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Sillabari dal cortile

Poesia

Fernando Della Posta
Macabor

Recensione di Gian Piero Stefanoni
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Pubblicato il 10/09/2021 12:00:00

 

Di Fernando Della Posta già avemmo a scrivere a proposito di “Sembianze della luce”, uscito nel 2020 per Ladolfi, nella distinzione di un’opera intimamente ferma e di lì attraversante nei frantumi di un mondo dolentemente piegato, e indifferente alle proprie logiche di rifiuto, di negazione. La forza di questa scrittura, che in quest’ultimo lavoro resta, più forte, pienamente confermata, non è però si badi bene in un aggressivo e cronachistico dettato nella superficie della sua denuncia ma come detto nella sapiente maestria con cui le cose, le figure, le città sembrano nella pronuncia stessa della parola, della loro esistenza riaffiorare ancora e riaffermarsi, seppure per un breve attimo prima di un inevitabile riaffondo nel buio. Così è in questa partecipata espansione in dissolvenza la verità di un autore che ha nel balbettio la registrazione della sua, della nostra umanità sofferente (e che nell’intelligenza del dialogo sa ben guardare alla storia alla presenza autoriale di chi lo ha preceduto, pensiamo in questo caso oltre al citato Zeichen a Caproni e allo stesso Pasolini). Alfabeto allora e sillabario nella consapevolezza di una ricostruzione, forse, che può muovere solo dal riapprendimento dal basso (di cortili certo nella simbologia dell’incontro e della prova), dal dire di un muovere per ombre alla luce di un sottomondo, dei tanti sottomondi (così avemmo a chiamarli) le cui fratture più che all’ascolto muovono alla luce. Sono spazi questi di Della Posta, autore versatile anche nell’attenzione critica dedicata alla altrui poesia, di spoliazione infatti, che nella sobrietà della parola e di ciò che resta dalle rovine ha nella povertà del possibile (intesa anche come essenzialità, denudata chiarezza) e dunque dell’amore come unica offerta. “Lievito madre”, seme e “fiore di filo spinato” che nella totalità delle sue accezioni tenta i propri naturali e dovuti riappropriamenti a partire da una identità che ha nella corporeità la sua istanza, il suo riconoscimento nella reciprocità del dettato. L’ordine, il “meccanismo” (nello scenario di una Roma che ha la sua dominante, anche se non mancano accenni ad altre metropoli), rotto e ricomposto dal sentirsi, dirsi nella pronuncia di un ritrovamento (del ritrovamento forse non a caso stavamo scrivendo) che vale per le cose, gli elementi e le figure tutte che care ci fanno e ci ricordano ad una terra altrimenti sola, desolata, saccheggiata allora sì. La vita nella sottolineatura non è tra altezze e perfezioni ma semplicemente nella sua naturalità (ed infatti tanti sono i riferimenti ai bambini), nella regalità della gioia e non del dominio ognuno non sfuggendo al rischio di non portare frutto (“non c’è altro modo per volervi/ bene, se non lasciarvi arbitri senza/ obblighi, con una pallida memoria/ di leggi lasciate lungo il cammino” è scritto in “Dono”). Così, a proposito di frutto, è dalla terra stessa che dovremmo riapprendere, da un’abilità che passa anche dall’abbandono per poter tornare in “coincidenza di veste e sostanza,/ fino al mallo della pietra,/ nuova creatura”. Terra che però può, ha abitazione solo nella consapevolezza di un processo che non ha esclusioni ci viene ricordato, non essendoci vera salvezza nella dimenticanza degli altri semmai il moltiplicarsi nella distanza della sensazione di un insensato appartenere, del far parte ancora- sempre,- di una tribù sbagliata, separata per questo e dunque persa perché non più umana. Sano allora nell’esodo da se stessi per Della Posta alimentarsi al dubbio, di un messa a fuoco della giustezza delle disposizioni, come quella del pudore ad esempio, a quali fonti se di salvezza o di dannazione possono muovere. Aggiungiamo infine andando a concludere che ciò che contraddistingue e fa cara questa scrittura è propria la rara capacità dell’autore di dire e dirsi entro una presenza che non si avverte, quasi anonima nell’incisione di un segno che proprio per questo resta imponendosi con più forza, il dettato una registrazione che risale dal reale, non un punto di vista dunque ma un espanso punto di sentire. E questo non è poco nel servizio anche a un dire poetico che si va smarrendo.

 


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