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La Vergine dà alla luce la Luce

di Maria Valtorta 

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Pubblicato il 21/12/2016 13:09:22

Vedo ancora l’interno di questo povero rifugio petroso dove hanno trovato asilo, accumunati nella sorte a degli animali, Maria e Giuseppe.

Il fuocherello sonnecchia insieme al suo guardiano. Maria solleva piano il capo dal suo giaciglio e guarda. Vede che Giuseppe ha il capo reclinato sul petto come se pensasse, e pensa che la stanchezza soverchi il suo buon volere di rimanere desto. Sorride d’un buon sorriso e, facendo meno rumore di quanto ne può fare una farfalla che si posi su una rosa, si mette seduta e da seduta in ginocchio. Prega con un sorriso beato sul volto. Prega a braccia aperte, non proprio a croce ma quasi, a palme volte in alto e in avanti, né mai pare stanca di quella posa penosa. Poi si prostra col volto contro il fieno in una ancora più intensa preghiera. Lunga preghiera.

Giuseppe si scuote. Vede quasi morto il fuoco e quasi tenebrosa la stalla. Getta una manata di eriche fini fini e la fiamma risfavilla; vi unisce rametti più grossi, e poi ancora più grossi, perché il freddo deve esser pungente. Il freddo della notte invernale e serena che penetra da tutte le parti di quella rovina. Il povero Giuseppe, presso come è alla porta – chiamiamo pure così il pertugio a cui fa da tenda il suo mantello – deve essere gelato. Accosta le mani alla fiamma, si sfila i sandali e accosta i piedi. Si scalda. Quando il fuoco è ben desto e la sua luce è sicura egli si volge. Non vede nulla, neppure più quel biancore del velo di Maria, che prima metteva una linea chiara sul fieno scuro. Si leva in piedi e lentamente si avvicina al giaciglio.

“Non dormi, Maria?” chiede. Lo chiede tre volte, finché Ella si riscuote e risponde:

“Prego.”

“Non abbisogni di nulla?”

“No, Giuseppe.”

“Cerca di dormire un poco. Di riposare almeno.”

“Cercherò. Ma pregare non mi stanca.”

“Addio, Maria.”

“Addio, Giuseppe.”

Maria riprende la sua posa. Giuseppe, per non cedere più al sonno, si pone in ginocchio presso il fuoco e prega. Prega con le mani strette sul viso. Le leva ogni tanto per alimentare il fuoco e poi torna alla sua fervente preghiera. Meno il rumore della legna che crepita e quello del ciuchino, che di tanto in tanto batte uno zoccolo sul suolo, non si ode niente.

Un poco di luna si insinua da una crepa del soffitto e pare una lama di incorporeo argento che vada cercando Maria. Si allunga, man mano che la luna si fa più alta in cielo, e la raggiunge finalmente. Eccola sul capo della orante. Glielo innimba di candore. Maria leva il capo come per una chiamata celeste e si drizza in ginocchio di nuovo. Oh, come è bello qui! Ella alza il capo, che pare splendere nella luce bianca della luna, e un sorriso non umano la trasfigura. Che vede? Che ode? Che prova? Solo Lei potrebbe dire quanto vide, sentì e provò nell’ora fulgida della sua Maternità. Io vedo solo che intorno a Lei la luce cresce, cresce, cresce. Pare scenda dal cielo, pare emani dalle povere cose che le stanno intorno, pare soprattutto che emani da Lei. La sua veste azzurra cupa pare ora di un mite celeste di miosotis, e le mani e il viso sembrano farsene azzurrini come quelli di uno messo sotto il fuoco di un immenso zaffiro pallido. Questo colore, che mi ricorda benché più tenue quello che vedo nelle visioni del santo paradiso e quello che vidi nella visione della venuta dei Magi, si diffonde sempre più sulle cose, le purifica, le fa splendide.

La luce si sprigiona sempre più dal corpo di Maria, assorbe quella della luna, pare che Ella attiri in sé quella luce che le può venire dal cielo. Ormai è Lei la depositaria della Luce. Quella che deve dare questa Luce al mondo. E questa beatifica, incontenibile, immisurabile, eterna, divina Luce che sta per esser data si annuncia con un’alba, una diana, un coro di atomi di luce che crescono, crescono come una marea, che salgono, salgono come un incenso, che scendono come una fiumana, che si stendono come un velo…

La volta piena di crepe, di ragnatele, di macerie sporgenti che stanno in bilico per un miracolo di statica, nera, fumosa, repellente, pare la volta di una sala regale. Ogni pietrone è un blocco di argento, ogni crepa un guizzo di opale, ogni ragnatela un preziosissimo baldacchino contesto di argento e diamanti. Un grosso ramarro, in letargo fra due macigni, pare un monile di smeraldo dimenticato là da una regina; e un grappolo di pipistrelli in letargo una preziosa lumiera d’onice. Il fieno che pende dalla più alta mangiatoia non è più erba, sono fili e fili di argento puro che tremolano nell’aria con la grazia di una chioma disciolta. La sottoposta mangiatoia è, nel suo legno scuro, un blocco d’argento brunito. Le pareti sono coperte di un broccato in cui il candore della seta scompare sotto il ricamo perlaceo del rilievo, e il suolo… che è ora il suolo? E’ un cristallo acceso da una luce bianca. Le sporgenze paiono rose di luce gettate per omaggio al suolo; e le buche coppe preziose da cui debbano salire aromi e profumi.

E la luce cresce sempre più. E’ insostenibile all’occhio. In essa scompare, come assorbita da un velano d’incandescenza, la Vergine… e ne emerge la Madre.

Sì. Quando la luce torna a essere sostenibile al mio vedere, io vedo Maria col Figlio neonato sulle braccia. Un piccolo Bambino, roseo e grassottello, che annaspa e zampetta con le manine grosse quanto un boccio di rosa, e coi piedini che starebbero nell’incavo di un cuore di rosa; che vagisce con una vocina tremula, proprio di agnellino appena nato, aprendo la boccuccia che sembra una fragolina di bosco e mostrando la linguetta tremolante contro il roseo palato; che muove la testolina tanto bionda da parere quasi nuda di capelli, una tonda testolina che la Mamma sostiene nella curva di una sua mano, mentre guarda il suo Bambino e lo adora piangendo e ridendo insieme, e si curva a baciarlo non sulla testa innocente, ma sul centro del petto, là dove sotto è il cuoricino che batte, batte per noi… là dove un giorno sarà la ferita. Gliela medica in anticipo quella ferita la sua Mamma col suo bacio immacolato.

Il bue, svegliato dal chiarore, si alza con gran rumore di zoccoli e muggisce, e l’asinello volta il capo e raglia. E’ la luce che li scuote, ma io amo pensare che essi hanno voluto salutare il loro Creatore, per loro e per tutti gli animali.

Anche Giuseppe, che quasi rapito pregava così intensamente da esser isolato da quanto lo circondava, si scuote e dalle dita strette al viso vede filtrare la luce strana. Leva le mani dal viso, alza il capo, si volge. Il bue ritto in piedi nasconde Maria. Ma Ella chiama:

“Giuseppe, vieni.”

Giuseppe accorre. E quando vede si arresta, fulminato di riverenza, e sta per cadere in ginocchio là dove è. Ma Maria insiste:

“Vieni, Giuseppe.” e punta la mano sinistra sul fieno e, tenendo con la destra stretto al cuore l’Infante, si alza e si dirige a Giuseppe, che cammina impacciato per il contrasto fra il desiderio di andare e il timore di essere irriverente. Ai piedi della lettiera i due sposi si incontrano e si guardano con un pianto beato.

“Vieni, ché offriamo al Padre Gesù.” dice Maria.

E mentre Giuseppe si inginocchia, Ella, ritta in piedi fra due tronchi che sostengono la volta, alza la sua Creatura fra le braccia e dice:

“Eccomi. Per Lui, o Dio, ti dico questa parola. Eccomi a fare la tua volontà. E con Lui io, Maria, e Giuseppe, mio sposo. Ecco i tuoi servi, Signore. Sia fatta sempre da noi, in ogni ora e in ogni evento, la tua volontà, per la tua gloria e per amor tuo.”

Poi Maria si curva e dice: “Prendi, Giuseppe.” e offre l’Infante.

“Io? A me? Oh, no! Non sono degno!” Giuseppe è sbigottito addirittura, annientato all’idea di dover toccare Iddio.

Ma Maria insiste sorridendo: “Tu ne sei ben degno. Nessuno più di te lo è, e per questo l’Altissimo ti ha scelto. Prendi, Giuseppe, e tienilo mentre io cerco i panni.”

Giuseppe, rosso come una porpora, stende le braccia e prende il batuffolino di carne che strilla di freddo e, quando lo ha fra le braccia, non persiste nell’intenzione di tenerlo scosto da sé per rispetto, e se lo stringe al cuore, dicendo con un grande scoppio di pianto:

“Oh, Signore! Dio mio!” e si curva a baciare i piedini e li sente freddi, e allora si siede al suolo e se lo raccoglie in grembo e con la sua veste marrone e con le mani cerca di coprirlo, scaldarlo, difenderlo dalla sizza della notte. Vorrebbe andare verso il fuco, ma là c’è quella corrente d’aria che entra dalla porta. Meglio stare qui. Meglio anzi andare fra i due animali, che fanno da scudo all’aria e che mandano calore. E va fra il bue e l’asino e sta con le spalle alla porta, curvo sul Neonato per fare del suo petto una nicchia, le cui pareti laterali sono una testa bigia dalle lunghe orecchie e un grosso muso bianco dal naso fumante e dall’umido occhio buono.

Maria ha aperto il cofano e ne ha tratto lini e fasce. E’ andata al fuoco e le ha scaldate. Eccola che va a Giuseppe e avvolge il Bambino nella tela intiepidita e poi nel suo velo per riparargli la testolina.

“Dove lo mettiamo ora?” chiede.

Giuseppe guarda intorno, pensa… “Aspetta.” dice. “Spingiamo più in qua i due animali e il loro fieno e tiriamo giù quel fieno là in alto e lo mettiamo qui dentro. Il legno della sponda lo riparerà dall’aria, il fieno gli farà guanciale e il bue col suo fiato lo scalderà un pochino. Meglio il bue. E’ più paziente e quieto.”

E si dà da fare, mentre Maria ninna il suo Bambino, stringendoselo al cuore, e tenendo la sua guancia sulla testolina per dargli calore.

Giuseppe ravviva il fuoco senza risparmio per fare una bella fiamma e scalda il fieno e man mano che lo asciuga perché non raffreddi se lo mette in seno. Poi, quando ne ha raccolto tanto da farne un materassino all’Infante, va alla mangiatoia, lo dispone che sia come una cunella.

“E’ pronto.” dice. “Ora ci vorrebbe una coperta, perché il fieno punge, e per ricoprirlo…”

“Prendi il mio mantello.” dice Maria.

“Avrai freddo.”

“Oh, non fa nulla. La coperta è troppo ruvida. Il mantello è morbido e caldo. Io non ho freddo per nulla. Ma che Egli non soffra più!”

Giuseppe prende l’ampio mantello di morbida lana celeste cupo e lo accomoda in doppio sul fieno, con un lembo che pende fuor dalla greppia. Il primo letto del Salvatore è pronto.

E la Madre, col suo dolce passo ondeggiante, ve lo porta e ve lo depone, e lo ricopre con il lembo del manto e lo conduce anche intorno al capino nudo, che affonda nel fieno, appena riparato da questo dal sottile velo di Maria. Rimane scoperto solo il visetto, grosso come un pugno d’uomo, e i due, curvi sulla greppia, lo guardano beati dormire il suo primo sonno, perché il calduccio delle fasce e del fieno ha calmato il pianto e conciliato il sonno al dolce Gesù.

 

(Dagli scritti della mistica Maria Valtorta.)

 


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