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L’ultimo contratto

di Michele Rotunno
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Pubblicato il 17/01/2011 10:22:40

“Vendesi mandarino rosso” l’annuncio era più che esplicito, dovevo rientrare quanto prima, ovviamente seguendo tutte le regole relativa alla sicurezza. Il giorno stesso ho interrotto le ferie in Tunisia, col primo volo ho raggiunto Catania, in autobus a Messina, traghetto e a Reggio l’Eurostar per Milano.
Sono sceso a Taranto, con un altro autobus ho raggiunto Bari e adesso sto aspettando un altro Eurostar per Torino, che non raggiungerò perché scenderò a Piacenza e quindi con un regionale arriverò finalmente a Milano, la mia destinazione. Il tempo del viaggio si triplicherà ma non avrò lasciato tracce dirette del mio percorso.
È quasi sera, pochi minuti alle diciotto, lo speaker annuncia l’arrivo del treno, è in orario, non sosterò a lungo sul marciapiedi. Ho preso un biglietto di prima classe, non lo faccio quasi mai ma siamo ad ottobre e prevedo la prima classe abbastanza vuota e al riparo da viaggiatori impiccioni.
Non mi sono sbagliato, nello scompartimento vi sono solo due persone, un bambino di circa cinque anni e una donna, probabilmente la madre. Lui ha un aspetto birichino, di sfrontata ingenuità lei, invece, è bella da morire, il suo sguardo mi ha trafitto cuore e cervello, non mi è mai successo fino ad oggi una simile sensazione. Come un adolescente alla prima cotta le punto addosso gli occhi, lei fa altrettanto, nessuno abbassa gli occhi e restiamo a fissarci per un minuto abbondante. Ho modo di osservarla attentamente, il vestito dalla gonna larga non lascia intravedere le forme ma è snella e ben fatta, anche il volto, per le sue fattezze, non è eccezionalmente bello ma i suoi occhi azzurri posizionati su un naso piccolo e a punta in su mi hanno letteralmente catturato, non riesco a distogliere i miei dai suoi, e pare che sia ampiamente ricambiato. Non so chi per primo ha abbozzato un sorriso, peraltro subito ricambiato, ma il nostro reciproco rapimento viene interrotto dal piccolo che tirandomi i pantaloni mi chiede a voce alta:
“Non ti siedi?” L’incantesimo è spezzato, quasi con imbarazzo i nostri sguardi si lasciano rivolgendosi entrambi sul piccolo. Lei ridacchia, poi guardandomi di nuovo mi dice a voce bassa “Lo perdoni”.
“Di che?” le rispondo mentre con una mano arruffo i capelli al bimbo. Mi siedo e, spezzato l’incantesimo ma anche il ghiaccio, con la mano afferro il mento del piccolo e chiedo:
“Come ti chiami giovanotto” e lui prontamente “Guido – e subito dopo – e tu come ti chiami?”
Catturato dalla sua innocenza gli rispondo.
“Tobias, Tobias Ziegler” dico divertito mentre osservo la donna guardarmi meravigliata. La comprendo perciò mi rivolgo a lei precisando:
“Sono austriaco, in Italia praticamente dalla nascita, mio padre era un addetto all’ambasciata e ha sposato un’italiana, di Sabaudia. In pratica ho la doppia nazionalità” Lei mi sorride affascinata.
“Parla così bene anche il tedesco?” mi chiede con ammirazione.
“Non solo, ma anche l’inglese, il francese, lo spagnolo, e mi arrangio un po’ con un’altra dozzina di lingue”
“Oh! Ma allora è un poliglotta?”
“Sì, la mia attività mi porta molto spesso all’estero”
“Perché che lavoro fa?”
“Sono consulente industriale” mi guarda inarcando le arcate, la muta domanda è molto esplicita.
“Mi occupo di tutto ciò che riguarda l’industria, soprattutto marketing”
“Ah, ora capisco!” esclama poco convinta tanto da strapparmi una risatina contagiosa perché anche lei scoppia a ridere portando l’indice sotto il naso in un gesto di raffinata educazione. Intanto i nostri sguardi si incrociano di nuovo e di nuovo si catturano, e di nuovo interrotti dalla vitale ingenuità del piccolo Guido. Pochi istanti di distacco e subito a ritrovarsi all’unisono. È così bella da farmi impazzire, non riesco a restare lontano dai suoi occhi ed anche lei; quando volge i suoi su di me il volto le si vela di una arcana tristezza. Non conosco il motivo, probabilmente le ricordo qualcuno.
Nella successiva ora, mentre Guido si astrae con una macchinina, noi approfondiamo la nostra conoscenza, precisamente è lei a darmi tutte le informazioni che la riguardano. Si chiama Elena ed è vedova da otto mesi, il marito un certo Dibartolo appartiene ad una delle famiglie più ricche di Torino. Lei lo ha conosciuto sei anni prima e se n’è invaghita, il primo grande amore di una ventiduenne. Come sempre accade in queste circostanze è rimasta incinta e lui, pur contro il parere della famiglia l’ha sposata ma non ha smesso nemmeno per un momento di vivere la sua vita fatta di gesti spericolati ed insulsi fin quando sfidando per l’ennesima volta il destino ci ha rimesso la vita precipitando in un crepaccio alpino. Lei, rimasta sola con il bambino si è rinchiusa nella sua casa paterna a Lecce, con i suoi genitori, resistendo a tutte le pressanti richieste del suocero tendenti ad avere tutto per sé il piccolo,
Alla fine, stanca e probabilmente consigliata dai suoi genitori, ha deciso di recarsi a Torino per qualche settimana, ma è fermamente decisa a riportarsi Guido a Lecce, inoltre la legge è tutta dalla sua parte, lei è la madre e per questo tutelata.
Alla fine del racconto, entrambi in piedi vicino al finestrino, non riesco a frenare la mia mano e in un gesto di affetto, le sfioro leggermente e lentamente la guancia, lei non si ritrae anzi, con un improvviso fremito, chiude gli occhi e preme il viso acuendo il contatto, poi riapre gli occhi, mi guarda aspettandosi ciò che inevitabilmente non riesco a fermare. Mi avvicino a lei e dolcemente poso le mie labbra sulle sue. È un bacio lieve ma avverto sulle mie le sue labbra umide e desiderose. Un altro impulso, con la stessa mano scivolata sulla nuca l’attiro a me, lei aderisce spontaneamente, le sue mani artigliano, non viste il mio torace, il nostro bacio si fa impetuoso, le labbra si cercano avidamente, potendo si strapperebbero dal desiderio. Un piccolo rumore ci scuote, è Guido, scivolato per terra addormentato. Lei quasi mi implora di mantenere l’incantesimo, mentre si distacca per sollevare Guido e distenderlo dolcemente sul sedile di fronte al mio. Dopo un ultimo tocco assicuratesi che il bimbo dorma in una posizione comoda, si volge di nuovo verso di me che intanto, come uno scolaretto, la osservo con tutto il desiderio che mi fa fremere ogni centimetro del corpo. È un attimo, il desiderio contrapposto la spinge di slancio verso di me, i nostri corpi questa volta senza alcun tentennamento si avvinghiano e la bocche affamate si cercano spasmodicamente.
Sono perdutamente tramortito dalla eccitazione quando riesco a sussurrarle che la desidero,
“Anch’io” mi risponde in un attimo. Allora non ci sono più freni o impedimenti. Blocco la porta dello scompartimento, tiro le tendine e spengo la luce. Ho appena il tempo di girarmi verso di lei che già si trova tra le mie braccia, mi spinge a sedermi che già mi è sopra accavallata sulle mie gambe. Il respiro è ansante, il suo più del mio che mi pare in apnea.
“Ti desidero, ti voglio da impazzire” non è un’esclamazione ma una focosa richiesta a cui il mio corpo risponde prontamente. L’eccitazione mi sconvolge, non riesco più a trattenermi, con la testa che ormai ha smesso di pensare cerco di slacciare la cinghia dei pantaloni, le sue mani avidamente lo fanno per me, poi lei in un attimo si sfila l’unico indumento che ormai si frappone al nostro desiderio. Le nostre intime carni si toccano, si cercano, si vogliono, si impossessano, è un attimo di erotismo spasmodico, io sento lei avvolgermi con tutto il suo calore, lei sente me invaderla di un rigido fuoco. Mentre le mie mani afferrandola le stringono l’incavo dei fianchi, dopo averla velocemente esplorata, scivolando sulla pelle morbida, lei, con il volto trasfigurato dalle smorfie di piacere, mordicchiandomi le labbra e sussurrando parole quasi indistinte, comincia a muoversi ritmicamente e lentamente su e giù, ansimando eccitata. Poi si ferma, affannosamente mi bacia con tutta la passione quasi soffocandomi sotto il peso del suo corpo che m’inchioda sul divanetto; chiude di nuovo gli occhi e poi riprende il movimento di prima, ma solo per pochi secondi, si ferma ancora, e riprende con un movimento diverso, questa volta laterale, quasi a compiere un giro erotico, poi un rapido scatto verso l’alto e di nuovo in senso laterale, e così via per non so quante volte tra un gemito e l’altro di purissimo piacere.
La mia testa ormai non regge più dal desiderio, mi sembra stia esplodendo, pur nella scomoda posizione mi inarco in alto velocemente e possentemente, lei si accorge che sto per cedere allora si ferma , con uno stratagemma si volta verso il bambino che dorme poco distante, poi mi dice, rassicurata, che non ci sono problemi. Intanto il mio spasmo è rientrato e lei è pronta a riprendere il gioco erotico. Con la sua sagacia riesce a condurlo fino all’estrema esasperazione quando, ormai travolta ogni resistenza mentale, la mia intimità trabocca come un vulcano in piena esplosione. Come ogni eruzione che si rispetti, accompagnata da scosse di assestamento, i nostri corpi si acquietano sotto uno sciame di sussulti sempre meno intensi.
Nella posizione in cui mi trovo non posso muovermi granché perciò rimango immobile dentro di lei, che intanto ancora mi stringe tra le sue braccia. Mi accorgo di come lei sia ancora una brace non sopita ma io mi sento svuotato di ogni scintilla di fuoco. Lei non ci bada, continua ad ansimare sopra di me,
“Ti desidero ancora, voglio ancora sentirti palpitare dentro di me” sussurra mentre riprende il suo diabolico gioco che in meno di pochi secondi riesce a rinvigorirmi e a scatenare la sua sessualità non ancora doma. Questa volta il gioco dura decisamente di più, tanto di più, i miei sensi restano sempre vigili e coscienti del piacere che lei mi procura e che senz’altro si procura. Alla fine arriva la seconda eruzione, più composta della precedente, più matura, più cosciente, più calcolata e anche più esauriente della prima. Ora i nostri corpi finalmente si rassegnano svuotati di ogni ultima energia, anche volendo, il sacro fuoco ormai si è incenerito.
Nei minuti successivi, pur in quell’ultima e intima posizione, lei mi parla chiedendomi di non lasciarla sebbene comprende la particolarità del momento. Le rispondo che non deve nemmeno pensare una cosa del genere, infatti sono perdutamente innamorato di lei. Ci promettiamo di incontrarci di nuovo, a Torino per il sabato successivo. Oggi è solo mercoledì e mancano solo tre giorni, ma so già che saranno interminabili.

Rientro a casa a Milano che è quasi l’alba, calcolo che anche lei a quell’ora stia arrivando. Non riesco a togliermela dalla mente, nel tragitto da Piacenza a Milano ho pensato solo a lei e ho preso la mia decisione, dopo quest’ultimo contratto rassegno le dimissioni dall’Agenzia, posso farlo è previsto nel regolamento. Non possiamo in alcun modo uscirne fuori durante la stipulazione di un contratto ma appena dopo sì. In ventiquattro ore vengono liquidate le pendenze e ogni rapporto cessa irrimediabilmente senza ripensamenti.
Riesco comunque a riposarmi per alcune ore poi sul tardi mi reco all’ufficio postale a ritirare il plico raccomandato che mi attende. Ritorno a casa, mi distendo sul letto con la schiena poggiata al muro e apro il plico. Dentro vi è un biglietto con la notifica dell’avvenuto pagamento di duecentomila euro per l’ultima commessa, sono sorpreso, dev’essere una persona importante, non hanno mai pagato così tanto. Nel plico vi è un’altra busta chiusa, la apro, so già che contiene la foto del prossimo contatto con tutti i dati relativi alla persona e all’ambiente in cui vive. Vi è anche un biglietto con una scritta ben precisa e chiarificatrice: “tempo massimo dieci giorni”. Nient’altro, significa che il contratto dovrà essere chiuso entro e non oltre quel tempo stabilito, le modalità sono a mia discrezione.

È sabato, in mattinata ho chiamato Elena le ho detto che sarei arrivato verso diciotto e trenta lei mi ha risposto che mi avrebbe atteso presso un piccolo parco ai piedi della collina della Superga, poco distante dall’abitazione del suocero, non vuole allontanarsi troppo dal suo bambino.
Ho indossato un abito scuro di lanetta, camicia e cravatta, ho inforcato un paio di occhiali e in testa un Borsalino di cotone, anch’esso grigio. Siamo in ottobre, ancora non fa freddo ma nemmeno caldo, ho portato con me uno spolverino leggero ma non indosso, piegato con cura avvolge il mio braccio destro.
Cammino con passo spedito, so dove si trova il parco da lei indicato, è piccolo ed anche non eccessivamente illuminato, a quest’ora è quasi deserto, vi entro da un’entrata laterale, da lontano la vedo seduta su una panchina. Dista una trentina di metri, mi avvicino e noto come con la punta dei piedi freme d’impazienza, si guarda continuamente da un lato all’altro, mi ha già visto due volte ma senza riconoscermi, l’ultima volta indossavo un completo jeans, alquanto consumato. Intanto continuo ad avvicinarmi, sono ormai a meno di tre metri da lei. Punto decisamente verso di lei, per la terza volta lei guarda verso di me, curiosa che io non cambio direzione. Sono a due metri, lei si irrigidisce sulla panchina, sono a un metro, adesso mi osserva attentamente, finalmente mi riconosce, aggrotta la fronte per la sorpresa e un immenso sorriso le illumina il volto, il proiettile la centra esattamente la fronte lasciandole come buco d’ingresso un puntino appena visibile. La sua testa ha un sobbalzo all’indietro e poi si accascia senza vita sulla panchina.
Non mi fermo, continuo nella mia direzione senza alterare il passo, so che il proiettile, se non è fuoriuscito, non fatto grandi sconquassi, è un calibro 22, non era necessario usare un’arma più potente, le avrebbe spappolato la testa.
Nei cento metri successivi ho il tempo di svitare il silenziatore della pistola che impugno nascosta dallo spolverino, appena fuori il parco lo lascio scivolare per terra e con il piede lo accompagno a cadere in un grata della raccolta di acqua piovana. Poco più avanti strappo il colletto della finta camicia con la cravatta e la stessa la faccio scivolare attraverso l’anello del grilletto della pistola, ormai scarica, vi avevo messo il solo colpo in canna. Annodo la cravatta al grilletto e sul ponte Vittorio Emanuele, fingendo una breve sosta la faccio cadere in acqua. Arrivo alla stazione centrale, entro in sala d’aspetto e poggio lo spolverino su una spalliera poi mi dirigo sotto il tabellone delle partenze fingendo di controllare gli orari, dopo qualche minuto esco dirigendomi verso il bagno. Qui assesto il colletto della polo indossata sotto la finta camicia, tolgo la giacca e strappo la copertura del colletto, sotto vi appare un colletto bianco, rivolto la giacca, la parte interna ha sulla schiena una cineseria, con tanto di stemma sul taschino anteriore. Esco dal bagno e ripasso davanti la sala d’attesa, lo spolverino, come calcolato, non c’è più, ha cambiato possessore. Dieci minuti dopo salgo sul treno, un Intercity diretto a Crotone, località che non raggiungerò, scenderò di nuovo a Piacenza e, questa volta, dopo essermi cambiato i vestiti presso un monolocale che ho in fitto da alcuni anni nei pressi della stazione, riparto per Milano con un autobus di linea.

Ancora una notte insonne, la più tremenda delle notti. La mia rabbia impotente si comprime in un cupo mutismo. Ho dovuto uccidere la donna di cui mi ero perdutamente innamorato e con la quale avevo sognato di cambiare vita. Ricordo quando ho aperto la seconda busta contenente la sua fotografia, sono rimasto di sasso per l’atroce destino che mi condannava ad eliminare proprio la mia donna del cuore. Purtroppo la situazione non consentiva alcuna scelta, dovevo portare a termine il contratto altrimenti sarebbe stata la fine per entrambi.
Ripenso anche allo svolgimento dello stesso, non una sbavatura, tutto si è svolto in pochi secondi come previsto nei minimi dettagli. Purtroppo nel mio lavoro sono apprezzato per la meticolosità e la pulizia con cui eseguo i contratti. Sono un professionista serio, sono un perfetto killer.
Ora, pur con tanto strazio, ho chiuso un capitolo ma se ne apre un altro, Elena grida vendetta ed è quello che avrà. Domani presento le mie dimissioni, unendo il mio ultimo compenso con tutti i miei risparmi farò un bonifico ai genitori di lei, scriverò, per ogni evenienza, una lettera ad uno studio notarile esigendo che siano puntigliosamente rispettate le mie volontà e poi entrerò in azione, questa volta il termine ultimo per il mio contratto privato sarà di ore, non di giorni, al massimo quarantotto.

In attesa che l’Agenzia formalizzi le mie dimissioni ho telefonato a Dibortolo, con la scusa delle condoglianze ho fissato un appuntamento di lavoro per martedì, esattamente domani mattina, sarò puntualissimo.
Con un taxi arrivo fin davanti la villa, appena sceso sistemo le mie armi, due Glock 45 automatiche e questa volta con i caricatori pieni. Per il mio scopo basta un solo proiettile ma presumo che il personaggio tanto di spicco si circondi di guardie del corpo, non dimentico che è il mandante di un omicidio e quindi disposto a tutto.
Un inserviente viene al cancello, mi presento, mi fa entrare, mi precede fino davanti la porta di un ufficio, qui si ferma, mi comunica che il suo padrone mi attende all’interno, apre la porta e si discosta per farmi entrare per poi richiuderla subito dopo alle mie spalle, troppo velocemente.
Compio due passi e sono accolto da un sibillino “Ben venga signor Ziegler”, l’uomo è lontano circa sette metri da me, è in piedi dietro ad una grande scrivania, con la coda dell’occhio percepisco un movimento alla mia sinistra, estraggo le armi e faccio fuoco contemporaneamente incrociandole. Con la sinistra su Dibartolo e con la destra sul tipo comparso alla mia sinistra con una pistola puntata su di me.
Cadono entrambi senza vita, li ho centrati alla testa, come sempre non sbaglio mai, ma un attimo dopo avverto un immenso dolore al fianco destro e un bruciore infernale allo stomaco. Mi accascio per terra piegato in due. Maledizione! Erano in due e non ho visto quello alla mia destra, il figlio di puttana non si è mosso subito ha atteso che noi sparassimo poi ha fatto fuoco anche lui. Tutto in una questione di secondi, giusto quanto bastano.
Dev’essere sicuramente un professionista, ho mollato le pistole, non mi servono affatto, so di stare per tirare le cuoia. Mi chiedo perché ha mirato al corpo, questo prolungherà la mia agonia di parecchio. Bastardo, chi sei?
Riesco a sollevare lo sguardo su di lui e la sorpresa questa volta cancella il dolore. È Moretti, un mio collega dell’Agenzia, il numero due dopo di me. Egli mi ha raggiunto e ora si accovaccia vicino a me, impugna ancora la sua arma, puntandola innocuamente per terra.
“Cazzo! tu? Perché sei qui?”! gli chiedo. Lui scuote la testa prima di rispondere.
“Ma che cazzo ti è preso Ziegler di dare il tuo vero nome? Non potevi farne a meno?”
“Non puoi capire” gli rispondo. Ma lui capisce benissimo, perché prima annuisce poi dice.
“Volevi cambiare vita con lei vero?”
“Visto che lo sai! Come sono andate le cose?” voglio saperlo prima di tirare le cuoia.
“Prima hai dato il tuo nome a lei che lo ha riferito al suocero dicendogli cosa rappresentavi per lei, poi hai ridato il tuo nome a lui. Non ci ha messo molto a fare due più due ed essendosi già rivolto all’Agenzia una volta lo ha rifatto per te. Da quel momento la tua sorte era segnata”
“Ho capito. Ma perché non alla testa?” gli chiedo ancora.
“Perché voglio darti la possibilità di farti esaudire l’ultimo desiderio, per un amico si deve fare di tutto. Dimmi cosa vuoi che faccia per te” E’ onesto, lo è sempre stato.
“Il bambino, Moretti, portalo dai nonni materni”
“Contaci, entro stasera sarà fatto”
“Ma adesso sbrigati, non vorrai farti trovare qui? Sento in lontananza già le sirene, stanno arrivando”
“Ok, amico, non preoccuparti” Solleva l’arma verso di me, ascolto il rumore del cane mentre lo arma.
“Grazie Moretti” faccio in tempo a dirgli, ma non sento la sua risposta.
“Addio Ziegler”.




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