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Il ragno

di Stefano Verrengia
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Pubblicato il 14/01/2019 19:12:12

IL RAGNO

 

Io ti invidio,

che non conosci

il terrore del gelo

delle notti solitarie,

quando l’orrore

assale la mia anima

come una nera pantera

che si fionda

da un albero sulla preda.

Così certa, Anthea,

amore mio, tu non conosci

gli scrosci dei fiumi

dei boschi oscuri

dove cammino

cercando stelle riflesse

nelle acque di questo Stige,

cercando la salvezza

dallo schivo e fatale pensiero.

E vivo, in quest’ebbrezza

Oscura che mi esalta

E mi abbandona,

che opprime la mia anima

come una pistola sulla tempia.

E nulla mi consola,

neanche il tuo corpo

e il tuo sorriso malizioso,

neanche la poesia

che, come un ladro bastardo,

mi ruba ogni giorno

di un pezzo d’anima,

che mi mostra il mare

e poi vuole affogare

nel suo immenso

ogni mia maledetta

frustrazione.

Io ti invidio,

che non hai mai

sentito quella canzone

tetra che promette

che la fossa sarà

riposo e pace,

che mi ricorda

che tace il dolore

lì dove tace il cuore,

lì dove tace l’umanità.

E tu sai, sai perfettamente,

come avrei dato la mia vita

solo per esser chiamato “poeta”,

per scrivere una strofa d’acciaio,

un verso di diamante,

una rima devastante

come un uragano.

Ed a volte ci penso,

lo ammetto:

accetto il mio petto

come un tronco secco

per gettarlo nel camino

e riscaldarmi in questo

infinito gelo,

per scongelare

il triste pensiero …

ma questo fuoco nero

non riesce neanche

a riscaldare le mie parole!

La penna trema

Nelle mie mani

Come un fucile

ad un cadetto

In guerra,

come un ramoscello

nel vento di Dicembre.

Non te lo nascondo,

mia dolce mosca:

a stento potrò

andare avanti ancora,

a stento potrò

guardare

questa notte fosca

senza provare

disgusto in questo angusto

anfratto di dolore.

La malinconia

È una tirannica regina

Che ha per scettro

Follia, fame ed angoscia.

E le lame del pensiero

Hanno tagliato le mie vene,

la mia carne,

come fosse burro,

e hanno riempito

la coppa di questa

puttana del mio sangue

avvelenato,

del mio sangue disperato.

Io ti invidio,

perché tu non conosci

il Dubbio, che si attanaglia,

si nasconde come un ratto,

che sguscia fuori dalla sua

tana e squittisce fastidiosamente,

e del banale formaggio

non lo farà cadere in trappola,

non mi permetterà

di ammazzarlo

e di gettarlo in un cassonetto

per non rivederlo mai più.

Non ho più poesia

Nelle mie corde:

il fumo, il vino e la disperazione

le hanno logorate,

corde di violino usurate,

dal suono osceno.

E mi dimeno,

come un pazzo

con la camicia di forza,

ma mi legano fili

invisibili, ragnatele

indistruttibili,

ed il ragno

sta per venire a prendermi,

sta per divorarmi.


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