Da quando è nata la bambina, Angela non sa più che io esista- scosse la testa tristemente- un giorno l’ho trovata che faceva la valigia.

Loretta non si meravigliò. Aveva quasi immaginato. Gli rispose che era nell’ordine naturale delle cose. I figli richiedono tante attenzioni ed è normale che una madre si annulli per loro. Lui le mostrò un sorriso pago della condivisione.

-Lo capisco, ma non ero…non sono pronto. Forse sono solo un’egoista- ammise. Poi allungò la mano.

-Vorrei averti incontrato prima- gli disse Loretta con gli occhi fissi nei suoi, liquidi.

-Lasciamo che le cose fluiscano, seguano il loro corso- rispose lui, stringendole la mano. Lei si svincolò.

-Ci sono delle regole da rispettare- si irrigidì.

-Quali regole?- chiese lui. -

Morali- -

Di quale morale parli ?-

-Quella dettata dalle istituzioni-

-Come la Chiesa, vuoi dire?

-Sì, naturalmente-

-Non possono prevalere sui sentimenti-

-Il rispetto delle regole può rendere più soddisfatti di sé- affermò Loretta. -Ma anche più infelici, se si censurano i sentimenti. Difendere i propri sentimenti è un diritto che appartiene all’uomo-

Sì, era così. Lui le prospettava il bivio. E lei non era ancora sicura di che cosa voleva. Pensava che la strada sarebbe stata difficile comunque e che l’affermazione di un sentimento forte e vero meritava rispetto. Ma non voleva agire secondo un profilo che non le apparteneva. Non se lo sarebbe mai perdonata. Lui era già impegnato, unito a un’altra da un vincolo indissolubile. La scelta non poteva che essere una, una sola. Però sarebbe stata capace di amarlo ugualmente. L’avrebbe portato nel petto sempre e ogni tanto avrebbe dischiuso il medaglione per guardarlo . Niente poteva impedirlo . Si sarebbe nutrita della dolcezza di un segreto che era il dono più grande che potesse ricevere.

Quando lui venne l’ultima volta per mangiare i passatelli le regalò un album con le foto di tutte le città in cui era stato. Lei se lo tenne in camera e ogni sera faceva un viaggio. Ma ritornava sempre a Venezia, in quel giorno di dicembre, quando avevano sostato nella basilica davanti al tabernacolo e poi avevano fatto il giro dei canali e lui le aveva detto che le giornate belle o brutte le facciamo noi. Qualche tempo dopo le comunicò al telefono che Angela era ritornata e che lo commuoveva la consapevolezza di essere padre.

 

-Andiamo, mamma?- La Punto di Loretta è già al cancello. Amedea sta girando la chiave nell’uscio. L’aria si è rinfrescata perché durante la notte è scrosciata una pioggia violenta. Le piante intorno stillano gocce che svaporano al caldo. L’anziana riguarda gli occhi di Ezio che forano il giallo dell’intonaco, la pianta di rosmarino che profuma al tepore del sole estivo. Percorre il vialetto, chiude alle spalle i battenti di cinta, rigira il cartello con la scritta “Vendesi”. Sale sulla macchina piano.

-Abbiamo preso tutto?-chiede Amedea- Tutte le cose importanti?

-Sì, mamma. Quelle sono sempre con me- risponde Loretta.


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