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’Elegia’ - Una raccolta poetico-narrativa di Mariasole Ariot

Argomento: Poesia

di Giorgio Mancinelli
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Pubblicato il 16/04/2022 05:50:29



“Elegia” … o della tensione poetico-narrativa.
Una raccolta di Mariasole Ariot – XXXV Premio Lorenzo Montano – Anterem Edizioni / Cierre Grafica 2022.

“È così il buio: è così la luce.”

L’insorgere di una necessaria assenza di parola che può far pensare a una qualche sofferta dimenticanza che di fatto lascia sgomenti, non trova soglia in queste pagine di Mariasole Ariot, tendenti a ricreare attorno al suo dire, il vuoto causale che l’accompagna e le riveste d’aura poetica, traendone il massimo profitto narrativo …

“Ancora – premere ancora – i bulbi delle cose – andare a fondo – nella notte chiara la chiara della vista – che non vedo – quando appare – e non ripara – la corda, questo piccolo morire.”

Non un vuoto interstiziale dunque, separa le frasi in ‘sospensione’, ma un pieno concettuale che ne riveste le pause latenti, come in uno spartito musicale, essenziali alla composizione d’insieme fortemente espressiva, se vogliamo drammatica, come può dirsi di tutta l’opera wagneriana che, d’altra parte, lascia spazio a eventi, attese, emozioni che alimentano il ‘climax’ sviluppato dalla dilatazione dei tempi narrativi, così “…la notte – quando non dormire – […] che dice il confine – e sprofonda – sprofonda ciò che mi ha fondato.”

E “Di nuovo un’identità – mancata – si scompensano le cose vive – e i vivi delle strade – questa strada senza passanti – questi passati che ronzano d’intorno – non stentano mai a morire.”

La resa wagneriana è altamente suggestiva, si pensi ai contrasti fra elementi della natura, ai cieli torbidi di nuvole come schiere avverse che si confrontano sul campo; al costante tragico viluppo del bene e del male a scapito dell’identificazione e del riconoscimento; alla drammatica sopravvivenza dei personaggi ‘elegiaci’ che si muovono sulla scena e che, viceversa, s’agitano in noi spettatori, presi nel vortice sovrasensibile degli eventi …

Noi che siamo, che: “Abitiamo – case sconosciute quanto chiaro è il chiaro – il salto che trascura – i piani e l’altezza delle scale – la scelta che non sceglie la mia scelta – un cranio senza scoglio – una scogliera.”

E ancora si pensi alla tensione dei sentimenti che attanaglia tutti, personaggi e spettatori, nel conflitto quotidiano tra la vita e la morte, allorché non rimane che contare nel ‘vuoto’, che non è il ‘nulla’, il numero dei morti rimasti disseppelliti, la somma dei cadaveri mangiati, dei figli spuri disconosciuti, degli avanzi di una tavola riccamente imbandita ch’è pur è la vita: questo nostro vivere obliato senza remissione …

“Dicono si torca il mondo – come il cibo – digerito delle tavole – dell’ultima cena per la cena mancata – quando ti nascondi dall’occhio – che preme all’infuori e rincorre – poi nascondersi – nelle parti che ho mangiato.”

E verosimilmente trovarsi a rigurgitare davanti allo specchio la propria filantropica essenza, pur senza voler essere benevoli con se stessi, vissuti con “Il terrore – di dire – e di non dire – la verità che a volte – arriva – in una notte – mentre riposano i mille – personaggi che hai creato – e tu diventi – la loro stana vuota.”

Un vuoto di scena che spaventa, allorché la brama d’essere lascia spoglie insepolte, incustodite, dell’anima che in ginocchio prega sulla nuda terra una qualche defezione di memoria, di oltraggio subito, di violenze oscene, di manchevolezze arbitrarie contro la dignità cercata: un’intima battaglia che si consuma sul campo della vita nell’amletico dubbio “essere e non essere” di shakespeariana memoria …

“Cronacare – una nebbia sulla lingua – cronacare i dettagli dei corpi, cronacare – la scorza dei feriti – questa misura – oscura che grava sulle cose – di questo misurare – i territori dei sepolti.”

E ancora …

“Si muove solo – l’interno – accadersi per cadere – non avere alcun – appiglio – alla scena madre – questa madre da cui siamo - scivolati fuori – a velocità di verme – camminare a ritroso – laggiù – in un passato che muove nessun presente – solo un vissuto – per chiedersi – se mai hai vissuto.”

Ma per quanto vi è detto, l’autrice non esclude alcuna attribuzione di colpa subita, né suggerisce una possibile via di fuga. La colpa, se di questa si tratta, rimane ancorata al peccato d’essere qui, adesso, al cospetto di un Dio ineluttabile, nascosto alla vista, intransigente quanto impietoso …

Il tributo dovuto è in queste pagine solo apparentemente bianche, che pure non chiedono riscatto …

“E non è forse – ogni segno come un sogno una vaga – interpretazione – essere ciò che l’altro – altrove – dice l’essere che sei – e non è – forse ciò che pensi l’accaduto – solo interpretare un accadere – come dimostrare il vero – quando si cela.”

“È così il buio: è così la luce … dove mai è dire sempre.”

Una costante tensione poetico-narrativa attanaglia l’autrice di questi illuminati versi metonimici, traslati d’una sceneggiatura artata, al cui dramma assistono fugaci ombre del vissuto, incolori, che attraversano la tela di fondo alla ricerca della verità, per un ‘teatro degli opposti’ senza né vinti né vincitori …

“Attraverso il deserto mi deserto – destare un’opinione – sul margine del foglio – sfogliarmi separarmi misurarmi – avermi e non avere – per avermi – reciso l’esistenza.”


L’autrice:
Mariasole Ariot, ha al suo attivo una lunga collaborazione alla rivista scientifica lo Squaderno, dal 2014 è redattrice della rivista letteraria online Nazione Indiana. Sue pubblicazioni: “Simmetrie degli spazi vuoti” con G. Bortolotti – Arcipelago Edizioni 2013; “Anatomia della luce” Aragno 2017.
Nell’ambito delle arti visuali, ha collaborato alla realizzazione del cortometraggio “I’m a Swan” (2017), e “Dove urla il deserto” (2019).










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